Capitolo 4

Ho perso degli amici, alcuni a causa della morte,

altri per una pura incapacità di attraversare la strada.

- Virginia Woolf

Sienna

Quello in cui dovetti accettare l’impossibilità di ordinare del cinese da asporto fu un momento solennemente terribile. Sarebbe stato ricordato con infamia come un momento degno della mia “Hit Parade dei Problemi da Primo Mondo”, assieme a quella volta in cui non riuscii a trovare un colore di smalto che mi piacesse dall’estetista e alla volta in cui trovai inaspettatamente chiuso il drive-thru di Starbucks.

Quale orrore! NON MI SAREI MAI PIÙ RIPRESA.

Scherzo. Non era un gran problema.

Hank aveva riempito il frigo, la dispensa e l’armadietto delle spezie, una cosa davvero premurosa da parte sua; per cui decisi di prepararmi dei tacos. Mi appuntai mentalmente di chiedergli di fornirmi lo scontrino della spesa per poterlo rimborsare quando avrei pagato l’affitto mensile.

Stavo friggendo il macinato di manzo quando squillò il telefono fisso. Risposi immediatamente, sperando fosse Marta. L’avevo chiamata prima, ma lei non aveva risposto, probabilmente perché non aveva riconosciuto il numero di telefono. Le avevo lasciato un messaggio spiegando l’assenza di campo del cellulare, ma avevo tralasciato di dirle che mi ero persa. Non c’era bisogno di farle dare di matto inutilmente. «Pronto?»

«Sienna?»

«Sì». Ero sollevata, ragion per cui urlai la mia risposta. «È davvero bello sentire la tua voce!».

«Oh mio Dio, Sienna. Eravamo preoccupati a morte. Che diavolo ti è saltato in mente, lasciare i ragazzi all’aeroporto in quel modo? E noleggiare una macchina da sola? Usando il tuo nome? Avrebbero potuto rapirti».

Pur essendo, tra tutti i miei fratelli e sorelle, quella più portata per gli affari, Marta era melodrammatica. Solo mio fratello Pedro, ballerino di danza interpretativa e attuario assicurativo a New York, era più melodrammatico di lei.

Sarebbe stata una bravissima attrice, ma aveva soppresso ogni desiderio di diventarlo quando il mio primo film sbancò ai botteghini. Ora, lei sosteneva che amava il compito di gestire la mia vita. Era la mia manager e io di solito l’adoravo per questo. Ma tra noi le cose si erano fatte sempre più tese nel corso dell’ultimo anno. Continuavo a dirle che avevo bisogno di una pausa. Lei continuava a dirmi di rimandare a dopo il film successivo. Da quella volta avevo girato tre film e lei ancora continuava a ripetermelo.

«Marta, per l’amore del cielo, ho venticinque anni. Sono atterrata in Tennessee da appena cinque ore. E so guidare benissimo». Ma non riesco a leggere una mappa neanche se ne andasse della mia vita. «Eravamo? Chi è che ho fatto preoccupare a morte oltre te?»

«Quando non sono riuscita a raggiungerti al cellulare, ho chiamato mamma e papà».

«Oh, no».

Amo mia madre, ma era il genere di genitore che ci faceva guardare America’s Most Wanted la domenica sera. Quando lo show venne cancellato, lei ci obbligò a guardare le cassette con le puntate registrate su un vecchio videoregistratore. E, immancabilmente, alla fine di ogni episodio ci diceva: «Ecco perché non dovete mai parlare con gli sconosciuti, perché vi ammazzeranno».

«Ti prego, dimmi che la mamma non ha chiamato la polizia».

«Non ha chiamato la polizia».

«Grazie a Dio».

«Ha chiamato l’FBI».

Gemetti, chiudendo gli occhi.

«L’FBI le ha detto che doveva aspettare ventiquattro ore prima di denunciare la tua scomparsa. Allora mamma ha chiamato Jenny». Jenny era la mia agente.

«Cosa? Perché?»

La mia agente era fantastica, davvero fantastica. Ma come ogni grande agente, era anche un’opportunista. Se fossi stata rapita, sono sicura che sarebbe stata sia triste che elettrizzata. Triste, per ovvie ragioni. Elettrizzata, per via di tutta la pubblicità gratuita.

