Capitolo 3

“Se lui è il signor Hyde” pensava,

“Allora io sarò il signor Seek.”

- Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dr. Jekyll e il signor Hyde

Jennifer

«Grandi notizie!»

L’annuncio di mia madre mi fece sobbalzare. Aveva l’abitudine di apparire dal nulla e proclamare annunci ad alta voce. Io ero una persona quieta e le sue grida di solito mi prendevano alla sprovvista.

«Di che si tratta, nocciolina?» Mio padre alzò lo sguardo dal suo giornale, con un sorriso tollerante in volto. Era molto indulgente con mia madre da quando lo chalet aveva iniziato a guadagnare bene.

Mia nonna diceva che lui era una persona che incoraggiava eccessivamente, e che era un bene che mamma non fosse un’alcolista perché in quel caso lui sarebbe stato quello che le versava i drink.

«Ho appena finito di parlare al telefono con Jacqueline Freeman.» Mamma spostò lo sguardo tra me e mio padre.

Eravamo seduti al tavolo della cucina. Era domenica mattina presto e io mi ero appena seduta, dopo aver passato le ultime quattro ore a preparare leccornie per la pasticceria. La domenica era sempre una giornata piena grazie alla folla che andava in chiesa.

Quando continuammo a guardarla con perplessità, lei sbuffò, scuotendo la testa verso di noi. «Jacqueline Freeman? La talent agent? A New York?»

«Oh.» Mio padre saltò sulla sedia. «Giusto. Mi ricordo che ne hai parlato il mese scorso. Che emozione. Di sicuro porterà un sacco di ricavi agli affari. Era proprio ora di cambiare la barca.»

Io feci una smorfia, contrariata, non coglievo il succo della conversazione. «Perché avresti parlato con una talent agent?»

«Jennifer, non fare quella faccia. Ti farà venire le rughe.»

Alzai gli occhi al cielo, guadagnandomi uno sguardo severo da entrambi i miei genitori. «Jennifer Anne Sylvester» iniziò mia madre, accigliandosi severa, «sai che non mi piace quando ci manchi di rispetto.»

«Ascolta tua madre, Jennifer» aggiunse mio padre, senza che ce ne fosse bisogno.

«Chiedo scusa» offrii fiaccamente, mentre una punta di istintivo senso di colpa mi germogliava in petto. Scossi la testa. «Scusatemi, sono solo stanca.»

Lo ero davvero. Non dormivo bene da quando avevo ripreso il fattaccio alla stazione di polizia, a inizio settimana. Non sapevo cosa fare e non avevo nessuno con cui parlarne.

Mamma non si era resa conto che ero già andata alla stazione e avevo registrato il video promozionale, per cui non me l’aveva ancora chiesto. Tutte le accuse contro Razor erano cadute. A quanto si diceva, era stato arrestato per un reato minore, possesso di droga; niente di troppo serio, ma quanto bastava a chiuderlo in prigione per qualche mese.

Senza le prove scomparse, invece non avevano potuto trattenerlo in custodia.

Non avrei dovuto pensarci due volte a consegnare Cletus alle autorità. Aveva preso le prove, io l’avevo registrato, per cui avrei dovuto chiamare lo sceriffo e mostrargli il video immediatamente. Ma non l’avevo fatto. Ogni volta che pensavo di alzare la cornetta, pensavo a una scusa: ero troppo stanca, troppo occupata, troppo comoda sotto le coperte.

Non volevo pensare alla vera ragione per cui non l’avevo ancora consegnato alle autorità, perché la vera ragione faceva di me una persona orribile.

Per cui mi tormentavo e cuocevo dolci.

«Non preoccuparti. Ora, dov’ero rimasta? Credo di essermi scordata di dirtelo.» Mamma iniziò ad agitare le mani per aria, tutta eccitata. «Beh, dunque: Jacqueline Freeman è una talent agent di New York, come ho già detto, e di punto in bianco ha ricevuto una chiamata da quelli della Banana Chiquita, che chiedevano di te. Lei è in contatto con quelli della Kraft e… lascia perdere. Non è importante.»

