Capitolo 5

“Indietreggio molte volte, cado, mi fermo, corro verso il ciglio degli ostacoli nascosti, perdo la pazienza e la ritrovo e cerco di mantenerla…”

- Helen Keller, La storia della mia vita

Cletus

«Lei non mi piace.» L’annuncio di Beau venne sottolineato dalla porta che andò a sbattere contro il muro. Aveva appena fatto irruzione quasi sfondandola.

Supponevo che mio fratello si aspettasse una mia reazione alla sua dichiarazione. Io non reagii. Ero troppo impegnato a confermare un’operazione di borsa su eTrade Pro e avevo appena dieci secondi per concluderla.

«Cletus? Mi hai sentito? Non mi piace. Non può lavorare qui.»

Confermai l’ordine limite, attesi che la schermata di conferma si caricasse, e poi controvoglia prestai la mia attenzione a Beau. «Non importa se ti piace o no, Beau. Quello che importa è se Shelly Sullivan sia o no un bravo meccanico. È un bravo meccanico. Dunque, per di più, appunto per questo, in merito a ciò… eccetera. Riempi tu gli spazi vuoti.»

Mi aveva preso in una brutta giornata. O meglio, in una brutta settimana. Non ero incline ad accogliere lamentele. Anche se era giovedì, quattro giorni dopo il mio spiacevole incontro con Jennifer Sylvester, io continuavo a esserne ossessionato. Ero con la testa tra le nuvole da domenica.

La mattina dopo che Jennifer aveva avanzato le sue pretese, io avevo dimenticato di presentare Beau – che era tornato da un viaggio di lavoro a Nashville quella mattina – alla nostra nuova meccanica. Lui era entrato nell’officina, avevano parlato e immediatamente l’aveva trovata antipatica. Analogamente a oggi, in un’atipica dimostrazione di rabbia, Beau aveva fatto irruzione nell’ufficio dell’officina pretendendo il licenziamento di Shelly. Non sapevo cosa fosse successo tra loro. Non mi importava. Non l’avrei licenziata.

«Forse sarà anche decente come meccanico. Questo te lo concedo. Ma è spinosa come un porcospino.»

«No, Beau. Non è un meccanico decente. È un ottimo meccanico. Beau aprì la bocca per protestare, ma io parlai prima di lui. «Duane se ne va prima del Ringraziamento. Per noi il lavoro è già troppo. Ci serve un aiuto. Ora lasciami in pace. Devo finire qui prima di incontrarmi con Drew.»

Risolta la questione, riportai la mia attenzione al portatile e feci scorrere la pagina di statistiche dell’account di trading principale.

Nel frattempo, il mio fratello minore cercava di scavarmi un buco nella tempia con lo sguardo.

«Ti chiedo gentilmente di smettere di cercare di forarmi il cervello con quei raggi laser che chiami occhi.»

«Non abbiamo finito di parlare.»

Queste persone testarde e le loro pretese erano come briciole di cracker nella mia barba: irritanti e sgradevoli.

Sospirai, frustrato, e voltai la sedia girevole da ufficio per guardare in volto mio fratello. «Perché non parli d’altro, come per esempio l’organizzazione dell’addio al celibato di Jethro? Hai finito la caccia al tesoro?»

«Sì, l’ho finita. Due settimane fa. Smettila di cambiare argomento.»

«D’accordo, allora.» Digrignai i denti. «Continua, parla pure di Shelly.»

«È maleducata. Non solo con me. Ma anche con i clienti.»

«Perché parla lei con i clienti? È il tuo lavoro.»

«Cosa vuoi che faccia? Che la nasconda sotto una macchina? È impossibile non notarla, Cletus. Sembra una di quelle… di quelle… di quelle modelle sulle riviste.»

«Di quale genere di riviste?»

Beau leggeva solo due generi di riviste. In entrambe c’erano foto di belle carrozzerie. Uno solo di quei generi di riviste riguardava le macchine.

Alzò le mani per aria prima di portarsele ai fianchi. «Sai cosa voglio dire. Appena la vedono le persone vogliono parlare con lei.»

«Vuoi dire che appena la vedono, gli uomini vogliono parlare con lei.»

«E va bene. Sì. Gli uomini. Gli uomini vogliono parlare con lei. E lei li insulta. Pensi davvero che sia una buona strategia per gli affari? Assumere una donna bellissima per insultare i nostri clienti?»