«Ho appena finito di parlare con lei al telefono». Sentii Marta rovistare tra alcuni fogli in sottofondo. «Ora che ci penso, meglio se le scrivo un messaggio. Era quasi sul punto di informare gli studios e la polizia locale».

Sospirai, la testa mi cadde tra le mani. «Ti ho chiamata appena sono arrivata. Non hai ricevuto il mio messaggio?»

«Ma non rispondevi al cellulare».

«Il mio cellulare non prende quassù».

«Questo è inammissibile. Devo poterti contattare. Ho tipo dieci copioni che devi esaminare. Non controlli le email da ore. Jenny ha bisogno di sapere se andrai o no alla prima londinese del nuovo film di Kate e con chi. Ancora non abbiamo organizzato il viaggio, perché devi dirmi le date. Non mi hai ancora dato l’okay per i post da pubblicare sui social media a giugno. Esquire ha mandato le foto definitive e l’editoriale, devi approvarli. I creativi vogliono il tuo contributo alla campagna per...»

«Marta, fermati. Fermati. E. Basta». Più parlava, più sentivo la pressione sanguigna salire. «Nessuna di queste cose è fondamentale o costituisce un’emergenza. Ti avevo detto che questo sarebbe stato un ritiro creativo per la mia scrittura. Ti avevo detto che ho bisogno di una pausa».

Lei balbettò per qualche istante e alla fine ammise: «Non pensavo dicessi sul serio».

«Tu non pensavi...»

«Dici sempre che hai bisogno di una pausa, ma non la prendi mai davvero».

La carne soffriggeva rabbiosamente, per cui girai la manopola del gas e lo spensi. «Dicevo sul serio le ultime sessanta volte che l’ho detto, quindi ora mi prendo una pausa».

«Sienna, tesoro». Marta esitò, come se fosse perplessa. «Bambina, ascolta. Sai che desidero solo quello che è meglio per te. Sai che ti voglio bene».

«Sì. Certo». E lo sapevo. Marta era più grande di me di quindici anni. Quando faceva l’attrice, si arrabattava facendo la cameriera e aspettando la sua occasione d’oro. Appena prima che io vendessi la mia prima sceneggiatura, lei aveva ottenuto un ruolo stabile in uno show televisivo su una rete nazionale, e ci aveva rinunciato per occuparsi della mia carriera.

«E allora devi credermi, questo non è il momento giusto per prendersi una pausa. Perderai tutto il tuo slancio. Non conterai più nulla. E tutte le cose buone che hai fatto, abbattendo il muro di discriminazione nel mondo del cinema nei confronti delle latinoamericane e delle donne, saranno state inutili».

Sospirai, stanca di quella discussione. In realtà, ero stanca e basta. Avevo sfornato dodici sceneggiature di lungometraggi in quattro anni e tutte e dodici erano state opzionate. Facevo continuamente interviste e presentazioni per la stampa per qualsiasi film avessi appena finito di girare, stessi girando o avrei girato a breve. Oppure parlavo alle folle e sostenevo le associazioni di beneficenza che si occupavano della diversità nel cinema. Ero d’accordo con Marta, tutto quello meritava il mio tempo.

E, tuttavia, una volta amavo scrivere, recitare, far ridere le persone e legare con il mio pubblico. Mi piaceva ancora, ma ero arrivata pericolosamente sul punto di odiarlo.

«Voglio solo prendermi una pausa». Odiai quanto flebile suonò la mia voce. «Voglio solo dormire per una settimana e stare in pigiama senza che qualcuno mi faccia una foto o mi scassini la casa o mi frughi tra la spazzatura».

«Lo so, bambina. E lo farai. Solo, non ora».

Sbuffai una risata impotente. «Ti prego, dimmi che non hai assunto nessuno per frugarmi tra la spazzatura».

«No. Ma ci serve che le persone ti scattino delle foto. Ci serve che tu risponda alle chiamate, alle richieste di intervista e che tu posti sui social media. Ci serve che tu sia in vista e accessibile. E se sei in vista, allora devi avere al tuo fianco la tua squadra di sicurezza».

