Capitolo 28

Le cose diventano più dolci quando sono perdute.

- F. Scott Fitzgerald, Belli e Dannati

Sienna

Jethro mi portò alla Daisy’s Nut House per il nostro ottavo appuntamento.

Quando arrivammo, trovammo un cartello con su scritto “Chiuso per festa privata”. Aveva prenotato l’intero ristorante. Eravamo solo io, Jethro, Daisy e una cena a lume di candela per due a base di hamburger, patate fritte, salsa piccante e milkshake.

Lui suggerì un tavolo con divanetti sul retro, ma io chiesi di mangiare al banco. Non riuscivo a ricordarmi l’ultima volta che avevo potuto mangiare seduta al banco di un ristorante. Mi sembrava così sfacciato starmene così esposta, come se fossi in mostra ma senza conseguenze. Magnificamente liberatorio era come l’avrei descritto.

Seduto di fianco a me, su uno sgabello, Jethro mi guardava con espressione ironica mentre aggiungevo una generosa quantità di salsa sriracha al mio hamburger groviera e funghi.

«Che c’è?» Disegnai una faccia sorridente con la salsa sopra la carne.

«Niente». Scosse la testa, continuando a sorridere e a guardarmi in un modo che spingeva il mio stomaco e il mio cuore a fare salti acrobatici.

«No. Dimmelo. Che c’è?»

Lui esitò per un secondo prima di rispondere: «Niente, solo mi piace che tu mangi la salsa piccante, perché vuol dire che sai come reagire alle sorprese nella tua bocca».

Lo guardai male. Probabilmente pensava che la sua affermazione fosse divertente, o scioccante o simpatica, o forse tutte e tre le cose. In effetti, lo era. Era divertente, scioccante e simpatica, ma solo perché l’aveva detta lui. Solitamente Jethro flirtava in modo leggero e canzonatorio, rispettoso. Raramente era sconcio. Beh, tranne quando eravamo a letto. Quindi mi piaceva il suo flirtare sconcio. Mi sembrava speciale, riservato solo a me. Jethro e i suoi strati, uno dei quali, a quanto pareva pensava a farmi una sorpresa. Nella mia bocca.

Aspettai che prendesse un morso del suo hamburger prima di chiedere: «Cosa ne pensi allora delle caramelle frizzanti?»

Jethro tossì, i suoi occhi schizzarono fuori dalle orbite e si coprì la bocca con un tovagliolo. Forse si stava strozzando a morte con ketchup e risate. Lo interpretai come un segno per continuare.

«Perché se pensi che la salsa piccante sia una sorpresa, dovresti provare caramelle frizzanti e Coca Cola. Voglio dire, è come far scoppiare una bomba di cosa cazzo mi è venuto in mente dentro la tua bocca».

«Basta» disse, con voce strozzata, prendendo e bevendo la sua acqua a grandi sorsi, continuando a ridere e strozzarsi.

Continuai a guardarlo male, ma con un ampio sorriso, ora.

Aveva le lacrime agli occhi e se le asciugò, continuando a ridacchiare. «Te lo prometto, non sorprenderò mai la tua bocca se tu prometti di non fare mai più battute mentre io ho del cibo nella mia».

«D’accordo».

Siglammo il patto con una stretta di mano. Invece di lasciare la mia, la tenne sulla sua coscia, avvolgendo le dita attorno alla mie. Non mi ricordavo di aver mai tenuto per mano qualcuno durante un appuntamento, prima. Era un gesto così semplice, così affettuoso, come se non riuscisse a sopportare di avermi tanto vicina senza toccarmi.

Lo amai per questo.

Lo amo.

Sbattei le palpebre. Quel pensiero spontaneo mi aveva colta alla sprovvista ed era reso ancora più spaventoso dal fatto che non era troppo presto. Dopo il campo di Hawk e il successivo divertimento eravamo molto più aperti riguardo la nostra relazione. Lui restava con me quasi tutte le notti. Andavamo insieme al set e poi pomiciavamo o ci godevamo la reciproca compagnia nella mia roulotte. La troupe sparlava, ma a noi non importava niente.

