“Il suo cuore era un giardino segreto circondato da alte mura.”
- William Goldman, La storia fantastica
«Sono davvero belle, Jethro.» Beau esaminò le modanature a soffitto che Jethro aveva fissato il giorno prima. «Non riesco a credere che tu abbia fatto tutto con le tue mani.»
«Già. E Cletus ha avuto l’idea di far passare i cavi nella modanatura, per avere l’audio in tutto l’ambiente. Vedi gli altoparlanti lì e lì?» Jethro indicò gli altoparlanti incassati nel muro del salotto. I miei fratelli strinsero le palpebre per guardare i punti che Jethro indicava.
«Non vedo niente.» Drew si avvicinò al muro e lo esaminò. «Cletus, sei davvero bravo a nascondere le cose in piena vista, poco ma sicuro.»
Jethro batté una mano sulla mia spalla e sorrise, scuotendomi affettuosamente. «È il suo dono.»
«Uno tra i tanti» concessi, controllando il mio orologio.
A dire il vero, avevo passato più tempo di quanto fosse adeguato a nascondere quegli altoparlanti. Ma ero determinato a renderli invisibili: io la definivo un’etica del lavoro eccellente. Jethro invece aveva detto che mi stavo ossessionando di nuovo.
Jethro, Beau, Duane, Drew e io avevamo appena finito gli ultimi tocchi alla rimessa. Eravamo in piedi nella nuova cucina, la colla per il legno non era ancora asciutta e l’intera casa odorava di vernice e segatura, ma ce l’avevamo fatta. Il posto era pronto e finito per Jethro, Sienna e la prole Winston di sesso ancora indeterminato numero uno. Sienna sarebbe tornata a casa tra due giorni ed io ero ancora il solo a sapere che fosse incinta. Nel frattempo Duane e la sua donna, Jessica, sarebbero partiti presto per l’Italia. I loro biglietti erano del tipo “sola andata”.
Era un momento di cambiamenti. Io evitavo i cambiamenti o facevo del mio meglio per scoraggiarli, solitamente. Ma questo era un cambiamento del genere buono. Lo sapevo. Ciononostante, anche i cambiamenti buoni mi rendevano agitato.
«Billy ha dato una mano» disse Jethro, nella sua voce c’era una certa esitazione.
«Billy?» Duane non provò neanche a nascondere la sua sorpresa: lui e Beau si fissarono, comunicando per svariati secondi senza parlare. Avevo sempre trovato frustrante l’abilità dei gemelli di trasmettersi i pensieri con una sola occhiata. Non mi piaceva essere tagliato fuori dalle conversazioni.
«Sì. Billy. Billy ha dato una mano» confermai irritato. «E voi due potreste smetterla di parlare tra voi con le palle degli occhi. Ci sono parecchie altre persone nella stanza che non sono capaci di connettersi con i cervelli.»
Duane alzò un sopracciglio, i suoi occhi sfrecciarono tra me e Beau e poi si abbassarono velocemente a terra. «D’accordo, Cletus. Non ti scaldare.»
Brontolai, ma non dissi nulla. Non volevo battibeccare con Duane. Sarebbe rimasto in zona solo per poche settimane e il pensiero mi deprimeva. Era un irritabile e scontroso piccolo bastardo con l’abitudine di parlare solo quando interpellato, e a volte nemmeno allora. Mi sarebbe mancato.
«Dov’è Billy, ora?» chiese Drew, continuando a fissare concentrato il muro per trovare gli altoparlanti incassati.
«Al lavoro» rispose Beau, poi si rivolse a me e chiese: «Allora domani vieni con noi a pescare, Cletus?»
«Drill e Catfish vengono?» domandai.
Beau alzò le spalle. «A quanto ne so.»
«Allora vengo.»
«Perché vuoi andare a pescare con quei due Iron Wraiths?» Il tono di Duane rivelava la sua disapprovazione, ma non mi diede modo di rispondere prima di girarsi verso Beau. «Non posso crederci, sei ancora amico loro nonostante tutto quello che è successo a Jess.»
Jess era Jessica James, la donna di Duane. L’autunno scorso era rimasta coinvolta in un brutto affare con il club di motociclisti degli Iron Wraiths. Per farla breve, i pezzi grossi del club avevano cercato di ricattare Duane e Beau per farli lavorare come smontatori di auto rubate. Dopo quello spiacevole accadimento, Duane si era unito a Billy nel suo odio incondizionato verso ogni singolo membro del club. Drill e Catfish erano membri, non avevano alcuna colpa di quanto era successo a Jess o del tentato ricatto, ma d’altronde non avevano nemmeno alzato un dito per impedirlo.
«Drill non è una brutta persona» disse Beau, cercando di difendere l’uomo.
L’occhiata torva di Duane si incattivì. «Sono tutti degli stronzi malvagi e dovrebbero bruciare all’inferno.»