Cercavo di seguire ma facevo fatica a trovare un senso in quella sua spiegazione sconclusionata. «Quindi, questa signora a New York...»

«Jacqueline Freeman, una dei migliori talent agent.»

«La signora Freeman ha ricevuto una chiamata da quelli della Banana Chiquita e chiedevano di me?»

«Esatto.»

«Perché dovrebbero chiamare lei?»

«Perché è così che funziona.»

«Così che funziona cosa? E poi perché hanno chiamato?»

«Non è ovvio? Vogliono che tu sia la loro testimonial. Ti vogliono nelle loro pubblicità, te e le tue torte.» Batté le mani e poi si rivolse a mio padre. «Oh, questo ci faciliterà tantissimo le cose con gli investitori dello chalet. Non appena lo sapranno, l’affare sarà praticamente concluso. Dio, non sai che peso mi toglie dalla mente.»

Nel frattempo, il mio stomaco iniziò a contorcersi. Mi sentivo come se dovessi vomitare.

«Pubblicità?» chiesi con un filo di voce.

«Esatto. Televisive, per iniziare, e Jacqueline ha accennato a uno show culinario più avanti. Ma prima inizieresti come ospite nei programmi del Food Network. Jennifer, non credo serva dirti quanto tutto questo sia importante, bambina. Ci siamo, questo è esattamente ciò in cui speravamo.»

Il cuore iniziò a battermi fiaccamente nelle orecchie, prima di partire al galoppo. La stanza iniziò a inclinarsi. Cominciai a sudare freddo. Gola e bocca erano aride come il deserto.

TV? Show culinari?

«Jenn?» fece mia mamma, con voce lontana. «Tesoro, stai bene?»

Non voglio niente di tutto questo. Non voglio niente di tutto questo.

«Non voglio… Posso...» Cercai di deglutire ma non ci riuscii. La stanza stava girando. «Posso avere un bicchiere d’acqua?»

«Bambina mia, non hai un bell’aspetto.»

L’oscurità iniziò a strisciare ai margini nella mia visione laterale e io puntai i palmi contro il piano del tavolo per mantenere l’equilibrio.

Troppo tardi.

L’ultima cosa che vidi prima di arrendermi all’oscurità fu il volto di mia madre sopra di me, fuori di sé dalla preoccupazione.

Mi svegliai in un’ambulanza.

Al Pronto Soccorso a Knoxville mi fecero un sacco di esami. Alla fine i dottori decisero che era stata colpa della disidratazione e della stanchezza. I fluidi mi furono somministrati e io venni rispedita a casa con un severo ordine di riposare. Quando uscii dall’ospedale mi sentivo più un puntaspilli che una persona, e avevo deciso cosa fare riguardo Cletus Winston.

Quando mio fratello se n’era andato di casa per arruolarsi nell’esercito, anni fa, io mi ero trasferita nella sua vecchia camera, nonostante fosse più piccola della mia. Mamma non aveva capito perché volessi la stanza più piccola al primo piano, quella con la finestra che dava sul porticato quando avrei potuto avere invece quella più grande al secondo, con la finestra che dava sulle montagne.

Non aveva capito che mi serviva una via di fuga. Non ero solita sgattaiolare fuori. L’avevo fatto solo due volte e mi ero assicurata di non essere scoperta. Ma il solo sapere che me ne sarei potuta andare, se l’avessi voluto, rendeva la realtà quotidiana meno opprimente.

Mi piaceva l’idea di poter preparare una borsa, in qualsiasi momento, e scomparire. Mi piaceva sapere che sarei potuta svanire, lasciarmi alle spalle gravose aspettative. Non l’avrei mai fatto, non avrei mai potuto guardarmi allo specchio se avessi ferito i miei genitori in quel modo, specie la mia mamma, ma mi piaceva sapere di avere la possibilità di farlo.