Avevamo fatto tutto, ma non avevamo superato il suo limite e io credevo che a lui il mio tentarlo piacesse tanto quanto a me.

Io ero pazza di lui.

Tutto andava a meraviglia.

Eravamo perfetti insieme.

Se la mia vita fosse stata una sceneggiatura, il tempismo sarebbe stato perfetto. Due mesi, otto appuntamenti, qualche alto e basso, o meglio molti alti e pochi bassi, e nessun problema insormontabile.

Lo amavo. Mi fidavo di lui. Volevo stare con lui in ogni momento. Mi trattava come se fossi preziosa per lui, come se fossi la cosa più importante della sua vita, come se fossi la priorità. E io speravo che lui sapesse che anche io provavo la stessa cosa per lui. Non riuscivo a immaginare la mia vita senza di lui.

«Sai, ancora non so davvero molto di cosa fai in realtà».

«Cosa faccio?» Risposi con un grido stridulo, cercando di seguire la conversazione anche se mi sforzavo di non perdere la testa riguardo all’aver scoperto di amarlo.

Non avevo mai amato qualcuno.

Ma amavo Jethro.

Lo amo.

«Sì, il tuo lavoro. Abbiamo parlato di come scrivi, ma non parli mai molto di quando reciti».

Che commento divertente. Davvero non avevamo mai parlato del mio lavoro? Ero sicura che in qualche situazione avessi straparlato incessantemente del recitare.

«Il mio lavoro?»

«Sì».

Un sorriso spontaneo s’impadronì della mia bocca e il mio cuore saltò qualche battito. «Allora non hai cercato il mio nome su internet?»

«No». Sorrise, chiaramente contento che io ne fossi contenta.

Già. Lo amo.

«Per niente? Non mi hai per niente googlata, yahooata o bingata?»

«Non so cosa voglia dire bingare, ma sembra qualcosa che dovremmo provare dopo».

«No. Non dovremmo. È un ricettacolo vergognoso di speranze disilluse, il posto in cui sogni e ricerche vanno a morire» dissi scherzando, perché ora sapevo che l’amavo e quindi ero nervosa.

«Meglio stare alla larga dai ricettacoli vergognosi di speranze disilluse». Lui mi sorrise anche mentre mi studiava, la sua voce aveva un tono da baritono ricco e vellutato. Amavo persino la sua voce. Anzi, amavo particolarmente la sua voce.

Poi chiese: «Parlare del tuo lavoro ti innervosisce?»

«No. No, per niente. Solo, non riesco a credere che non te ne abbia ancora mai parlato. Voglio dire, di solito è l’unica cosa di cui le persone vogliono parlarmi».

La mia confessione disinvolta chiaramente non gli piacque, perché il suo conseguente cipiglio fu marcato. Era la verità: le persone di solito volevano parlare solo del mio lavoro, dei miei film o di come fosse essere un’attrice, ma io non avevo mai ammesso questa verità ad alta voce, né l’avevo esplicitamente formulata come pensiero.

E invece, con Jethro, ci conoscevamo da mesi ed era la prima volta che mi aveva fatto una domanda al riguardo. A dire il vero c’era stata un’altra occasione, quando pensava che mi chiamassi Sarah e gli avevo detto di essere una scrittrice. A parte quell’incidente, mi aveva fatto qualsiasi genere di domanda, cosa pensavo, cosa desideravo, ma mai a proposito dell’essere un’attrice o una celebrità.

Mi affrettai a rispondere, perché non volevo continuare a rimuginare sulla verità deprimente della mia confessione improvvisa. «Allora, vediamo. Il mio primo film Martedì: Taco, non parlava molto di taco. Parlava di una ragazza che si stancava delle parole che si usano per descrivere le donne, ma che non sono usate quasi mai per gli uomini».

«Tipo? Fammi qualche esempio».

«Okay. Tipo peperina. O formosa. O graziosa, briosa, leziosa, sgualdrina, troia o suora».

Lui annuì, pensieroso. «Già, okay. Capisco cosa vuoi dire. Non ho mai chiamato un uomo peperino, o troia, se è per questo».