Le sopracciglia di Drew saltarono in alto, ma lui non disse nulla. Intanto Jethro, che era arrivato a tanto così dal diventare un membro degli Iron Wraiths a pieno titolo, studiava attentamente l’etichetta della sua birra. Nella stanza scese un complicato silenzio: complicato perché la storia del rapporto della nostra famiglia con il club motociclistico era piena di sfaccettature e complicata. Nostro padre ne era membro. Era stato un loro comandante. Eravamo cresciuti assieme a parecchi ragazzi che ora facevano parte del club. Personalmente, non consideravo ogni singolo elemento tra i loro ranghi uno stronzo malvagio, ma era vero che per me i Wraiths erano un cancro. Li avrei distrutti, ma non per una qualche motivazione altruistica come liberare Green Valley dai suoi malfattori. Le mie motivazioni erano più egoistiche.
«Uhm, Cletus, vuoi una birra?» Drew mi porse una bottiglia, e ruppe il silenzio teso.
Scossi la testa. «Non posso, finito qui, ho un appuntamento in un altro posto.»
«Comunque,» Beau, chiaramente ansioso di cambiare argomento, indicò lungo il corridoio, «parliamo del colore che Jethro ha scelto per dipingere la seconda stanza da letto.»
«È verde, che c’è di male?» Jethro ghignò furbescamente. Non era mai stato bravo a mantenere una faccia da poker.
«Niente, non c’è niente di male con il verde, ma è una tonalità molto strana. Com’è che si chiamava?»
«Pisello odoroso» ricordò Duane al suo gemello, con voce piatta. «Si chiamava pisello odoroso e credo fosse indicato sull’etichetta che è un colore per stanze di bambini.»
«Stanze di bambini, eh? Devi dirci qualcosa, Jethro?» lo punzecchiò Beau, imitando il sorrisetto di Jethro. «Nessuna notizia da condividere? Nessun grosso scoop?»
Jethro mi lanciò un’occhiata. «Non ci credo, non gliel’hai ancora detto.»
«Perché mai avrei dovuto? Sono bravo a mantenere i segreti.» Mi infilai le mani in tasca, assicurandomi di assumere un’aria innocente. «E non sono io quello incinto.»
«Lo sapevo!» Beau saltò su Jethro, stringendolo in un veloce abbraccio virile.
Il sorriso di Jethro si fece ampio come non l’avevo mai visto prima. «Come diavolo facevi a saperlo?»
Duane diede una pacca sulla schiena a Jethro, non appena Beau lo lasciò. «Perché hai sempre voluto dei bambini e non sei mai stato uno da girarsi i pollici una volta presa una decisione.»
«Avresti dovuto dipingerla verde vomito, così non si sarebbero viste tutte le macchie del vomito che ti toccherà pulire» suggerì Beau.
«O color cacca» aggiunse Duane. «Non scordiamoci della cacca.»
«Voi sì che siete i migliori.» Jethro si portò la mano al petto. «Mi scaldate il cuore.»
«Assicurati che il pavimento sia impermeabile.» Beau prese una birra e la stappò.
«Non dirmelo, perché non ci rimangano attaccati tutta la cacca e il vomito?»
«No» Beau alzò e abbassò le sopracciglia, divertito. «Per tutte le lacrime che verserai quando non riuscirai più a dormire la notte o fare l’amore con la tua donna.»
«Ah, sì. Il coito interrotto dall’infante è una malattia vera e propria. Non esiste cura, per di più.» Duane annuì, fu una discreta imitazione del mio cenno d’assenso austero. In effetti, era sembrato in tutta la sua osservazione una buona imitazione di me.
«Sembri Cletus.» Drew rise, chiaramente aveva afferrato lo scherzo.
Duane fece scivolare gli occhi verso i miei e mi rivolse un sorrisetto.
Alzai un sopracciglio in direzione di mio fratello per non fargli intuire che trovavo la sua imitazione divertente. «Dovreste piantarla, tutti voi. I bambini sono il meglio. Pensate a tutte le coccole che potremo fargli. È davvero un’ottima notizia.»
«È una grande notizia.» Beau allungò la sua birra per toccare quella di Jethro e aggiunse, in tutta sincerità: «È la migliore notizia di tutte.»
«Non vedo l’ora.» Anche Duane toccò con la sua birra quella di Jethro. «Jess e io torneremo a casa non appena arriverà il fagottino di gioia. E insegnerò a Duanita a guidare una macchina da corsa.»
«Duanita?»
«Naturalmente, si chiamerà così.» Duane bevve un lungo sorso della sua birra, annuendo come se la questione fosse già decisa.
«Non saprei.» Drew scosse la testa assorto, grattandosi la nuca. «Andy mi suona bene. E potrebbe andare bene sia per un maschietto che per una femminuccia.»
«Come diminutivo di Andrew, naturalmente.» Beau alzò gli occhi al cielo.
«O Andrea.» Drew scrollò le spalle e nascose il suo sorrisetto bevendo un altro sorso di birra.
«Voi tutti vi state dimenticando una cosa, non sono solo io a decidere il nome del bambino. Sienna ha parecchia voce in capitolo in questa faccenda e diritto di veto.»
«In pratica ci stai dicendo che dobbiamo lavorarci Sienna?» tradusse Beau.
Jethro rise, e così tutti gli altri. Io invece no.
Riuscii a mettere su un sorriso nonostante la mia inspiegabile malinconia, mentre il bisogno di prendere commiato mi attanagliava con ferocia improvvisa.
Sentii gli occhi di Duane puntati su di me, per cui gli rivolsi un sorriso piatto, poi controllai l’ora. «Bene, è stato divertente, ma io devo congedarmi.»