La prima volta che ero sgattaiolata fuori di casa avevo diciassette anni. Un mio amico di penna era a Knoxville e mio padre mi aveva proibito di incontrarlo. Determinata, ero uscita dalla finestra, avevo calcato un cappellino da baseball e avevo incontrato Oliver Muller e i suoi genitori al Daisy’s Nut House per un caffè decaffeinato e una fetta di torta vecchia di un giorno. Oliver e la sua famiglia erano davvero simpatici. Era più grande di me di solo un anno e da allora era andato all’Università di Berlino, dove si era laureato in ingegneria elettronica.

La seconda volta, avevo vent’anni. Un artista che mi piaceva si esibiva a Knoxville e mamma non voleva che andassi. Aveva detto che la gara di pasticceria della fiera statale era alle porte. Determinata, avevo usato nuovamente la finestra, preso in prestito la macchina della mamma ed ero andata al concerto tutta da sola e mi ero divertita come mai in tutta la MIA VITA. Non avevo avuto paura. Volevo vedere quel concerto, quindi ci ero andata.

Quella sera avrei usato la mia via di fuga per guidare fino a casa dei Winston e affrontare Cletus Winston.

Ero spaventata a morte.

Ma ero determinata.

Non appena scese la notte, mi infilai i miei jeans di contrabbando, scarpe da tennis e cappello da baseball, riempii il mio letto di cuscini e uscii dalla finestra del primo piano. La mia macchina era in fondo al vialetto e, grazie a Dio, era il nuovo modello elettrico della BMW. Era silenziosa quanto un bisbiglio.

Feci attenzione a non accendere i fari finché non fui sulla strada principale. La casa dei Winston non era lontana, bastava risalire per qualche chilometro la Moth Run Road, e si trovava alla fine di una enorme proprietà di parecchi acri. Nessuno avrebbe visto la mia auto dalla strada principale ma, tanto per essere sicura, mi fermai sul lato della casa, dove un enorme pero era carico di frutti.

Non stetti a indugiare, perché se mi fossi fermata a pensare alla sensatezza delle mie azioni avrei cambiato idea. Le mie azioni erano sensate quanto quelle di qualcuno che punzecchiava un orso con un bastone.

Ma ero disperata.

Se c’era qualcuno che avrebbe potuto aiutarmi, quello era Cletus Winston: anche se avrei dovuto ricattarlo per indurlo a farlo.

Chiusi la portiera della macchina il più piano possibile e mi mossi velocemente lungo il portico anteriore, prima salendo i gradini due alla volta e poi correndo verso la porta. Bussai. Forte. Più e più volte. E poi aspettai.

Avevo il cuore bloccato in gola per cercare di deglutire per mandarlo giù. Non potevo mostrare alcuna debolezza. Dovevo fare la dura.

Io so fare la dura. Annuii, spostando il peso da un piede all’altro. Posso essere davvero una dura. Non puoi essere una femminuccia quando sei capace di fare cinquanta pagnotte di pane in un giorno. Bisogna impastare davvero tanto, per riuscirci. Io sono dura come una roccia. In pratica sono la Rocky Balboa dei pasticcieri. Sono inarrestabile! E nessuno mi…

La porta si spalancò. Io saltai all’indietro di mezzo passo. La voce mi venne a mancare.

Era Cletus.

Rimase sulla soglia, con un mezzo grembiule legato intorno ai fianchi e un cucchiaio di legno in mano. Sembrava allarmato.

I suoi occhi passarono rapidamente sulla mia figura e disse: «Non ti conosco.»

Io sbattei le palpebre, sorpresa dalla sua affermazione palesemente falsa. Non ci eravamo mai parlati, ma di sicuro sapevamo dell’esistenza l’uno dell’altra. Il fatto che mi stesse guardando e non mi riconoscesse mi aiutò prodigiosamente nel vincere la mia paura.

Mi misi le mani sui fianchi, spinsi il mento all’infuori. «Invece mi conosci di sicuro. Tua mamma mi leggeva le storie il martedì alla biblioteca e sono andata al catechismo con tuo fratello più piccolo.»

Le sopracciglia di Cletus si alzarono per un attimo davanti alla mia affermazione, ma nessun altro segno di sorpresa era visibile sul suo volto. «La Regina della torta alla banana» annunciò senza emozione. «Cosa vuoi?»