«E non lo faresti. Semplicemente non si fa. Una donna è una troia, ma un uomo è un figlio di troia. Perché il genere di base di una puttana dev’essere femminile? Perché non possono essere semplicemente troie e troii invece di variare in base al sesso?»

«Vero. Anche gli uomini dovrebbero poter fare i troii».

«Quello che dico sempre anch’io. Faccio sempre molta attenzione a definire i miei amici operatori del sesso escort, e non “sgualdrina al maschile” o “uomo-meretrice”».

Jethro rise, e il sorriso gli rimase sulle labbra ancora a lungo dopo che terminò di ridere.

Amavo il suono della sua risata, e amavo che ridesse tanto liberamente, senza freni. Amavo quanto fosse vulnerabile alla felicità, veramente disposto ad accoglierla a braccia aperte.

La sua disponibilità faceva sì che stare con lui fosse rilassante, semplice. Così semplice da far sembrare la compagnia di ogni altra persona difficile e impegnativa, paragonata alla sua.

Quando realizzai che stavo fissando lui e il suo affascinante volto, mi riscossi, riportai l’attenzione sul cibo e ritornai in me. «Comunque questa ragazza, Kate si chiamava, si era stufata di come venivano usate le parole; quindi inizia a insultare le donne usando parole riservate agli uomini, come testa di cazzo, e gli uomini usando parole riservate alle donne, come bacchettona. Ma poi la sua invettiva viene ripresa dai notiziari nazionali, diventa virale e lei si ritrova a essere una riluttante portavoce del femminismo. Era una commedia satirica, tipo un film sull’amicizia in cui si prendevano in giro sia gli uomini che le donne, i nostri problemi da primo mondo, le femministe e i mascolinisti».

«Mascolinisti?»

«Oh, sì. Gli attivisti per i diritti del genere maschile».

Il modo in cui Jethro alzò e aggrottò contemporaneamente le sopracciglia mi indicò che il concetto lo lasciava perplesso. «Non esiste una parola così, te la sei inventata».

«No. Non me la sono inventata. Giuro. Esistono e hanno degli account su Twitter e mi odiano tutti».

«Ma che diavolo è un “attivista per i diritti del genere maschile”?»

«Beh, se lo chiedessi a Kate, la protagonista di Martedì: Taco, risponderebbe che sono una congrega di delicati, capricciosi omini, che sono molto peperini, testardi e virginei e che si agitano perché la società sta erodendo il loro privilegio. Ma se lo chiedessi a me, ti direi che sono un branco di persone che non hanno niente da fare, hanno un quoziente intellettivo microscopico e non riescono a scopare, e allora odiano tutte le donne».

«Uhm». Vedevo chiaramente che la sua espressione conteneva ancora confusione e incredulità. Dopo un po’, scrollò le spalle. «Allora perché l’hai scritto? Perché hai scritto il copione?»

«Adoro scrivere. Mi è sempre piaciuto più scrivere che recitare, dare voce alle persone immaginarie nella mia testa. E i film. Adoro i film. Ma ho scritto quel copione in particolare perché tante cose della nostra cultura sono involontariamente spassosissime. Mi diverte ridicolizzare gli argomenti sensibili, perché con umorismo e risate si può fare molto di più, si possono toccare più cuori e menti che con la più ponderata e documentata lettera all’editore di tutte. E perché la maggior parte delle parole usate per descrivere solo le donne sono davvero negative o paternalistiche; non tutte, ma la maggior parte. Come il termine “mamma lavoratrice”. Nessuno dice “padre lavoratore”. Perché lo facciamo? Forse le mamme non hanno già una vita abbastanza difficile?»

«Formosa non è negativo». Facendo riferimento al mio precedente elenco di parole, gli occhi di Jethro saltarono al mio petto e poi risalirono. Non chiese scusa, ma sorrise.

Per cui, naturalmente, dovetti punzecchiarlo. «Hai davvero guardato il mio petto mentre dicevi la parola “formosa”?»

«Sì». Annuì con un cenno, con occhi calorosi e scherzosi.

«E perché l’hai fatto?»