«Sì, devo andare anche io.» Drew posò la sua birra vuota nel nuovo bidone del riciclaggio, si girò verso Jethro e gli strinse la mano. «Congratulazioni, Jethro. Sono felice per te.»
«Grazie, Drew.»
I due uomini si guardarono e qualcosa passò tra di loro, un’intesa di qualche genere.
«Oh, fantastico, ora anche Drew e Jethro possono fondere le menti. Io me ne vado da qui.» Diedi le spalle al gruppo e alle loro risatine.
«Dai Cletus, resta ancora un po’. Ti guarderò io intensamente negli occhi. Noi uomini single dobbiamo restare uniti» mi richiamò Beau alle mie spalle.
«Cletus non resterà single tanto a lungo» intervenne Jethro, probabilmente nel tentativo di farmi perdere la pazienza. Non funzionò. Non volevo far tardi alla mia prima lezione con Jennifer Sylvester. Avevamo un bel po’ di lavoro da fare.
«Cosa vuoi dire? Cletus si è trovato una ragazza e non ha detto niente?» Beau sembrava proprio euforico.
Io ero quasi arrivato alla porta quando sentii Jethro dire: «Non sta a me parlarne».
«Non si fa così, Jethro. Sai che Beau non si calmerà finché non avrà capito di chi si tratta» consigliò Drew, con tono a metà tra il serio e lo scherzoso.
«Chi è?» chiese Duane. Sembrava interessato e ne rimasi sorpreso: di solito si teneva alla larga dal gossip.
«Vi auguro una buona serata, ciarlatani.» Salutai da sopra la spalla e lasciai che la porta si richiudesse alle mie spalle, soffocando le loro voci e mi avviai deciso alla mia macchina.
Ultimamente non avevo riflettuto sull’idoneità di Shelly Sullivan come partner di vita, non più dopo il nostro primo incontro di qualche settimana prima. Non avevo motivo di affrettare le cose, nessuna ragione per apportare ulteriori cambiamenti al momento presente. Noi, la nostra famiglia, stavamo già affrontando abbastanza sconvolgimenti, non c’era motivo di aggiungerne altri. Quando sarebbe arrivato il momento giusto, quando i cambiamenti si sarebbero trasformati in routine, l’avrei invitata fuori a mangiare una bistecca. Avremmo parlato del futuro, stilato una lista di pro e contro, e poi avremmo raggiunto un accordo vantaggioso per entrambi. Una volta smantellati gli Iron Wraiths, una volta data una lezione a Jackson James e aiutato Jennifer Sylvester a trovare la sua spina dorsale, allora mi sarei dedicato a Shelly.
Ero lieto di avere Jennifer Sylvester. Aiutare lei sarebbe stato un bel progetto: una distrazione simpatica, facile e gestibile.
«Jennifer, ora basta avere paura di me.»
«Ok.» Annuì, senza guardarmi.
Ero in piedi di fronte a lei, dall’altra parte dell’immenso bancone della cucina della Pasticceria Donner. Donner era il nome da nubile della mamma di Jennifer. La pasticceria e lo chalet annesso appartenevano alla sua famiglia da tre generazioni.
Il mio amico di Chicago mi aveva confermato che sia il computer che il cellulare di Jenn non contenevano più il video. Lei non ne aveva fatto parola, che si fosse accorta oppure no che il video era stato cancellato. O, più probabilmente, non aveva idea che avessi chiesto a un hacker professionista di intrufolarsi sul suo portatile e cellulare.
Che lei lo sapesse o no non aveva molta importanza nel lungo periodo, ma – per il momento – avevo deciso che sarebbe stato meglio tenere quell’informazione per me.
Era già abbastanza tesa.
In quell’istante Jenn era occupata a porzionare con un cucchiaio dell’impasto per biscotti su una teglia e a non incontrare i miei occhi. Non mi aveva guardato direttamente da quando mi aveva fatto entrare dalla porta sul retro della cucina qualche minuto prima e il modo in cui ora rimaneva in silenzio comunicava ansia e impazienza. Se avesse scoperto che il suo asso nella manica era sparito, prevedevo che sarebbe svenuta dall’angoscia.
«Dicevo sul serio, non intendo escogitare un piano per vendicarmi.» Usai il mio tono di voce più innocente e innocuo.
«Ok.»
L’esaminai e aspettai. Indossava ancora uno dei suoi costumi, una vestaglietta gialla, ma aveva ripulito il volto da tutto il trucco, era a piedi nudi e aveva raccolto i capelli in una coda di cavallo. In testa aveva un cappello da baseball e intorno alla vita teneva legato un grembiule di Smash-Girl, la supereroina. Non l’avevo mai vista con un aspetto tanto normale prima di quel momento, da persona reale. Era qualcosa con cui avrei potuto lavorare.
E avrei potuto aspettarla, e batterla in una gara di pazienza. Se volevo, e la situazione lo richiedeva, sapevo essere paziente. Oppure avrei potuto provare a rabbonirla e a distrarla fino a piegarla ai miei voleri.
«Non manderò nessun corriere-spogliarellista Navy Seal sul tuo posto di lavoro né farò esposti all’ufficio d’igiene contro la pasticceria.»