«No. No, non lo penso» dissi con solennità, ma la mia bocca scattò in alto prima che potessi fermarmi. Non era bene per gli affari, ma era così divertente.

«Oh, lo trovi buffo?»

Mi tremavano le spalle perché stavo ridendo.

«Stai ridendo

«No» dissi tra una risata e l’altra.

Beau emise un verso di disgusto e frustrazione. Poi con una manata rabbiosa spazzò via una tazza piena di matite e penne, una pila di ricevute e la posta in arrivo da sopra lo schedario che serviva da archivio. Smisi di ridere.

«Ora raccoglierai questo casino, Beau Fitzgerald Winston.»

I suoi occhi spara raggi laser si ridussero a due fessure e lui indicò con l’indice il casino. «Lo raccoglierò quando avrò voglia di raccoglierlo.»

Beau si girò, sbatté la porta e scese le scale pestando i piedi.

Io fissai il punto in cui lui era appena stato, poi la confusione che si era lasciato dietro. Se fosse stata un’altra qualsiasi settimana, avrei già iniziato a tramare qualche buona idea per una bella vendetta. Qualcosa che lo facesse infuriare e divertire al tempo stesso. Mi piaceva tenere sul chi vive la mia famiglia, visto che si aspettavano questo da me.

Ma non quel giorno.

Quel giorno ero stanco. Mi stavo ossessionando. Ed ero stanco di stare ad ossessionarmi.

Non era il ricatto che mi teneva sulle spine, al contrario. Avevo già neutralizzato il video o, per meglio dire, avevo già mosso i primi passi per neutralizzarlo.

Avevo pochissimi amici. Ma uno dei miei amici, che non nominerò, era un hacker dal talento eccezionale. Viveva a Chicago e comunicavamo ogni domenica tramite la pagina degli annunci del Chicago Tribune. Da tre mesi stavamo giocando una partita a scacchi usando messaggi in codice sul giornale.

Quella settimana avevo modificato il mio messaggio abituale da una mossa a scacchi a una richiesta di aiuto: gli avevo chiesto di hackerare il computer di Jennifer, il suo cellulare e il suo account cloud (o qualsiasi altro supporto in cui avesse potuto nascondere il video), rimuoverlo e non lasciare tracce.

Fortunatamente, quell’amico condivideva la mia stessa visione della legge. Non era il tipo di persona che credeva in una stretta obbedienza a quest’ultima. Avrei solo dovuto attendere fino a domenica. Poi avrei organizzato un incontro con la malaccorta giovane pasticciera per spiegarle che non era più in possesso del video.

E poi avrei…

Uhm.

Beh, dannazione.

Non sapevo cosa fare. Che era appunto il motivo per cui mi ero sentito scombussolato per tutta la settimana.

«Cos’è successo qui?»

La mia attenzione tornò sul mondo esterno. Drew aleggiava sulla soglia, aveva aperto la porta senza che lo sentissi. Indossava abiti da civile, invece della sua solita uniforme da guardia forestale. Il che era strano, visto che eravamo in mezzo alla settimana.

«Beau ha fatto i capricci.»

«Beau?»

Annuii una sola volta.

Le sopracciglia di Drew si alzarono in alto sulla sua fronte; entrò nella stanza e chiuse la porta. «Non è da lui. Cosa l’ha fatto arrabbiare tanto?»

«La nostra nuova assunta.»

La bocca dell’omone si curvò brevemente, in un sorriso sfuggente. «Shelly? La sorella di Quinn?»

«Sì. A Beau non piace.»

«Ne sono certo. Comunque, perché volevi vedermi?»

Questo mi piaceva di Drew: andava sempre dritto al punto quando si parlava di affari, ma era sempre filosofico quando si parlava della vita. Partecipare alla sua festa di compleanno era stata una mia priorità fin da quando l’avevo conosciuto, quattro anni fa.

Io girai lo schermo del computer e aprii la pagina QuickBooks. «I conti di mamma. Sto facendo delle modifiche di cui devi essere al corrente.»

Quando mia madre era passata a miglior vita, l’anno scorso, aveva lasciato il compito di gestire le finanze della famiglia a Drew, visto che era un buon amico di famiglia. Non voleva che quel malfattore di nostro padre ci mettesse le mani sopra.