«Perché la parola descrive quello che sfoggi in quella zona. Proprio come la parola “brillante” descrive benissimo quello che sfoggi qui», indicò la mia testa, «e la parola “bellissima” descrive quello che sfoggi dovunque».

Sentii sbocciare del calore nel petto e non potei fermare il mio ampio sorriso. «Oh, sei proprio bravo».

«Sì. Ma a volte...» I suoi occhi si abbassarono di nuovo, questa volta conducendo un esame accurato dai tacchi delle mie scarpe fino al medaglione attorno al mio collo, scaldandomi ogni centimetro del corpo con il suo sguardo finché non si scontrò con il mio. «A volte sono anche un vero cattivone».

Eravamo nel suo pick-up, di ritorno alla baita dopo cena, e ci godevamo la compagnia reciproca, quando Marta chiamò.

Il suo nome lampeggiante sullo schermo mi colpì come un secchio d’acqua gelata lanciato sull’intera serata. Fissai il cellulare, indecisa su cosa fare.

«Che succede?»

Lanciai un’occhiata a Jethro. Era evidentemente preoccupato dal mio improvviso cambio d’umore.

«Uhm, niente, è mia sorella». Rifiutai la chiamata. «La richiamerò dopo».

«Quale sorella?»

«Marta».

«La tua manager».

«Sì. Proprio lei». Deglutii forzatamente, chiedendomi se fosse venuto il momento di raccontargli la discussione che avevamo avuto quando ero a Los Angeles. Dal nostro litigio del mese scorso ci eravamo solo scritte messaggi ed email, limitandoci a parlare soltanto di lavoro. Era la prima volta che mi chiamava. Prima che potessi decidere cosa fare, lei chiamò di nuovo.

«Dovresti rispondere». Jethro alzò il mento verso il cellulare. «Potrebbe essere importante».

«Non è mai importante» mi lagnai, ma risposi comunque. «Pronto?»

«Sienna» disse Marta a mo’ di saluto, il che sarebbe andato bene, se non fosse che aveva pronunciato il mio nome come se mi invitasse a tornare ragionevole, tipo: “Su, su, Sienna. Ora calmati”.

Per cui imitai il suo tono. «Marta». “Su, su, Marta. Calmati”.

Chiaramente non si aspettava una cosa del genere, perché le ci vollero parecchi secondi prima che riuscisse a parlare di nuovo. Prima di farlo, si schiarì la gola e io sentii cigolare la sua sedia. Era al lavoro. Anche considerando la differenza di fuso orario, era rimasta in ufficio fino a tardi.

«Ti chiamo riguardo il copione di Smash-Girl e la prima londinese».

Feci una smorfia: avevo dimenticato completamente la prima londinese. Di nuovo.

Quand’è che era? Ad agosto?

«A che punto sei con il copione? Barnaby ha chiamato ancora stamattina, chiedendo aggiornamenti».

La mia smorfia si intensificò, perché non avevo neanche pensato al copione da quando mi avevano scartata per il ruolo.

«Sienna?»

«Sì. Ti sento».

«Hai scritto altro che possa inviare a Barnaby?»

«Non ancora».

Lei sospirò, sembrando delusa e irritata, ma disse: «Va bene».

«Sto ancora riflettendo su alcune cose» dissi evasiva.

Non era da me e Marta lo sapeva. L’avevo completamente ignorato, il che non era per niente professionale. Dovevo lavorarci o rinunciarci ufficialmente. Avrei potuto dare la colpa al blocco dello scrittore, ma Marta mi conosceva troppo bene per crederci.

«E Londra? Vuoi che mi metta in contatto con lo staff di Tom?»

«Lo staff di Tom?»

Jethro si agitò nel sedile, attirando il mio sguardo su di lui. Non mi guardava, la sua attenzione era sulla strada buia, ma vedevo chiaramente che non apprezzava la menzione del mio co-protagonista.

«Devi andare con qualcuno, e lui è il tuo più recente...»

«No» la interruppi. «Tom non è il mio più recente niente di niente». Poi, per capriccio, dissi: «Porterò Jethro».