Ancora una volta la sua fu un’accoglienza che non avrebbe potuto farmi arrabbiare più di così. Per un istante, mi dimenticai di chi fosse. Mi dimenticai di avere paura. Mi dimenticai di non essere brava a parlare alle persone, e agli uomini specialmente.

Per un istante, la mia disperazione e la mia irritazione ebbero la meglio su ogni altra cosa che sapevo di me stessa.

Quindi pretesi: «Devo parlare con te.»

Lui mi guardò torvo. «Non posso. Ho da fare. Ciao.»

Cletus fece per chiudere. Io infilai un piede nell’arco della porta? e puntai la mano contro il legno solido. «Allora liberati. Devo dirti una cosa importante.»

Le sue sopracciglia si alzarono nuovamente, più in alto, stavolta. «Ne dubito seriamente.»

«Vuoi andare in galera?» lo sfidai.

«Per cosa? Per non averti parlato? Ora, so che devi avere un’opinione piuttosto alta di te stessa, ma tu lo sai che non sei una vera regina, giusto?»

Mi sporsi verso di lui, sussurrando a denti stretti: «Se non parli con me, allora chiamerò lo sceriffo e gli mostrerò un video molto interessante che ho girato la settimana scorsa, in cui ci sei tu.»

Cletus sbatté le palpebre e i suoi occhi si mossero tra i miei, in cerca di qualcosa. Io serrai la mandibola e sostenni il suo sguardo, anche se la mia risolutezza si indebolì un pochino perché lui odorava di cibo italiano. Odorava di lasagna e la lasagna era il mio piatto preferito, e non mi era permesso mangiare la lasagna. Mamma non me la lasciava mangiare mai. Diceva che faceva ingrassare troppo.

Il mio stomaco brontolò. Lui non parve sentirlo.

«Va bene» disse all’improvviso, girandosi e posando il suo cucchiaio in qualche posto che non riuscivo a vedere. Chiaramente irritato, fece un passo in avanti finendomi quasi addosso e costringendomi ad arretrare, mentre chiudeva la porta dietro di sé. «Andiamo.»

Cletus mi superò con passo tranquillo e sicuro, senza aspettare per vedere se lo seguissi, e scese i gradini del portico. Io lo guardai andare alla sua auto e aprire la portiera del guidatore.

Senza alzare lo sguardo, mi chiamò. «Datti una mossa, sua maestà. Non ho tutta la notte.»

Esitai per appena una frazione di secondo, poi seguii le sue orme fino alla sua macchina, aprii la portiera del passeggero e mi infilai dentro.

Cletus di solito guidava una Geo Prizm dell’inizio degli anni ’90, color grigio. A volte guidava una Buick vintage, ma molto raramente.

Mi aspettava nella Geo, a braccia incrociate, con lo sguardo incollato fuori dal parabrezza. La macchina era piccola e lo faceva sembrare enorme e imponente. Accese la luce dell’abitacolo e le luci da lettura. Io chiusi la mia portiera, seguendo il suo esempio. Seguì un breve silenzio, durante il quale realizzai la realtà della situazione in cui mi ero cacciata. Fu come essere investita.

Ero sola.

Sola con Cletus Winston. Ero sola con Cletus Winston e nessuno sapeva dove fossi.

Oh. Cazzo.

«Allora?» abbaiò lui, spezzando il silenzio e facendomi sobbalzare. «Perché sono qui seduto con te invece di essere dentro a badare al mio sugo?»

«Ho visto cosa hai fatto» annunciai.

«Hai visto cosa ho fatto» ripeté in tono piatto, sembrava annoiato dalla conversazione e da me. I suoi occhi erano puntati sullo specchietto retrovisore.

Ma io non mi sarei fatta ignorare o prevaricare. Non stavolta.

«Esatto.»

«Dovresti essere più specifica. Faccio un sacco di cose.»

Raccogliendo ogni briciola di coraggio dentro di me, dissi: «Ho visto cos’hai fatto, la scorsa settimana, con le prove contro gli Iron Wraiths. Le hai prese. E ora non le trovano e lasciano cadere le accuse contro Razor.»