I suoi movimenti si bloccarono e lei fissò i biscotti sul tappetino di silicone. «È questo che avevi intenzione di farmi? Sarebbe stata questa la tua vendetta? Per averti ricattato?»
«Sì» mentii. «O l’una o l’altra. Ero più propenso per lo spogliarellista, però. Una mia conoscenza a Nashville avrebbe potuto mettere su un bello spettacolo per i tuoi clienti della domenica mattina. La folla appena uscita dalla messa avrebbe proprio perso la testa, dopo la loro dose di zucchero e caffè. Inoltre, come bonus, lui è davvero un ex Navy Seal, congedato nel 1975.»
Un angolo della sua bocca si sollevò, ma i suoi occhi rimasero volutamente incollati sulla ciotola di impasto crudo dei biscotti.
Io la osservai attentamente, aggiungendo: «Potrei comunque farlo, magari per il tuo compleanno, e solo se sarai molto gentile con me fino ad allora».
Nel punto in cui stringeva il cucchiaio, la sua mano tremò leggermente. Era ancora a disagio.
«Morale della favola, Jenn: stavolta la passi liscia, quindi cerca di rilassarti un po’.»
«Ok.» Annuì, continuando a non guardare nella mia direzione e affondò il cucchiaio nell’impasto dei biscotti, mescolandolo senza alcuno scopo.
Si era distesa, ma non abbastanza.
Incuriosito, chiesi: «Perché ti faccio tanta paura?»
«Non mi fai paura» rispose immediatamente, con tono in apparenza difensivo.
«Allora perché ti tremano le mani?»
Jennifer lasciò cadere il cucchiaio nella ciotola e si appoggiò al bancone. I suoi occhi si alzarono per un brevissimo secondo. «Tu non mi spaventi, sono solo… sono solo nervosa.»
«Perché sei nervosa?»
«Perché… perché… perché tu sei pericoloso. E fatico a credere che i tuoi piani di vendetta si limitino a qualcosa di innocuo come uno spogliarellista.»
«Non lasciarti ingannare, George non è innocuo. È un professionista di ottantacinque anni devoto al suo lavoro e si porta la pistola. Beh, porta entrambe le pistole.»
Lei sbuffò e cercò in modo ammirevole di scacciare un sorriso, mentre le sue guance si tingevano di una sfumatura di rosa. Finalmente, gli occhi di Jenn si sollevarono e incontrarono i miei. «So cosa stai facendo, stai cercando di farmi abbassare la guardia.»
«Sì. Esatto, sì. Come posso aiutarti se non ti fidi di me?»
«Come posso fidarmi di te quando hai alle spalle una lunga e comprovata carriera di subdole trattative e manipolazione?»
Donna astuta… molto astuta. Ma la mia pazienza era quasi giunta al limite. «Ascolta, donna. Vuoi il mio aiuto o no? Perché, per quanto concerne il tuo benessere, sono dolce come un coniglietto cieco e sdentato.»
«Non lo sei per nulla» mi contraddisse, ridacchiando suo malgrado – come se fosse sia divertita che frustrata – e io notai che finalmente le sue mani avevano smesso di tremare. «Tu sai qualcosa su tutti. Su tutti. Sono anni che raccogli informazioni e le usi contro le persone, costringendole a fare quello che vuoi. In effetti, sono pronta a scommettere che sai qualcosa sulla mia famiglia che potrebbe sconvolgere le nostre intere esistenze.»
Feci attenzione a mantenere un’espressione neutrale, perché Jennifer aveva completamente ragione.
Suo padre aveva avuto una storia con Elena Wilkinson, la segretaria del liceo, per anni. Avevo avuto dei sospetti per molto tempo, per cui avevo frequentato le classi di calcolo avanzato come copertura finché non ero riuscito a confermare la sordida verità. Kip Sylvester era un patetico omuncolo senza cuore e vanesio a cui importava solo di se stesso.
Non sapevo dire se anche sua moglie se ne fosse resa conto. Ma certo sapevo che se Diane Donner-Sylvester avesse mai scoperto i tradimenti del marito, avrebbe chiesto il divorzio in un batter d’occhio. E lui avrebbe perso tutto, perché quella donna guadagnava in un mese più di quanto lui guadagnasse in un anno. Al momento non pianificavo di sfruttare quell’informazione, ma probabilmente l’avrei fatto. Prima o poi.
Jennifer non aveva finito. «Lo terrai segreto, finché tornerà utile ai tuoi scopi. E questo ti rende pericoloso, come una vipera pronta a mordere. Ritengo che la mia cautela sia giustificata.»
«Va bene. Sono pericoloso. Conosco cose.» Alzai le spalle. «Ma tu devi credere al fatto che io non sono pericoloso per te. Non posso aiutarti se continuerai a fare Jennifer nervi a fior di pelle per tutto il tempo.»
Esitò, riprendendo in mano il cucchiaio, poi disse: «Hai ragione. Non posso avere i nervi a fior di pelle e devo trovare un modo per rilassarmi in tua presenza.»
Il modo in cui disse “rilassarmi” lo faceva sembrare una fatica di Ercole.
«Jenn...»
«Ci lavorerò.» Si accigliò e alzò il mento, assumendo un’aria tormentata e stranamente carina.