I suoi occhi schizzarono nei miei, le sue sopracciglia sollevate in una domanda. Io gli mimai con le labbra di aspettare solo un momento.

Ottenni solo silenzio, seguito dal cigolio della sedia. Mi feci un appunto mentale di ricordarmi di spedirle del lubrificante per la sedia.

«Pensi che sia una buona idea?»

«Sì».

Marta sbuffò. «Okay, ignoriamo pure la conversazione che abbiamo avuto quando eri a Los Angeles, ignoriamo pure che io pensi che tu stia commettendo un terribile errore a portarti a letto quel tipo. Ignoriamo tutto questo per un minuto e rifletti. Non riesco a credere di dovertelo dire, ma rifletti su questo: se tu ti porti il ranger della forestale a quest’evento...»

«Jethro. Si chiama Jethro».

Lei mi ignorò. «Allora tutti sapranno di voi due. La sua vita non sarà più la stessa. Le persone inizieranno a scavare nel suo passato. I blogger e siti di gossip sviscereranno la sua vita. Si troverà sulla copertina di riviste, giornali, lo fotograferanno a lavoro, ovunque vada. Tutti si interesseranno a lui. È questo che vuoi? È questo che vuole lui?»

Trattenni il fiato.

dannazione.

Aveva ragione.

Mordendomi il labbro, cercai di trovare una replica. Non ne trovai nessuna.

«Non lo so» ammisi infine, mentre il cuore mi sprofondava. Ero stata talmente presa dallo stare con Jethro, vivendo dentro la bolla perfetta che ci eravamo creati, che non avevo pensato alle ramificazioni che l’essere visto in pubblico insieme a me avrebbe implicato per lui.

«La prima è tra una settimana».

«Okay». Dannazione. Il mio polso accelerò.

«Prenoto un aereo privato».

«Va bene. Sì. Va bene».

«Vuoi che mi metta in contatto con Tom? Lui potrebbe volare con te. Potete dire entrambi che andate come amici. Ti permetterebbe di guadagnare tempo prima di decidere a proposito di… di Jethro, ti darebbe un po’ di respiro».

«No» risposi immediatamente. Avrei preferito andare da sola piuttosto che con Tom. «Fammi parlare con Jethro».

«Mi serve una risposta entro domani».

«Va bene».

«Buonanotte, Sienna». C’era dell’esitazione nella sua voce, come se avrebbe voluto aggiungere altro, ma poi con tono sorprendentemente dolce e affettuoso, disse: «Sogni d’oro».

Io sorrisi sentendo il suo tono, e una parte della rabbia che mi portavo dietro dalla nostra discussione sparì. Sfortunatamente, venne rimpiazzata subito dal panico.

«Buonanotte, Marta».

Terminai la chiamata, continuando a fissare lo schermo, incapace di guardare Jethro negli occhi.

Il peso di quanto avevo testardamente ignorato negli ultimi mesi si accomodò sulle mie spalle. Mi sentii una sciocca. Mi sentii un’idiota, arenata dalla mia stessa cecità volontaria. Marta mi aveva appena fatto notare una serie di problemi enormi e gravi che avrebbero dovuto essere ovvi per me. Problemi di cui Jethro e io avremmo dovuto discutere già da tempo.

Prima del nostro primo appuntamento.

Prima di accettare qualcosa di più che temporaneo.

E prima che mi innamorassi di lui.

Ora ne sentivo tutto il peso, come uno schiaffo in volto o un pugno nello stomaco. Ne sentii ogni grammo.

«Cosa c’è che non va?» Chiese Jethro, mettendo la mano sulla gamba e stringendola. «Altre cattive notizie? Dobbiamo tornare a ballare?»

Io riuscii a fare un sorrisetto, ma non a mantenerlo. I miei pensieri stavano diventando pragmatici. E il pragmatismo era accompagnato da verità deprimenti.

Ero stata egoista perché lui mi piaceva tantissimo. Lui voleva qualcosa di duraturo con me, ma non poteva sapere cosa comportasse veramente nel mondo reale. Poteva averne avuto sentore durante il nostro primo appuntamento e per via delle occhiate che ci rivolgevano sul set, ma non aveva idea di cosa comportasse davvero.