Finalmente, finalmente Cletus mi guardò. Con mia grande sorpresa, gli occhi che avevo supposto fossero verdi erano invece di un azzurro ardente e poi lui sbottò: «Non hai visto proprio niente.»

«Invece sì.» Annuii alla mia dichiarazione. «In effetti, ho un video che ti riprende mentre lo fai.»

Lui sbatté le palpebre. La sua espressione e la sua voce, di solito tanto controllate, si incrinarono entrambe dalla sorpresa. «Tu hai fatto cosa?»

«Ti ho ripreso con il cellulare.» Deglutii per tre volte di fila senza motivo.

Il suo sguardo si fece affilato tanto da spaventarmi, come se delle nuvole o una nebbia immaginaria si fossero diradate rivelando un piccolo barlume del vero Cletus Winston dietro di esse. Quei suoi nuovi occhi guizzarono sulla mia figura.

«Dimostramelo.» Il suo ordine fu brusco e rapido, come un colpo di frusta, e mi fece balzare e partire al galoppo il cuore nel petto.

Estrassi il telefono dalla tasca con dita tremanti. Sapevo perché stavo tremando. Non ero abituata ai conflitti. Avevo sempre pensato di avere un’indole naturalmente pacifica, preferivo la pace all’irriverenza. Ma situazioni disperate richiedevano misure disperate.

Mi strappò di mano il cellulare non appena lo sbloccai e iniziò a passare da una schermata all’altra finché non arrivò ai miei video. Trovò quello datato la settimana scorsa, quello in cui avevo ripreso lo sceriffo James mentre parlava dei miei cupcake e premette play. Mentre Cletus guardava, vidi una sfumatura di colore sparirgli dalle guance. Stava guardando quanto avevo colto io la settimana scorsa mentre rivedevo le riprese. In una metà dello schermo c’era lo sceriffo. Nell’altra, Cletus era sullo sfondo, si intascava le prove, si guardava intorno e poi si allontanava.

Cletus emise un suono strozzato che sembrava sia di frustrazione che di ira. Spostai lo sguardo sulla portiera di fianco a me, prendendo in considerazione l’idea di fuggire, ma rinunciandovi immediatamente. Nel frattempo, lui riguardò il video. Quando quello arrivò alla fine per la seconda volta, il silenzio prese il suo posto, pesante e duro tra noi. Io lo studiai, tentando in ogni modo di discernerne i pensieri.

Cletus non aveva alcuna espressione il che, realizzai di colpo, era tremendamente inusuale. Lui aveva sempre un’espressione dipinta in volto. Pensierosa, preoccupata, paziente, annoiata, interessata, austera, turbata. Era strano, per una persona, avere sempre un’espressione in viso.

A meno che quella persona non si dipingesse le emozioni in volto come una maschera, allo scopo di celare la vera natura dei suoi pensieri.

«Hai delle copie?» Il suo tono, freddo e granitico, mi fece rabbrividire.

Non sembrava per nulla il Cletus Winston imbranato ma affabile che aveva ingannato tutti quanti sotto i loro occhi. Sembrava pericoloso.

Mi schiarii la gola prima di poter riuscire a parlare. «Sì. Ne ho fatte più di una. L’ho salvato in più posti.»

Un lato della sua bocca si alzò per un secondo, ma nei suoi occhi non c’era traccia di allegria quando li riportò su di me. «Saggia idea. Altrimenti avrei spaccato il tuo cellulare in un’infinità di pezzettini. E allora, sarebbe stata la tua parola contro la mia.»

«Esatto» esalai la parola d’un fiato, mentre il buon senso dettato dalla paura lottava con la mia determinazione.

Ma, dannazione, mi serviva il suo aiuto. E doveva essere lui ad aiutarmi. Doveva essere lui e basta. Lui poteva far accadere qualunque cosa. Tutti in città e nei dintorni gli dovevano un favore. Avevo sentito le voci. Avevo prestato attenzione. Avevo messo insieme i pezzi del puzzle.

E ora avevo in pugno l’uomo più potente del Tennessee orientale.