Sì, carina. Jennifer era carina. I tratti di quella donna erano esteticamente piacevoli, specie ora che non aveva quei bruchi pelosi sulle palpebre. L’avrei valuta “molto carina” in quel momento. Avrei potuto rifilarla a qualcuno come gli agenti Dale ed Evans. Era ovvio che entrambi gli uomini erano rimasti incantati da lei alla jam session. Ma il molto carina non sarebbe stato molto d’aiuto né l’avrebbe fatta arrivare lontano senza una spina dorsale.
«Va bene. Tu lavora su quello e io lavoro su di te.»
Le sue guance si colorarono di una sfumatura più scura di rosa e Jennifer si mordicchiò il labbro inferiore. Alla fine, si schiarì la gola e abbassò il mento sul petto.
Io mi sporsi in avanti sul bancone, puntando il peso sui gomiti e gli avambracci per poter vedere il suo volto. Quando lei aveva abbassato il mento, la visiera del cappello le aveva nascosto i lineamenti. Dovevo farglielo togliere.
«Hai fatto i tuoi compiti?» chiesi, notando che il suo cappello aveva dei personaggi dei cartoni giapponesi sopra.
«Sì.» Abbandonato il cucchiaio, si pulì le mani sul grembiule e poi attraversò la stanza fino a un sacco di tela che stava appoggiato a uno scaffale, vicino alla porta sul retro. Jenn estrasse un pezzo di carta piegato e si girò verso di me. Lo tese di fronte a sé, mettendolo tra noi due.
Io passai lo sguardo da lei alla lista e ritorno, nel tentativo di ignorare l’impulso di esaminare le sue strane iridi. Volevo che si rilassasse, non che si sentisse sotto esame.
Ma quelle mi provocavano. Scientificamente parlando, il colore dei suoi occhi era impossibile.
Sono lenti a contatto.
Nonostante le mie intenzioni di fare il contrario, trattenni lo sguardo nei suoi occhi appena un pelo troppo a lungo, in cerca dei contorni rivelatori delle sue lenti a contatto. Non li vidi. Vidi solo occhi violetti la cui esistenza non era possibile.
Lei mi studiò, con aria preoccupata: la mano che teneva il pezzo di carta si abbassò. «Qualcosa non va?»
«Niente.» Mi accigliai, ero contrariato per come il colore degli occhi di quella donna stravolgesse il naturale ordine dell’universo. «Leggi tu la lista.»
«Ok.» I suoi occhi si spostarono tra i miei prima di abbassarsi sul foglio. Jennifer lo aprì, si schiarì la gola e poi cominciò a leggere. «Uhm, numero uno: fare giardinaggio in salopette.»
«Fare giardinaggio in salopette.»
«Esatto.» Annuì scattosa, alzando il mento e incrociando le braccia sul petto come se si aspettasse una mia obiezione.
«Perché in salopette?»
«Mi piace avere tante tasche.»
«Anche a me piacciono le tasche» pensai e dissi all’unisono. «E per il giardinaggio, fiori o ortaggi?»
«Entrambi. Ortaggi per cucinare, ma anche fiori. Attirano gli insetti impollinatori e tengono alla larga i parassiti. La calendula e la lavanda sono ottimi per questo. Inoltre, schiaccio i fiori per ricavare gli oli essenziali.»
«Fai oli essenziali?»
«Sì. Lavanda, geranio e rosa, per lo più.»
«Uhm. Interessante.» Gettai un’occhiata alle sue mani. Non potevo esaminarle mentre le teneva infilate tra le braccia incrociate, per cui allungai il braccio per afferrargliene una.
Lei si allontanò di scatto. «Cosa stai facendo?»
«Vorrei vedere la tua mano.»
«Perché?»
«Sono curioso. Hai mani da contadino?»
La sua espressione si rilassò, come se sperasse di avere mani da contadino, e mise tra noi una mano a palmo in su. «Cosa vuoi dire? Come Nancy Danvish?»
Io osservai le sue dita e scoprii una cosa sorprendente. Aveva i calli e le sue dita non erano sottili e da signora, ma lunghe e forti. Sì, lo smalto rosa sulle sue unghie era impeccabile, ma aveva le mani di chi spesso le impegna in lavori manuali.
«Suoni qualche strumento?» chiesi, dal nulla. O forse lo chiesi perché le sue dita erano così lunghe, specie per una persona bassa, che sarebbe stato un peccato se non avesse suonato alcuno strumento.
«Sì, una volta. Crescendo, suonavo il piano. Tutte le ragazze dovevano avere un talento ai concorsi di bellezza, per cui io cantavo e suonavo il piano.»
Annuii meditabondo, ricordandomi di una conversazione che avevo origliato anni prima, tra mia mamma e Naomi Winters. Le due si lamentavano di come Diane Donner-Sylvester costringesse la sua unica figlia – che entrambe consideravano incredibilmente dolce e timida – a partecipare ai concorsi di bellezza. Erano inoltre dispiaciute che Diane avesse iniziato a tingere di biondo i bei capelli scuri della figlia a una così tenera età. Io lanciai un’occhiata ai suoi capelli biondi, o a quel poco che ne riuscivo a scorgere, poi riportai l’attenzione sulla lista. Le presi la mano e girai il foglio verso di me per poterlo leggere.