Drew mi aveva chiesto di aiutarlo a gestire l’investimento principale: era rimasto colpito dai miei profitti nelle speculazioni giornaliere sui titoli. Io l’avevo accontentato. Ognuno dei miei fratelli e mia sorella avrebbero ricevuto la loro parte dell’eredità al compimento del trentunesimo anno. Per il momento, solo Jethro aveva raggiunto l’età necessaria ma aveva scelto di lasciare i soldi dove stavano, dato che non ne aveva bisogno al momento.

Drew prese una sedia e la girò, poi si sedette a cavalcioni con le braccia appoggiate sullo schienale. Era troppo alto per la maggior parte delle sedie. Le sue gambe erano troppo lunghe. Pertanto, si sedeva sempre a cavalcioni girando le sedie.

«Cletus, non serve che tu mi aggiorni.»

«Sciocchezze. Mamma ti ha nominato esecutore testamentario e amministratore fiduciario dei nostri conti. Questi sono affari tuoi.»

Lui si agitò sulla sedia, sembrando a disagio e non perché la sedia era troppo piccola. «Sai perché l’ha fatto, e io sono stato lieto di darle una mano. Ma tu sei più bravo di me a gestire i capitali.»

Drew Runous forse non condivideva con noi lo stesso sangue, ma io lo consideravo un fratello. Tutti noi lo facevamo. Tranne mia sorella Ashley, naturalmente. Stavano insieme dallo scorso Natale e noi ci aspettavamo che le chiedesse di sposarlo da un giorno all’altro, ormai.

Da un giorno all’altro. Da. Un. Giorno. All’altro.

Gli lanciai un’occhiata, lo vidi socchiudere le palpebre per concentrarsi mentre leggeva i totali. Li lesse ancora, poi scattò all’indietro con la bocca spalancata. Io sorrisi perché non avevo mai visto prima Drew rimanere a bocca aperta.

«Vuoi catturare le mosche, Drew?»

Lui serrò la bocca, deglutì e poi indicò lo schermo. «Che è successo?»

«Cosa vuoi dire?»

«Voglio dire, cosa hai fatto? Come hai fatto? Quello è un ritorno di… quanto, dieci volte l’investimento iniziale?»

«All’incirca, sì.» Unii i polpastrelli a triangolo davanti al mio volto e mi appoggiai allo schienale della sedia da ufficio. «Sai che mi diletto con futures e previsioni da anni. Non capita spesso di avere questo genere di ritorno e la cifra iniziale era quanto bastava ad agganciarsi a un fondo comune di investimento che seguo.»

Alcuni avrebbero definito la mia strategia speculativa rischiosa. Non lo era. Io non correvo rischi. Il mercato aveva fruttato guadagni anomali negli ultimi dieci mesi, proprio come avevo previsto. Il momento di un rallentamento era prossimo.

Indicai i nuovi conti e le previsioni calcolate per i successivi quattro trimestri. «Ma, vedi qui, oggi ho trasferito tutto su un fondo del mercato monetario e intendo lasciarlo lì per il prossimo futuro. Meglio accontentarsi di un 3% stabile che rischiare.»

Drew fissò lo schermo, chiaramente faticava ad accettare le cifre, poi spostò gli occhi su di me. «Chi altri sa di questo?»

«Solo Jethro. Ma sai com’è fatto quando si tratta di soldi.»

«Sì, lo so. Non gli interessa molto.» Drew si grattò la barba. «Hai sistemato tutto in modo che nessuno dei tuoi fratelli dovrà mai lavorare. Sarete una famiglia che vive negli agi e si dà alla bella vita.»

«Oh, ne dubito. Penso che noi Winston diventeremmo tutti cattivi se non ci tenessimo impegnati con progetti redditizi a esorcizzare i nostri demoni.»

Gli occhi di Drew, che erano di una sfumatura argentea, scattarono su di me. La sua valutazione era in corso.

Di punto in bianco, disse: «Parlami dell’officina».

«Dell’officina?»

«Ecco, viste quelle cifre, immagino che dovrò chiederti quando comprerete la mia quota.»

Drew aveva anticipato il capitale iniziale per l’Officina Fratelli Winston, cosicché io, Duane e Beau potessimo avviare la nostra attività. Allora mi aveva stupito: la sua era stata una dimostrazione di fiducia, ed era stata la prima volta che qualcuno oltre alla nostra mamma aveva creduto in noi ragazzi. A partire da allora, Drew si era guadagnato il mio sommo rispetto e la mia ammirazione, ed era l’unico uomo vivente degno di mia sorella.