Lui stesso aveva ammesso, durante la cena, di non avermi ancora cercata su internet. Appoggiando il gomito al finestrino, mi misi una mano sulla fronte e chiusi gli occhi, facendo un sospiro per cercare di alleviare il terribile presentimento che mi cresceva in petto.

«Senti, quando sono stata a Los Angeles, Marta e io abbiamo discusso. Lei ha visto la nostra foto sul mio cellulare e...» Sospirai, tutte le parole erano irritanti, per cui mi affrettai a concludere. «Non le è piaciuta la cosa. Era preoccupata che la foto potesse diventare pubblica».

«Non intendo farla vedere a nessuno, se è questo che la preoccupa».

Sospirai di nuovo, cercando di alleviare il peso che sentivo nel petto. «Non è solo questo. La prossima settimana devo andare a una prima a Londra». La mia voce era flebile.

«Okay. Non mi sembra tanto male».

Deglutii, scoprendo di avere la bocca secca e la lingua patinata dalla paura. «È complicato. Devo andare con qualcuno».

«Con un cavaliere».

«Sì. Devo andare con un cavaliere. Qualcuno che aiuti la mia immagine e generi il giusto tipo di chiacchiere» dissi con tono piatto, ripetendo le parole che Marta aveva pronunciato in così tante riunioni e chiamate e prediche sulla natura volubile del successo, su come poteva sparire in un batter d’occhio.

«Sarò completamente onesto con te, Sienna. Non mi piace l’idea che tu vada con qualcuno che non sia io a una specie di appuntamento». La sua voce era ferma, come se facesse sul serio, ma era anche misurata e persuasiva, come se cercasse con tutte le forze di non trasformare la sua affermazione in un ordine.

«Neanche io voglio andare con qualcun altro, neanche a me piace l’idea».

Rimase in silenzio per un secondo, prima di chiedere: «Allora qual è il problema?»

Misi la mano sulla sua e immediatamente lui girò il palmo all’insù, intrecciando le nostre dita.

«Se decidi di venire con me, alla prima intendo, allora tutti sapranno di noi».

«E allora?»

«E allora sei pronto a perdere la tua privacy? Sei pronto ad avere persone che frugano nella tua spazzatura, hackerano il tuo cellulare e ti scattano delle foto mentre lavori? Mentre fai la spesa?» Cercai di non sembrare amareggiata, ma non ci riuscii del tutto.

Lui si agitò sul sedile. Supposi che la sua esitazione significasse che stesse giungendo alle mie stesse conclusioni.

All’improvviso, un pensiero mi spezzò il cuore: Jethro e io eravamo destinati alla rovina sin dall’inizio. O almeno, qualsiasi relazione pubblica tra noi era destinata alla rovina.

La mia mente si arrovellò per cercare una soluzione. Forse prenderebbe in considerazione una relazione segreta, una in cui la sua privacy sarebbe rimasta al sicuro. Forse se avessimo mantenuto la discrezione su quanto c’era tra noi… Ma non eravamo stati discreti. La troupe sul set sapeva tutto. Stranamente, le riviste di gossip ancora non ne sapevano nulla. Possiamo arginare le cose? Tenere tutto qui?

«Sì».

Mi accigliai, non sapendo a quale domanda rispondesse. «Sì, cosa?»

«Sì, sono pronto a rinunciare alla mia privacy e ad avere persone che mi frugano nella spazzatura. Dovrò avvertire Cletus, però. Di tanto in tanto getta delle cose strane. Forse dovrei andare via dalla casa di famiglia, trasferirmi a Merryville».

Lo fissai inebetita. «Cosa? Come puoi anche solo considerare una cosa simile?»

Lui mi guardò, le sue sopracciglia si arcuarono sopra i suoi occhi incupiti. Il suo sguardo mi squadrò significativamente, come se fossi io quella pazza. «Credo che riuscirei a sopportarlo».