Annuii, odiando il fatto che avesse ragione riguardo la squadra di sicurezza. «Va bene. Troverò una connessione internet, in qualche modo, e manderò il mio indirizzo a Dave. C’è abbastanza posto per lui e gli altri ragazzi qui».

E così dovetti rinunciare ai miei piani di pace e quiete. Mi piaceva la mia squadra di sicurezza, ma erano proprio uomini. Non lavavano mai i loro piatti e lasciavano ovunque le loro cose.

Chiusi la chiamata frustrata, ma riuscii a nasconderlo bene. Promisi a Marta di richiamarla la mattina dopo e riportai la mia attenzione al manzo sui fornelli. Non era il manzo macinato che preferivo per i miei tacos, ma non me ne lamentavo. Se mia madre fosse stata lì, però, sarebbe inorridita.

Avevo appena capito come riaccendere il fuoco, quando sentii la porta d’ingresso aprirsi e chiudersi, seguito da un: «Sienna?», simile a un ruggito.

Sorrisi, il mio umore migliorò immediatamente sentendo la voce familiare. «Sono qui, vecchio sporcaccione. Ma non entrare, sono nuda. E mi stanno facendo una visita ginecologica. E rimuovendo un neo».

«Non sei nuda». La sua risata tonante mi arrivò alle orecchie e lui apparve sulla soglia alla mia destra.

Gli gettai un’occhiata. Il buon amico Hank era appoggiato allo stipite della porta, con i pollici infilati nei passanti dei jeans. Un sorriso sghembo e allegro abbelliva le sue fattezze abitualmente stoiche.

«Beh, ero nuda. Ma mi sono vestita in fretta e furia quando ho sentito aprirsi la porta d’ingresso».

«E hai mandato via i tuoi dottori?»

«No, stavo effettuando da sola la mia visita ginecologica con uno specchio e uno speculum freddo come il ghiaccio, e mi stavo togliendo da sola il neo. Spero non ti dispiaccia se ho usato i tuoi coltelli da bistecca per farlo. Se è un problema, posso sterilizzarli quando ho finito».

Lui fece una smorfia e si avviò lentamente verso il frigo, prendendo una birra. «Sei davvero disgustosa».

«Sì, lo sono. E non vedo l’ora di raccontarti della mia colonscopia».

«Risparmiami, ti prego». Alzò le mani per scongiurare le mie parole, anche se stava ridendo.

Avevo insegnato ad Hank questo rituale. Era un gioco che facevo con i miei fratelli da piccola, e avevamo forzatamente coinvolto anche Hank quando aveva passato un week-end con la mia famiglia durante il nostro primo anno di università. Allora avevamo una sorta di sottospecie di relazione. Lo scopo del gioco era disgustarsi a vicenda. Finito il week-end, passammo velocemente ad essere solo amici. Per me fu una buona lezione: mi insegnò a non essere troppo aperta, a non mostrare la vera stramba, disgustosa, matta me stessa troppo presto. Ormai avevo imparato la lezione.

La mia disponibilità a condividere con lui quella tradizione era originata dal fatto che Hank aveva affermato che fosse impossibile offenderlo. Io e lui venivamo da due mondi completamente diversi, ma avevamo legato grazie alla nostra tendenza a sfidare i limiti del disgusto.

Il risultato fu che ogni scintilla romantica si spense in fretta, rimpiazzata da battute sulla cacca e bevute tra amici. Io divenni la sua spalla per conquistare le donne, lui divenne la mia per conquistare gli uomini, e il resto è storia.

«D’accordo. La smetto. Ma avrei voluto davvero mostrarti questo polipo che sembra quel cratere a forma di cuore che c’è su Plutone...» Lui si mise alle mie spalle e mi tappò la bocca con la mano, interrompendomi e facendomi poggiare la nuca sulla sua spalla. Sentii il suo corpo scosso dalle risate.

«Niente polipi» mi impose.

Alzai le sopracciglia. Lui sapeva cosa volevo sentirmi dire.

Hank sospirò, la sua mano scivolò via e mi strinse la spalla. «Hai vinto, okay?»

«Dillo» insistetti.

«E va bene. Va bene» brontolò. «Mi disgusti».