Quindi la sua domanda mi sorprese. «Vuoi che compri la tua quota?»

«Niente affatto, è stato un buon investimento sotto molti punti di vista, supportare voi ragazzi. Ma non vi serve più il capitale. Potresti chiudere bottega a trent’anni vista l’eredità che hai da ricevere e aprire quel negozio di dulcimer e torte di cui parli sempre.»

Riflettei sul suo commento, perché avevo sempre desiderato aprire un negozio di dulcimer e torte, ma poi scartai l’idea. «No. Non ho nessuno che mi preparerebbe le torte. Sai che non so fare le torte. La mia forza è la salsiccia, e le ricette italiane, visto che mi piace mangiare saporito. Inoltre, cosa farebbe Beau senza di me a supervisionare tutto? No, l’officina rimane aperta.»

«Davvero?» Insistette, mentre continuava a soppesarmi con lo sguardo. «Anche ora che Duane se ne va?»

«Sì. Questo è quello che facciamo. Aggiustiamo cose. Siamo trafficoni. Se non trafficassimo con le auto, allora lo faremmo con le persone.»

Drew mi rivolse un breve e raro sogghigno. «Tu già traffichi con le persone, Cletus.»

«Hai ragione.» Mi raddrizzai sulla sedia, pronto a difendermi. «Ma solo con le persone della mia famiglia. E voi tutti vi meritate i miei traffici.»

«Non fraintendermi. Sei bravo a trafficare. Se escludiamo i tuoi piani di vendetta, le persone sono fortunate ad avere te che interferisci negli affari loro.»

Socchiusi le palpebre guardando Drew. «A questo proposito, quando hai intenzione di chiedere ad Ash di sposarti? Cosa state aspettando voi due?»

Il suo sorriso si allargò e lui ridacchiò. «Me lo chiedi da quando siamo diventati ufficialmente una coppia.»

«Esatto.» Annuii una volta sola, appoggiandomi indietro e osservandolo ancora una volta da sopra il triangolo delle mie dita giunte. «Voglio solo sapere che intenzioni hai con mia sorella.»

Il suo sorriso si addolcì e il suo sguardo si smarrì dietro le mie spalle. Rimase in silenzio per parecchi secondi, poi disse: «Un giorno lo saprai, Cletus. Scoprirai cosa significa trovare l’altra metà di te stesso. Capirai che si tratta di lei, solo lei, sempre lei. Forse non subito, ma alla fine lo capirai. Lei sarà il tuo inizio, la metà, la tua fine. E allora le tue intenzioni non avranno importanza. L’amore porta con sé le sue intenzioni e tutti gli altri piani, speranze e sogni diventano insignificanti di fronte all’amore».

Il venerdì sera era la mia sera preferita della settimana.

Ogni venerdì sera a Green Valley si riunivano musicisti da ogni dove. Suonavamo insieme in una jam session al centro comunitario, un vecchio edificio scolastico ristrutturato e convertito in uno spazio di incontro polifunzionale. Io partecipavo sempre, suonando di volta in volta il banjo, la chitarra, il violino o il dulcimer. Non avevo mai provato a suonare il basso o il violoncello, ma ero certo di saperlo fare, se mi fossi esercitato.

Tra tutti gli strumenti, preferivo il banjo. Era il più odioso degli strumenti a corda e poteva essere suonato in modo tollerabile solo da una persona che fosse fermamente decisa a domarlo. Io traevo una certa soddisfazione dal domare cose selvatiche e nel piegarle alla mia volontà. Strumenti musicali, foreste, persone…

Il che mi porta al perché quella della jam session fosse la mia serata preferita della settimana. Io tenevo banco al centro comunitario ogni venerdì sera. Tutti gli abitanti dei dintorni venivano a sentire i musicisti suonare, un diverso stile di bluegrass in ognuna delle aule riconvertite, e nel frattempo si discuteva di affari e si scambiavano pettegolezzi.

Riuscivo a portare a termine più faccende durante la jam session del venerdì che durante tutto il resto della settimana.

«Agente Evans, agente Dale, cercavo proprio voi.» Chinai la testa in segno di rispetto ai due vicesceriffi e mi sedetti davanti a loro, stringendo le loro mani tese, l’una e poi l’altra. Li avevo trovati nella mensa, entrambi con un piatto traboccante di insalata di cavolo. Mio fratello Duane si sarebbe irritato: l’insalata di cavolo era il suo piatto preferito. «Allora, ragazzi, spero vi stia piacendo la mia salsiccia.»