Io sorrisi, nonostante la situazione e quanto pensassi, ma la realtà ebbe presto la meglio sul suo fascino. «Non capisci. Non stiamo parlando solo del presente, Jethro. Parliamo anche del tuo passato. Tutto quello che hai fatto in vita tua sarà dato in pasto al pubblico. Ogni foto segnaletica imbarazzante, ogni ricordo doloroso. Dovrai rinunciare alla tua privacy, passata, presente e futura, per stare con me».

Le sue dita si strinsero sulle mie. Ora si era accigliato. Io strappai gli occhi dal suo profilo perché guardarlo iniziava a diventare doloroso. Guidò in silenzio e potevo sentire la sua mente al lavoro, mentre analizzava le mie parole.

Volevo suggerire di scegliere l’opzione di una relazione segreta per proteggere il più a lungo possibile la sua privacy e avevo le parole sulla punta della lingua quando lui disse: «Hai paura che il mio passato possa rovinare la tua immagine».

Io sobbalzai, perché la sua voce aveva un tono che mi spezzava il cuore e lo contraddissi immediatamente: «No! Dio, no. Niente può mettermi in imbarazzo».

Lui liberò la mano dalle mie. «Ma sarebbe così, vero? Sono stato arrestato un sacco di volte, ci sono un mucchio di foto che potrebbero usare. Un mucchio di storie sordide nel mio passato. Rovinerei la tua immagine e la tua carriera».

Lo guardai a bocca aperta, sconcertata dalla piega inaspettata che aveva preso la conversazione. «Non preoccuparti di questo. Non preoccuparti della mia immagine».

Lui non disse niente, ma stava digrignando i denti e le sue nocche erano sbiancate nel punto in cui stringeva il volante.

Stavo per ribadire che la mia immagine non era il problema quando chiese: «Quanto ti danneggerebbe?»

«Cosa?»

«Quando ti danneggerebbe? Potresti perdere dei ruoli?»

Aprii la bocca per rispondere, ma non uscì alcun suono. Non volevo mentire e dire di no. La verità era che non lo sapevo, perché non avevo riflettuto molto sulla faccenda.

Ma lui interpretò il mio silenzio come una conferma e imprecò.

«Jethro...» Allungai la mano verso di lui e lui si allontanò di scatto, spaventandomi. Volevo riprovare a toccarlo, ma sembrava che ora il mio tocco gli fosse sgradito.

Una lama affilata mi pugnalò nel petto, i miei polmoni erano irrigiditi, duri. Non riuscivo a respirare a fondo. Non l’avevo mai visto così. Si era arrabbiato durante il nostro primo appuntamento, una rabbia nata dalla frustrazione e dallo sconcerto.

Ma questa rabbia era diversa.

Era arrabbiato, ma c’era dell’altro, qualcosa di ingombrante e oscuro.

Lo sentii lontanissimo, assente.

Aveva aperto un baratro tra noi.

Riprovai di nuovo, usando un tono più cauto e calmo, anche se il panico rendeva doloroso e rallentato ogni battito del mio cuore. «Jethro, non si tratta della mia immagine. Non me ne è mai importato niente, né di quella né di cosa dice la gente».

«Ti importa della tua carriera?»

Ignorai la sua domanda. «Qui si tratta della tua privacy».

La sua mascella si contrasse. «Ti riporto alla baita».

«Resterai con me stanotte?»

Lui scosse la testa, ma non disse nulla.

Strinsi le labbra per impedire al mio mento di iniziare a tremare, ma non riuscii a impedire alla mia voce di farlo, mentre gli ricordavo: «Me l’hai promesso. Hai promesso che la mia fama non ti avrebbe fatto scappare a gambe levate. Hai detto che potevo fidarmi di te».

«Sienna, non si tratta della tua fama. Qui si tratta del mio passato che rovinerà il tuo futuro».

«Non farlo». Avrei voluto provare a toccarlo di nuovo, mentre delle lacrime di frustrazione mi bruciavano gli occhi. «Resta con me. Dormi da me e ne parliamo, risolviamo tutto».

«Stasera no». Jethro non mi guardò quando parlò, ma la sua voce era irriconoscibile, dura e fredda come il granito. «Mi serve del tempo».