«Vediamo...»
Fare giardinaggio in salopette
Scrivere lettere su una scrivania ben illuminata
Leggere un libro mentre piove
Insegnare alle compagnie a preparare dolci
«E questa cos’è? ‘Insegnare alle compagnie a preparare dolci’. Che vuol dire?»
«I Lupetti e le Coccinelle...»
«Le Coccinelle sono le girl scout più piccoline?»
«Esatto. Io insegno loro come ottenere il distintivo di merito per i dolci.»
«Una volta l’anno?»
«Oh, no. Quando ne hanno bisogno. A volte ho gruppi molto numerosi di bambini, a volte do lezioni a un solo allievo.»
«Il tuo capo te lo permette?» Non ero pronto a invocare il nome di sua madre, ma era una domanda che andava fatta.
Lei iniziò ad agitarsi, torcendosi le dita e poi piazzando la lista sul bancone. «Alla fine, mi ha lasciato farlo. Dopo che le ho fatto notare che le foto sui social media sarebbero state una pubblicità positiva e ho fatto firmare delle liberatorie ai genitori.»
«Ti piace insegnare ai bambini? A preparare dolci?»
Lei fece un ampio sorriso e annuì con entusiasmo. «Oh, sì. È una delle cose che preferisco in assoluto. Preparare dolci è fondamentalmente chimica e io cerco di tornare a questo. Faccio prima una dimostrazione con gli emulsionanti, perché la chiave della pasticceria sta nel trasformare qualcosa di idrosolubile in qualcosa di solubile negli oli.»
«Che genere di dimostrazione?»
«Uso latte, colorante alimentare e detersivo per piatti.»
«E il detersivo per piatti scompone i grassi.»
«Sì e il colorante satura quanto ne rimane.»
Annuii con un cenno austero. In verità annuii austero per dissimulare il fatto che Jennifer Sylvester mi avesse sorpreso di nuovo.
«Fai altri esperimenti di chimica? Con i bambini?»
«Ne faccio moltissimi, ma dipende dalla loro età.» I suoi occhi violetti si illuminarono, diventando quasi color lavanda. «Quello che piace più di tutti è quando gli dico di scrivere la loro ricetta con uno stuzzicadenti e la vaselina.»
Fissai il suo volto, ora sollevato, cercando di capire perché diamine facesse fare ai bambini una cosa simile. «Ok, mi arrendo. Perché mai fai scrivere loro la ricetta con stuzzicadenti e vaselina?»
Il suo sorriso divenne enorme e mise in mostra una fila di denti bianco perla. «Perché così è una ricetta segreta, che si può vedere solo sotto la luce a raggi ultravioletti. Così imparano...»
«La fluorescenza» conclusi io, guardando di traverso Jennifer Sylvester, la chimica occulta. Ora capivo perché fosse così brava a preparare dolci, non c’era da meravigliarsi. Era una scienza precisa ed era, come aveva detto lei, essenzialmente un’applicazione della chimica. Sarebbe dovuta andare all’università a studiare chimica invece di finire incatenata a un mixer elettrico nelle segrete di una cucina industriale ultimo modello.
Lei era, come sempre, sorprendente. La studiai: il sorriso caloroso, gli occhi violetti e luminosi, il mento appuntito e il cappello da baseball. Presi la decisione una frazione di secondo prima di farlo, le afferrai il cappello e me lo nascosi dietro la schiena.
Le mani di Jennifer salirono alla sua testa e la bocca le si spalancò. L’avevo chiaramente colta alla sprovvista.
«Perché mi hai preso il cappello?»
«Le tue sopracciglia sono molto scure.» Studiai le sue sopracciglia, ma la mia attenzione si spostò istintivamente più in basso. Gli occhi di quella donna erano irragionevolmente belli, davvero memorabili e io dovevo smetterla di fissarli.
Lei incrociò di nuovo le braccia, alzando il mento con aria infelice. «Quanto ancora hai intenzione di tenerti il mio cappello?»
«Perché tua mamma ha iniziato a tingerti i capelli? Quanti anni avevi?»
I suoi occhi assurdamente belli, sia nella forma che nel colore, si fecero assenti per una frazione di secondo. «E questo cosa c’entra ora?»
«Ti piace il colore dei tuoi capelli?»
Lei non rispose, e questa era una risposta sufficiente alla mia domanda.
«Prenderesti in considerazione l’idea di tornare al loro colore naturale? O a un altro colore che ti piace? Rosso, magari?»
Lei mi fissò a bocca aperta, con una rughetta perplessa tra le sopracciglia. «Pensi potrebbe aiutarmi?»
Io compresi perfettamente la sua domanda e perché l’avesse fatta. Se i suoi capelli fossero stati di un altro colore, le sarebbe stato d’aiuto nella sua ricerca di un marito? Sì. Ma non per il motivo che pensava lei.
Riprendere il controllo del suo aspetto era il primo passo per prendere il controllo della propria vita.
Per cui risposi a una declinazione della sua domanda. «Sì. Credo che farebbe una bella differenza se decidessi quale colore ti piace e poi tingessi i capelli di quel colore.»
La sua espressione si fece ancora più accigliata e i suoi occhi si abbassarono sul mio petto, che fissò senza vederlo realmente. Sembrava combattuta.