L’agente Evans annuì, mandando giù un boccone della bramata insalata di cavoli. «Sissignore. È proprio una carne di qualità, Cletus. Vai davvero a cacciare i cinghiali con gli indiani in Texas? Con le lance?»

«No, non vado con degli indiani. Ci vado con dei Nativi americani» lo corressi. Non mi dispiaceva usare delle etichette, l’importante era che fossero usate correttamente.

Avevo confuso l’agente Evans con la mia precisazione. Lui sbatté le palpebre, sembrava perso in profonde riflessioni.

Prima che potesse riprendersi, arrivai al nocciolo della questione che mi aveva portato ad avvicinarli quella sera. Abbassando la voce, chiesi: «Come se la passa ultimamente il nostro comune amico?».

Dale guardò sopra la spalla per essere sicuro di non essere ascoltato. Accertatosene, mangiò un piccolo boccone di insalata di cavolo e alzò le spalle. «È in salute, ma se ti serve, le cose possono cambiare.»

Mi tirai la punta della barba, accarezzandone i peli con il pollice e l’indice. Era da un po’ che non mi informavo su Darrell Winston, l’uomo che tecnicamente era mio padre. I pezzi del puzzle che stavo costruendo da anni stavano finalmente andando al loro posto. Si avvicinava il momento di colpire… ma non era ancora arrivato.

«Oh, non mi dispiace che sia in salute… per ora.»

Dale mi rivolse un sorriso cupo. «Basta una tua parola, Cletus.»

Io cercai di imitare la sua espressione. «Non sai quanto lo apprezzi, Dale.»

Scosse la testa. «Siamo entrambi in debito con te, ti dobbiamo davvero molto.»

Mi schermii con un gesto della mano dalle sue parole, dimostrandomi affabile, ma lui aveva ragione. Entrambi erano in debito con me e io ero grato del favore che mi dovevano. Mi aveva portato dei frutti in più di un modo. Dale mi aveva spifferato qualche mese fa che i fratelli King passavano prove sugli Iron Wraiths all’ufficio dello sceriffo da quasi un anno, e questo era stato il seme da cui era scaturito il mio più recente grande piano.

Evans si intromise. «Siamo felici di aiutarti e quel bastardo se lo meriterà… uhm, quando deciderai che è il momento giusto.»

Avevo appena fatto ricorso al mio cenno austero e ottenuto in risposta da loro due assensi con la testa quando sentii un timido tocco sulla mia spalla. Dale ed Evans alzarono lo sguardo sul nuovo venuto e le loro espressioni si addolcirono. O si fecero rapite, si sarebbe potuto persino dire.

«Chiedo scusa» Una voce gentile, femminile senza ombra di dubbio, ci interruppe.

Io mi irrigidii, sapevo benissimo a chi apparteneva quella voce, e di conseguenza perché a Dale ed Evans era comparsa quell’espressione rapita.

«Nessuna interruzione» disse Dale scuotendo la testa e alzandosi.

«Niente affatto.» Anche Evans si alzò, il suo sorriso era appena accennato e speranzoso, la sua voce accogliente, come se stesse parlando a un animaletto nervoso.

Io sapevo la verità. I due bifolchi vedevano un fiorellino debole e sensibile, un angelo arrendevole pronto a piegarsi al loro volere, mentre io vedevo l’opportunista nel vestito da torta alla banana. Perché sia messo agli atti: non alzai gli occhi al cielo.

Controllando attentamente la mia espressione, guardai da sopra la spalla, pronto a rivolgere all’intrusa un secco cenno del capo. Ma quel piano andò storto quasi immediatamente e involontariamente mi rigirai a guardarla per la seconda volta, dalla sorpresa.

Gli occhi di Jennifer Sylvester erano violetti.

Non blu.

Non verdi.

Non grigi.

Violetti.

Ed era impossibile.

Per cui mi accigliai.

Il sorriso appena accennato che mi rivolgeva sparì e lei trasalì, appena appena. La mano le cadde dalla mia spalla e Jennifer indietreggiò di un passo, alzando il mento.

«Cletus, ho bisogno di parlarti.» Parlava ad alta voce - almeno alta per lei, per tutti gli altri sarebbe stato un volume normale - e lo faceva deliberatamente.