Mi disgusti era la frase magica. Significava che avevo vinto quel round. Non tenevo il conto, ma ero abbastanza certa di poter vantare pretese sul titolo di campionessa a quel punto.

Mi spuntò immediatamente il sorriso e feci una piccola danza della vittoria di fronte ai fornelli. «O spatola, spatola tra le mie mani, chi è la più rivoltante di tutti i reami?»

«Vieni qui, scema». Hank ricominciò a ridere mentre scacciava con un colpetto l’utensile da cucina di legno per potermi stringere in un abbraccio in piena regola.

Cinsi le braccia attorno al suo torace e sospirai contro il suo petto, rilassandomi nel conforto del suo abbraccio. Hank era bravo ad abbracciare, ti dava abbracci di qualità e con tutto il corpo. Mi ricordavano gli abbracci della mia famiglia. Decisi che, se questo era l’unico momento che avrei avuto l’occasione di trascorrere nella casa senza la mia squadra di sicurezza, allora era meglio sfruttarlo al massimo.

Staccandomi da lui, indicai il frigo con la spatola. «Hai riempito il frigo. Grazie. Assicurati di mandare lo scontrino a mia sorella così possiamo rimborsarti quando paghiamo l’affitto».

Annuì. «Sì. Già fatto. Mi ha fatto un bonifico ieri».

«Ottimo». Indicai la cucina con un gesto esagerato della mano e annunciai con voce alta e buffa: «In tal caso, rimani a cena, mangia i miei tacos e bevi il mio vino».

Lui mi fece un ampio sorriso. «Accetto. Perché non mi hai chiamato? Pensavo arrivassi in città mercoledì».

«Ho anticipato il volo, avevo bisogno di andarmene da Los Angeles. Mia madre stava provando a organizzarmi un altro appuntamento al buio». Mi rigirai verso i fornelli: la carne era stata trascurata troppo a lungo e ora sfrigolava. «Cavolo. Non so usare i fornelli a gas. Mi sembra di star bruciando tutto».

«La tua mamma continua a farlo?»

«Sì. Pensa che mi serva un uomo che “soddisfi i miei bisogni”. Ogni volta che lo dice, un angelo perde le ali e so che il bambino Gesù scoppia a piangere».

Lui fece un sorrisetto. «Tua mamma vuole assicurarsi che tu ti faccia una scopata».

«Non so davvero come fare con lei. Non ha senso, prima mi cresce facendomi credere che tutti siano dei maniaci omicidi e ora cerca continuamente di sistemarmi con qualcuno».

«Ti riferisci a quella tipa, Layorona? Quella di cui mi ha raccontato tuo fratello, che vaga alla ricerca dei suoi bambini?»

«Si pronuncia La Llorona e sì. È il fantasma di una donna vestita di bianco, che cerca i suoi bambini perché li ha ammazzati lei. Quando sei un bambino messicano, la paura degli estranei è seconda solo a quella di La Llorona».

L’ampio sorriso di Hank era sofferente, come una smorfia di allegria dolorosa. «Tua mamma è uno spasso».

«Non è divertente. È terrificante. Siamo cresciuti tutti sapendo chi fosse il fantasma e sentendoci dire “ubbidite o La Llorona vi troverà”. Non ho ancora capito se la morale sia che bisogna ascoltare i propri genitori altrimenti si finisce ammazzati da La Llorona, o che devi ascoltare la tua mamma messicana perché potrebbe impazzire e ucciderti. Oh, certo, poi passerebbe l’eternità a piangerti e a cercarti, ma comunque prima ti ucciderebbe».

«Forse, se le dessi retta, riusciresti a trovarti un brav’uomo».

Sbuffai e feci una risata nasale, scuotendo la testa. «No. Semplicemente le piace cercare di accoppiarmi con uomini a caso».

«Se solo sapesse...» L’attenzione di Hank si soffermò sulla carne e mi spinse via con un colpo di anca, strappando la spatola dalle mie grinfie. «Via, lascia fare a me. Tu taglia i pomodori».

Cedetti la supervisione del manzo e iniziai la ricerca di tagliere e coltello. «Come sapevi che ero qui?»

Non rispose immediatamente. Lanciai un’occhiata da sopra la mia spalla e lo fissai per parecchi secondi. Stava prendendo tempo.