«Non penso che alla mamma piacerebbe.»
Io aprii la bocca per rispondere, ma poi mi fermai, perché quella che stavo per porre era una domanda critica. Dovevo usare esattamente il tono perfetto. Dovevo utilizzare esattamente l’espressione perfetta.
Mi avvicinai silenzioso di un passo, mettendo una mano sul bancone alla mia sinistra e addolcii il tono della voce. «Hai intenzione di fare per tutta la vita solo quello che piace a tua madre?»
Il suo sguardo si alzò nel mio ed era tagliente, non avevo mai pensato che Jennifer Sylvester fosse capace di lanciare uno sguardo tanto tagliente. Occhi stupendi, infiammati dalla rabbia; mento severo, appuntito; accuse silenziose mi trafiggevano di parole non dette. Il risultato di tutto questo era una miscela potente. La combinazione mi fece rizzare i capelli sulla nuca.
Era uno sguardo feroce. Ed ero impressionato.
Ma prima che mi potessi complimentare per quanto fosse impressionante il suo sguardo feroce, lei si girò e disse piano: «Credo che la lezione sia finita. Meglio se esci dal retro.» E uscì dalla cucina attraverso la porta che conduceva nel negozio.
Io fissai il punto in cui era sparita per un minuto intero, non perché mi aspettassi il suo ritorno, ma perché ero in ascolto. Cercavo di cogliere rumore di passi, o qualche segno che lei si stesse muovendo per la pasticceria. Ma non sentii alcun suono. Il che significava che era scappata sul davanti del negozio e si era nascosta, non stava facendo niente se non aspettare di sentire i rumori della mia partenza.
Non c’era problema. Avevo scosso la sua gabbia. Capivo il suo desidero di fuggire.
Controllai il mio orologio. Avevo ancora sei ore prima del mio prossimo appuntamento, abbastanza per fare un pisolino. Raccolsi i miei averi, una giacca a scacchi rossi e neri e il mio cappello, e gettai un’altra occhiata alla cucina. Aveva lasciato il foglio di carta piegato, quello con la lista di cose che le piaceva fare. Me lo infilai in tasca e uscii dalla porta sul retro.
La prossima lezione non sarebbe stata prima di due settimane. Due settimane avrebbero concesso a Jennifer il tempo per elaborare la mia domanda e decidere. Per chi viveva la sua vita? Per se stessa o per sua madre?
Hank Weller era bravo a fare due cose: pescare e fare soldi.
In quanto proprietario dello strip club della zona, Hank offriva spesso ai suoi clienti delle escursioni sulla sua grande barca. Io non ero un cliente. Ciononostante, mi portava comunque a pescare di tanto in tanto, se lo chiedevo. Questo perché Beau e Hank erano ottimi amici, fin dall’infanzia. Beau era il mio lasciapassare.
Era una bella mattina per pescare. Non troppo fredda. Il vapore acqueo si alzava sopra il lago, annebbiandone la superficie, come se fosse coperta di garza. Dal momento che era settembre inoltrato, il lago era circondato sui tre lati da alberi che cercavano di imitare al meglio i fuochi d’artificio autunnali. Gli uccelli si lamentavano della loro colazione, ma a parte questo il solo altro suono era quello dell’acqua, che sciabordava pigra contro la riva.
A me piaceva la natura, eccome, però non mi piaceva pescare. Ma non avrei mai rinunciato a un’opportunità conveniente di cancellare una voce dalla mia lista di cose da fare.
«Da quanto tempo, Cletus.» Catfish alzò il mento a mo’ di saluto mentre saliva a bordo della grossa barca di Hank. «Che hai combinato negli ultimi tempi?»
Catfish, che non era il suo nome di battesimo, era un comandante degli Iron Wraiths. Quindi, era uno che contava, ma non tanto da prendere decisioni. Era un bravo soldato.
«Questo e quello» risposi, con disinvoltura.
«Come sta tua sorella?» La domanda mi fu rivolta da Drill, che fu il successivo a salire in barca.
«Attento.» Hank si mise di fianco a me, incrociando le braccia. «Non si parla della famiglia. Non creiamoci problemi inutili.»
«Chiedevo e basta.» Drill scrollò le spalle, due macigni, e ghignò. Il sole dell’alba si rifletté sulla sua testa pelata. Se Mastro Lindo avesse preso steroidi, si fosse vestito di cuoio nero dalla testa ai piedi e avesse avuto l’odore di lubrificante, il risultato sarebbe stato Drill.
Così lo vedevo io.
Adocchiai la terza persona del loro gruppetto e posai la mano sulla spalla di Hank. «No, no. Va bene. Ash sta benissimo, grazie dell’interessamento, Drill. Ha appena conseguito la seconda cintura nera in Kenjutsu, hai presente, quell’arte marziale in cui usano i coltelli affilati? Visto che è un’infermiera, lei sa giusto dove pugnalare una persona. Dovresti vederla scuoiare un coniglio. Siamo molto fieri di lei.»
Si trattava, naturalmente, di una colossale stronzata, eccetto le parti sull’essere un’infermiera e sullo scuoiare conigli, perché lei era davvero brava a scuoiare conigli. Ma Drill spalancò gli occhi, leggermente piccato, e lasciò perdere la questione.