Io strinsi le palpebre, scoccandole un’occhiata in cagnesco. Valutai un rifiuto. Lo presi in considerazione. Il guinzaglio che Jennifer credeva di aver stretto attorno al mio collo mi irritava e ispirava pensieri selvaggi.

Invece, mi alzai.

«Signori» Chinai la testa verso Dale ed Evans, anche se non distolsi per un momento lo sguardo da Jennifer Sylvester. Poi, in un gesto di cortesia plateale, le feci strada con un ampio gesto della mano. «Dopo di lei, signorina Sylvester.»

Lei deglutì, incerta, i suoi occhi violetti erano spalancati e circospetti sotto ciglia nere e innaturalmente lunghe e spesse. Le ciglia erano finte. Ma il colore dei suoi occhi…

Lei annuì bruscamente, si girò sui tacchi e si incamminò rapida verso l’uscita della mensa. Io la seguii, attento a cancellare ogni espressione dal mio volto e a mantenere la distanza tra noi. Non c’era motivo di far sapere alla gente della città che avevamo un legame di qualunque sorta.

Il passo di Jennifer era sorprendentemente veloce per una donna piccolina sui tacchi alti, e lei era piccolina davvero. Anche per essere una donna, era piccola. Tenendo uno sguardo attentamente disinteressato, studiai questa piccola donna.

Indossava un vestito giallo, una “vestaglietta”, credo lo chiamassero così negli anni ‘50 o ‘60. Le avviluppava il torso fino alla vita e poi si allargava a partire dai fianchi. Lei aveva i fianchi larghi. O una vita minuta. O entrambi. Era difficile da stabilire considerando che il vestito che indossava aveva lo scopo di accentuare sia la sottigliezza del busto che l’ampiezza della parte inferiore del suo corpo.

Il vestito giallo le frusciava sui polpacci mentre camminava. Aveva delle belle gambe, almeno per quel poco che riuscivo a vedere, ma il tessuto frusciante mi fece distogliere l’attenzione. Era un frusciare rabbioso e violento e iniziava a darmi sui nervi.

Lei svoltò rapidamente a sinistra costringendomi a raddoppiare il passo per non restare indietro e fu allora che capii. Sapevo dove stavamo andando, dove mi stava conducendo. Avevamo fatto il giro lungo e mi sorprese che conoscesse quella porta anonima e senza targhetta nella parte anteriore della mensa, che conduceva dietro le quinte del palco.

Nessuno ci avrebbe visti. Un sipario spesso e pesante separava il palco dai tavoli affollati di concittadini che mangiavano insalata di cavolo, tortini fritti e bevevano limonata. Nessuno ci avrebbe sentiti. Il costante brusio delle chiacchiere oltre il sipario lo rendeva il posto perfetto per un incontro clandestino al riparo da orecchie indiscrete, almeno fintanto che nessuno dei due avesse sentito il bisogno di urlare.

Io mi infilai nella porta, esaminai il vasto spazio e trovai Jennifer a qualche passo da me, appoggiata di schiena con i palmi premuti contro il muro di cemento. Era irrigidita e dritta e, a giudicare dal ritmico alzarsi e abbassarsi del suo petto, senza fiato.

Io mi infilai le mani nelle tasche della tuta da meccanico e aspettai. Probabilmente ci vedevo meglio di lei. Noi ragazzi Winston riuscivamo a vedere al buio, più o meno. Mamma ci aveva detto che avevamo sangue Yuchi nelle vene, un fatto di cui avevo trovato conferma all’insaputa dei miei fratelli. Secondo la leggenda, la tribù degli Yuchi vedeva perfettamente anche nella più nera delle notti.

In ogni caso, la carenza di luce tingeva tutto di grigio e ombre, inclusi i suoi inquietanti occhi violetti.

Devono essere delle lenti a contatto.

«Grazie» disse lei, rompendo il silenzio e cogliendomi di sorpresa.

Mi aspettavo pretese, non gratitudine.

«Non ho fatto nulla.»

La sua postura si rilassò appena appena. «Invece sì», mi contraddisse. I suoi occhi erano spalancati ed era evidente che stesse tentando di vedermi meglio.

«Cos’ho fatto?» La sfidai a mia volta, con tutta l’intenzione di sentirmi irritato ma invece mi scoprii incuriosito.