«Hank?»

«Ho incontrato, uh, il tipo che ti ha aiutata a venire qui. Mi ha accennato di averti accompagnata su per la montagna».

«Oh! Il ranger Jethro, quello con lo sguardo sexy e la mascella da George Clooney». Sorrisi al tagliere di legno che avevo appena trovato, ricordando quanto fosse stato divertente flirtare con il ranger.

Peccato che fosse così adorabile.

A posteriori, decisi che se fosse stato appena un po’ meno figo, forse gli avrei permesso di baciarmi. E se fosse stato bravo a baciare, allora gli avrei dato il mio numero per… altre cose.

Sì, è passato un po’ di tempo e sì, lui è stato una vera tentazione.

Non avevo nessuna intenzione di intrattenermi in visite di giovanotti mentre ero in Tennessee, ma i piani potevano sempre cambiare. Il mio cellulare, però, aveva zero ricezione. Anche se gli avessi dato il mio numero, la cosa non avrebbe portato a nulla.

«Ci ha provato con te?»

«Sì, ci ha provato con me». Alzai un sopracciglio a sentire il tono tagliente di Hank. «Ed era anche abbastanza bravo, a dire il vero. Non si vede spesso una capacità di abbordaggio di simile livello allo stato brado».

«Già, beh, lui ci prova con tutte». Borbottò Hank, girando la carne con movimenti bruschi.

Studiai l’espressione imbronciata del mio amico per un secondo, riflettendo sulle sue parole. «Se ci prova con tutte, allora perché mi hai chiesto se l’ha fatto con me?»

«Perché...» Sbuffò. «E va bene. Non ci prova con tutte tutte. O almeno, non lo fa a posta. È un imbroglione, ecco tutto, un ammaliatore. Alle persone piace perché è facile farselo piacere. In ogni caso, se lo dovessi rivedere, stagli alla larga».

«È un imbroglione?» La cosa mi fece sorridere. Il ranger Jethro non aveva l’aria da maestro dell’imbroglio. Non emanava vibrazioni da viscido, non con la sua propensione a salvare damigelle paonazze in pericolo e a non rovinare le ruote delle loro valigie. Anche se l’intensità dello sguardo che mi aveva rivolto appena prima di andarsene mi aveva fatto pensare che il signor “Sono un Ranger Figo della Forestale” fosse un filino pericoloso, sotto quel cappello da cowboy e il cinturone.

«Per la precisione, era un imbroglione. Ma sì, cioè, si è rimesso sulla retta via da qualche anno. Prima, quando spariva una macchina, sapevi chi l’aveva presa».

«Il ranger Jethro rubava le macchine? E quand’è uscito di galera?» Spalancai la bocca.

Hank sembrava a disagio. «Non l’hanno mai davvero inchiodato. L’hanno arrestato qualche volta. Non sono mai riusciti a condannarlo, ma tutti sapevano che era stato lui».

«E alle persone piace comunque?»

Il mio amico alzò gli occhi al cielo, sembrava ancora più a disagio. «Sì. Rubava solo le macchine a noleggio dei turisti, mai quelle della gente del luogo. Lo fece solo una volta, quando rubò la Mercedes di mio padre».

Sussultai. «Ha rubato la Mercedes di tuo padre?»

Il padre di Hank era una persona estremamente… sgradevole e questo probabilmente era il modo più gentile per descriverlo. Era esigente e freddo e, a dirla tutta, uno stronzo pieno di pregiudizi. Quando mi aveva incontrato ad Harvard, durante le vacanze primaverili, mi aveva chiesto se fossi stata ammessa grazie a una borsa di studio di un qualche ente benefico per minoranze, insomma, per donne come me. Quando avevo risposto che no, ero stata ammessa grazie ai miei voti ai risultati dei miei esami e che i miei genitori mi pagavano la retta, mi aveva chiesto se facevano gli spacciatori. Per cui avevo mentito, avevo risposto di sì e gli avevo fatto intendere che avrei potuto farlo sparire con una semplice telefonata, piuttosto che spiegargli che i miei genitori erano due medici nel settore privato e credevano fermamente nel risparmio e nell’istruzione.