«Ehi, Twilight.» Accolsi il terzo membro del loro gruppo tendendo la mano. Lui la guardò, poi guardò me e poi nuovamente la mia mano. Solo allora la strinse.
Isaac Sylvester, in arte Twilight, che era anche il fratello di Jennifer Sylvester, non era ancora un membro dei Wraiths. Era quello che si definiva un “prospect”, un candidato Wraith. Jethro lo era stato circa cinque anni fa, ma se n’era andato prima di diventarne ufficialmente membro. Grazie a Dio.
«Cletus» mi salutò, incontrando i miei occhi. Io scrutai i suoi e scoprii che erano di un semplice azzurro. Mi accigliai.
Da dove diavolo aveva preso, lei, quegli occhi violetti?
«A proposito di sorelle,» adottai la mia aria più bonaria e rivolsi a Isaac un sorrisino allegro, «come sta la tua?»
La sua mascella si contrasse e i suoi occhi semplicemente azzurri si adombrarono e guizzarono da un lato all’altro, come se volesse fare una smorfia senza darlo a vedere.
«Non ho sorelle» borbottò, con le labbra arricciate.
«Sì che ce l’hai.» Allargai il mio sorriso, in un’interpretazione del buffone benintenzionato. «Prepara torte, no?»
«Sai com’è Cletus…» Catfish intervenne, aspettando di avere la mia completa attenzione prima di continuare. «Quando un uomo si unisce ai Wraiths, i Wraiths diventano la sua sola famiglia. Ora Twilight ha solo fratelli.»
Annuii pensieroso. «Ah, sì. Avevo dimenticato questo particolare.» Riportai gli occhi su Twilight, per vedere la sua reazione quando aggiunsi: «Non dev’essere facile per le sorelle, però.»
Isaac guardò in lontananza verso il lago, ma dubito che lo vedesse. Sembrava assente, impantanato in pensieri gravosi.
Nel frattempo, mi risentii ancora una volta dispiaciuto per Jennifer Sylvester. Aveva perso il fratello, o almeno per lei era perso. Pensai a come sarebbe stato per noi se Jethro ci avesse ripudiati per i Wraiths. Non era un pensiero piacevole. Lo scacciai rapidamente.
«Stiamo aspettando qualcun altro?» Catfish prese una birra dal frigo portatile e si sedette su una delle panche coperte dal cuscino del ponte.
«Solo Beau» dissi, lanciando un’occhiata al mio cellulare. Non gli piaceva essere in ritardo, ma gli avevo ordinato di essere in ritardo. Mi serviva quel ritardo. In cambio gli avevo promesso che avrei cucinato la mia salsiccia per cena, quando sarebbe stato il mio turno ai fornelli la prossima settimana. Andava matto per la mia salsiccia, ovviamente. «Lo chiamo per vedere dov’è.»
Scesi dalla barca e mi incamminai lungo il molo, fino alla baita di Hank e ancora oltre, dove Catfish aveva parcheggiato il suo furgone. Conoscevo quel furgone. Cinque anni fa vi avevo installato delle botole nascoste.
Quelle botole erano scompartimenti segreti che usavano per trasportare droga e altre cose del genere ed evitare i controlli della polizia. All’epoca le avevo installate per aiutare Jethro a tirarsi fuori dai Wraiths.
Usare le botole ora, come mezzo per smantellare l’intera organizzazione degli Iron Wraiths era un bonus davvero felice. Contrariamente a quanto si credeva, installare botole era perfettamente legale. È legale fintanto che l’ingegnere responsabile informa le forze dell’ordine locali dell’installazione. Io avevo informato le forze dell’ordine locali. E poi mi ero assicurato che la raccomandata non venisse mai alla luce. Era nascosta nel loro magazzino prove, con un numero di inventario sbagliato. Ma io sapevo dove si trovava e avrei fatto in modo di farla rinvenire e giungere sulla scrivania dello sceriffo James quando il momento sarebbe stato giusto.
Dopo essermi infilato i guanti che avevo estratto dalla tasca, aprii la portiera del furgone, che non era chiusa perché chiaramente quei tipi si consideravano intoccabili, e aprii la botola sotto il sedile del guidatore. Estrassi le prove che avevo sottratto due settimane fa dalla mia tuta da meccanico, le prove consegnate dai fratelli King allo sceriffo, e le misi in fondo alla botola assieme a una lista fittizia di date e posti.
E per “fittizia”, intendevo vera. La sola cosa fittizia della lista era che l’avevo redatta io a fatti avvenuti, dopo aver osservato le attività dei Wraiths per gli ultimi otto mesi. La lista di date, nomi e luoghi serviva a far apparire più organizzato il loro caos di inefficienza.
E l’organizzazione era il punto fondamentale. Creare una apparente premeditazione e pianificazione era il mio obiettivo, e la lista il modo di raggiungerlo.
Controllato che tutto fosse in ordine, chiusi la portiera proprio mentre Beau si fermava con la sua Pontiac GTO del 1967.
Ammirai le linee della carrozzeria. Era una bella macchina, ma troppo appariscente per me. Come Drew aveva osservato ieri, io preferivo nascondere le cose in piena vista.
Era il mio talento. www.leggenditaly.com