«Hai reso più sopportabile questa settimana.» Rise appena e fu un piacevole suono melodioso. Ma poi represse la sua risata e la sua espressione si fece estremamente seria. «Mi hai dato speranza.»

Beh… dannazione.

La fissai, fissai quella donna piccola, il suo mento appuntito e i suoi occhi belli in modo fuori dal comune contornati da brutte ciglia finte, e rividi i fatti:

Uno, Jennifer Sylvester era disperata.

Due, non era una persona cattiva.

Tre, pensava di volere un marito.

Jennifer si staccò dalla parete, iniziò a torcere le dita davanti a sé inclinando la testa da un lato e poi dall’altro. Rise ancora, ma questa volta la sua risata sembrò nervosa.

«Sai, non riesco proprio a vederti. Ma ho come la sensazione che tu mi veda benissimo.»

Quattro, Jennifer Sylvester era dotata di un sorprendente spirito di osservazione.

Feci un passo in avanti mettendomi in una striscia di luce che penetrava da un’alta finestra. Ancora non era sceso il crepuscolo, ma la notte avanzava rapidamente.

«Così è meglio?» chiesi, in tono più gentile di quanto volessi.

«Sì.» Lei rabbrividì e i suoi occhi viaggiarono sul mio volto, soffermandosi per un istante sulla mia barba, per poi abbassarsi al pavimento. «Sì, così è meglio. Grazie.»

Cinque, a Jennifer Sylvester non serviva un marito. Forse voleva un marito, probabilmente perché nella sua mente collegava il matrimonio alla libertà e a una via di fuga, ma non le serviva un marito. Quello che le serviva era una spina dorsale.

Dopo un intero minuto passato in piedi in silenzio, chiesi: «Che ci facciamo qui?».

«Volevo parlarti.»

«Perché volevi parlarmi?»

Lei irrigidì le labbra, poi alzò lo sguardo nel mio. «Volevo sapere se hai già fatto qualche progresso.»

«Progresso?»

«Sì. Ideato un piano, per me, per la situazione in cui mi trovo.»

«Capisco...» Esaminai la sua postura. Come si fa a farsi spuntare una spina dorsale?

«Allora?» Mi imbeccò.

«Allora cosa?»

Le sue palpebre si ridussero a due fessure e lei si spinse via dal muro, incrociando le braccia.

«Cletus Winston, non provare a fare giochetti con me.»

Eccola. Ce l’aveva una spina dorsale, solo non la usava molto.

Cercai di non sorridere. Provai davvero, e fallii. Ma lei non avrebbe comunque visto il mio sorriso. Per prima cosa, era troppo buio per i suoi occhi non da Yuchi. E, secondo, la mia barba l’avrebbe celato.

Ora, come si fa a rendere duratura una spina dorsale?

«Forse sono pazza» continuò lei, con una nota d’acciaio nella voce, «ma questo è quello che voglio. Quello che ho sempre voluto.»

«Un marito?» Cercai di chiarire.

«Sì… e no.» L’acciaio sparì dalla sua voce mentre le braccia le ricaddero ai fianchi. Riprese a tormentarsi le dita. «Voglio dirti la verità, Cletus: non sono una romantica. Non cerco qualcuno che mi faccia innamorare alla follia. I cavalieri su un bianco destriero non esistono. Non mi interessa nemmeno che lui sia particolarmente attraente o intelligente. Voglio solo una brava persona, una… persona gentile. Voglio qualcuno di buon cuore, un punto saldo, qualcuno di affidabile e garbato. Qualcuno che sia un buon padre.»

Alzai un sopracciglio a sentire il suo pragmatico e deprimente elenco di desideri, mentre dibattevo tra me e me. Volevo aiutarla, perché avrei potuto, e non volevo aiutarla, perché avevo giurato solennemente a me stesso di non mettermi mai più a combattere contro i mulini a vento.

Lei non è un problema tuo.

Non ero abituato a dibattere con me stesso, per cui rimasi a fissarla in silenzio. La fissai in silenzio per più di quanto fosse appropriato.

«Cletus?»

Sbattei le palpebre e la mia attenzione ritornò sul mondo esterno. Si era spostata. Ora si trovava proprio di fronte a me, con il mento alzato così da potermi intrappolare con i suoi occhi.

«Allora...» Jennifer prese un respiro profondo, la sua lingua guizzò a bagnarle le labbra, poi sussurrò: «allora, mi aiuterai, vero?».