«Sì. Jethro l’ha rubata quando aveva quindici o sedici anni».

«Non riesco a credere che tuo padre non l’abbia fatto arrestare».

Il sorriso di Hank era sarcastico, mentre finiva di raccontarmi i pezzi mancanti della storia. «Per prima cosa, mio padre non poteva provarlo. E secondo, Jethro la restituì dopo tre giorni. Senza un graffio. Naturalmente gli interni puzzavano come un orinatoio, ma in ogni caso la restituì».

Non mi vergognavo ad ammettere che la cosa mi fece ridere. «Ah ah! È esilarante».

Anche il mio amico ridacchiò, con lo sguardo sempre più distante. «In effetti. Per quanto la lavassimo e la portassimo in officina, non riuscimmo mai a liberarci di quella puzza».

Gli lasciai un minuto in compagnia del suo ricordo, probabilmente uno dei pochi felici della sua infanzia, prima di riportare il discorso sulla carreggiata del gossip. «Allora, rubava le macchine e dava i ricavi ai poveri? Come Robin Hood?»

«Uh, no. Per niente. Rubava per conto della banda di motociclisti della zona, gli Iron Wraiths. Avevano un’officina che smontava le auto rubate e Jethro era uno dei migliori quando si trattava di riempire il magazzino».

«Beh, se era tanto bravo, non ci vedeva niente di male e non l’hanno mai arrestato, perché ha smesso?»

«Alla fine ha capito che era sbagliato». Hank abbassò il fuoco e rigirò la carne senza motivo, con espressione pensosa. «Sai, molti qui pensano che sia grazie a Drew Runous, la guardia forestale che lavora da queste parti. Quando Drew arrivò, qualche anno fa, Jethro provò a rubargli la motocicletta, una BMW modello classico. Drew lo colse con le mani nel sacco, lo riempì di botte, ma non lo denunciò alla polizia. Dopo quella volta, Jethro uscì dai Wraiths, si diplomò alla scuola serale, andò all’università pubblica, lavorò duramente fino a diventare ranger al parco...»

Accidenti.

I miei occhi si spalancavano sempre di più man mano che Hank mi raccontava la storia del ranger Jethro. Quello che io avevo considerato dell’innocuo gossip riguardo agli abitanti del luogo si era tramutato in qualcosa di completamente diverso. Stavo per suggerire di cambiare argomento, quando Hank proseguì senza farsi pregare.

«Ma io penso che sia merito di Ben McClure».

Cacchio. Ora ero curiosa. «Chi è Ben McClure?»

«Ben era il migliore amico di Jethro. Sono cresciuti insieme, ma Ben era un ragazzo che rigava dritto. È morto in Afghanistan più o meno nello stesso periodo in cui Jethro decise di cambiare vita. E poi…» Hank spense del tutto il gas e appoggiò la spatola contro il bordo della padella. «Jethro si prende cura della vedova di Ben».

«Cosa vuol dire, si prende cura

Alzò le spalle. «Si prende cura della casa, fa delle riparazioni, sistema il prato, pulisce le grondaie, capito? Roba da uomini».

Feci una smorfia. «Roba da uomini?»

Hank mi guardò inespressivo. «Non fare così. Non siamo a Los Angeles o a Boston. Qui siamo a Green Valley, Tennessee. Gli uomini fanno lavori da uomini».

«Oh, tipo gestire degli strip club?» Sbattei le ciglia rivolta a lui.

Hank sbuffò, scocciato. «No. Quello è solo lavoro lavoro. Non sto dicendo che gli uomini di qui non puliscano i forni, e non sto dicendo che le donne di qui non falcino i prati. Dico solo che, nella maggior parte dei casi, l’uomo ha il suo posto e la donna il suo, tutti si caricano del loro fardello e a nessuno importa più di tanto. Facciamo tutti quello che dobbiamo fare e ci aiutiamo a vicenda. Quindi piantala con le stronzate cosmopolite, illuminate e moraliste».

Le radici di Hank erano un nervo scoperto per lui: era facile stuzzicarlo. Quando volevo farlo arrabbiare, lo chiamavo bifolco. Non pensavo che lo fosse. In effetti, non ero neanche troppo sicura di cosa fosse, un bifolco.

Ma gli insulti che usava per contrattaccare, sulle donne e sulle latino-americane, non mi avevano mai dato troppo fastidio, visto che sapevo che non diceva sul serio né ci credeva, un po’ come quando un fratello maggiore ti chiama testa di cacca. Gli insulti bene intenzionati per vendetta tra amici erano una cosa, gli insulti bene intenzionati da ignoranti tra sconosciuti un’altra.

Alzai le mani. «Va bene, d’accordo. Non inizierò a criticare le tue preziose norme culturali, i tuoi privilegi da individuo di razza bianca o il tuo pollo fritto».

«Bene». Annuì con un cenno. «E io non criticherò le tue telenovela e le tue tortilla».

«E guai se ti azzardi a farlo». Sollevai il coltello che avevo in mano e affilai lo sguardo. «Comunque, ascoltare la triste storia di questo Jethro è molto più appassionante di una telenovela. Ruba macchine per una banda di motociclisti, poi il suo migliore amico muore in guerra, viene pestato da una guardia forestale...»

«Da una guardia forestale che adesso è il suo capo e sposerà sua sorella».

«Accidenti. Okay, pestato da una guardia forestale che ora è il suo capo e sposerà sua sorella, ed ora è diventato un onesto cittadino».

«E appena un anno fa la sua mamma è morta di cancro».

Feci un respiro profondo, con la mente e il cuore che mi si riempivano di shock e compassione per il ranger Jethro. Non riuscivo a pensare di perdere mia madre. Era il mio nord, la mia roccia. «Porca vacca. Questo ragazzo...»

«E suo padre è un buono a nulla e ha cinque fratelli».

«Il padre di Jethro ha cinque fratelli?»

«No. Jethro ha cinque fratelli. Billy e Cletus, poi ci sono i gemelli, Beau e Duane, e infine Roscoe. E sua sorella, Ashley. Jethro è il maggiore».

Scossi la testa. «È una vera e propria telenovela, o dovrebbe diventarlo. Perché suo padre è un buono a nulla?» Non potevo farci niente, mi sentivo intrigata, per non dire coinvolta, da quel ranger Jethro e dal suo lieto fine.

«Vediamo, non saprei neanche da dove cominciare. Darrell Winston, il padre di Jethro, ha messo incinta Bethany Oliver quando lei aveva quindici anni. Quando Jethro è nato, lei ne aveva sedici. La famiglia di Bethany era ricca e lei era l’unica figlia di...»

Roteai una mano in aria, facendogli cenno di proseguire. «Fai un riassunto delle puntate precedenti».

«Va bene. Darrell era un vero stronzo con la moglie, la tradiva sempre, la picchiava, non si faceva mancare niente. Fa parte degli Iron Wraiths...»

«I motociclisti?»

«Già. E Darrell, che c’è dentro fino al collo, provò a coinvolgere anche i figli. Fu così che Jethro iniziò a rubare macchine. Per i primi venticinque anni della sua vita, Jethro è stato praticamente l’ombra di quel bastardo».

«Quanti anni ha Jethro?» Cercai di ricordarmi i particolari del suo volto, le rughe attorno agli occhi che si addicevano agli uomini che amavano l’aria aperta ma che attori e attrici evitavano quanto i ruoli nei film di serie B. «Non può averne più di ventisette».

«Ne ha di più. Trentuno. Ed ecco un altro motivo per cui dovresti evitarlo. È troppo vecchio per te».

Sbuffai, con una risata infastidita. «Questa è bella, Hank. Lo sai che Tom ha trentotto anni, vero?» Mi riferivo alla mia ultima, diciamo, relazione con la mia attuale co-star, Tom Low. A sentire Tom, eravamo quasi a un passo dall’altare quando io avevo messo fine alla relazione. A sentire me, eravamo stati insieme per un week-end lungo prima che la sua incapacità di affrontare la vita senza essere costantemente rassicurato fosse diventata irritante in modo oppressivo.

Un esempio: non sapeva come fare il bucato. Qualsiasi tipo di bucato. Per niente. A volte buttava via i vestiti invece di lavarli e li ricomprava nuovi settimanalmente.

«Sì, anche Tom era troppo vecchio per te».

Alzai le spalle perché non volevo discutere, ma non ero d’accordo. Tom avrà anche avuto tredici anni più di me, ma era un bambinone cresciuto. Un grande, adorabile, metrosessuale, incapace piccolo uomo figo rimasto bambino. Ci sapeva fare a letto, però. Tipo, un buon sei o sette su dieci (sei o sette orgasmi su dieci tentativi).

Invece il ranger Jethro, anche se aveva appena sei anni più di me, in base alla descrizione di Hank, poteva benissimo essere molto più maturo di me. A me piaceva ancora fare la scema e vincere gare di mi disgusti.

Attraversai la stanza fino al frigo, aprendolo e iniziando a tirare fuori i cassetti alla ricerca dei pomodori. «Insomma, ora Jethro si prende cura di vedove e orfani».

«Solo di vedove. Solo di vedove bellissime, con i capelli rossi, bellissimi occhi azzurri e voce angelica». Ora fu Hank a sbattere le ciglia.

«Ah-ah». Annuii che avevo capito. «E il ranger Jethro ha un debole per la vedova del suo migliore amico?»

Sentii un piccolo nodo di delusione allo stomaco mentre pronunciavo quelle parole.

Era il tipo di delusione che si provava quando scoprivi che un negozio non aveva un vestito bellissimo nella tua taglia, anche se, dopo tutto, non eri ancora sicura di volerlo quel vestito. Ma sapere con certezza che non avresti potuto avere quel bellissimo abito era una delusione amara.

Scacciai in fretta la sensazione. Non mi serviva alcun vestito.

«In realtà, no». Hank si grattò il collo e si appoggiò con la schiena ai fornelli, incrociando le braccia. «Se a Jethro piacesse Claire, ci avrebbe già provato. Penso che semplicemente gli piaccia prendersi cura di lei. In effetti, credo che gli piaccia prendersi cura delle persone».

«Allora dimmi una cosa, vecchio sporcaccione: perché vuoi che stia alla larga dal redento ranger Jethro? Sembra una persona fantastica. Potrei stabilirmi qui a Cancreen Valley. Potrei imparare a fare i lavori da donna. Potremmo avere mille bambini. Nota bene: spero che prendano da lui la barba e da me le braccia».

Hank abbassò il mento e strinse gli occhi su di me, lottando contro un sorriso. «Per prima cosa, è Green Valley, non Cancreen Valley, spocchiosella».

«Un lapsus, scusa».

«E secondo, non voglio che tu stia alla larga da Jethro perché mi preoccupo per te. Voglio che tu gli stia alla larga perché mi preoccupo per lui».

Lo fissai a bocca spalancata, balbettando verso il mio amico per parecchi secondi prima di riuscire a dire: «Mi sento offesa».

«Forse è così, ma in ogni caso ti chiedo di stargli alla larga».

«Sei proprio un bifolco stronzo». Pensai di tirargli il pomodoro che avevo in mano, ma decisi di non farlo. Avevo trovato un solo pomodoro e mi serviva per i tacos. I tacos senza pomodoro erano come una torta senza glassa. Inutili.

«E sei sempre contraria al sistemarti, o hai cambiato idea?»

«Assolutamente no. Sistemarsi implica accontentarsi di un uomo e io non ho alcuna intenzione di farlo».

«Esattamente. Sei un mangia-uomini, ti lasci alle spalle una scia di cuori infranti troppo lunga da elencare». Hank mise le mani sui fianchi e mi sorrise come se mi conoscesse… E in effetti era così. «Tu e le tue fossette e il tuo sexy tutto».

«Non sono una mangia-uomini. Di norma, non mi piace neanche leccarli, ho il riflesso del vomito troppo sensibile. E poi tutti quei peli, odio avere i peli in bocca. E sono davvero i peli peggiori che ci siano...»

«Hai capito cosa voglio dire, bambolina. Lascia stare quel poveretto. Ne ha già passate abbastanza».

«Mi hai appena chiamata bambolina? Non puoi chiamarmi bambolina. Sono io che ti chiamo bambolotto».

Hank ignorò la mia indignazione e mi prese il pomodoro dalle mani, spostandosi verso il tagliere. «Jethro sarà anche stato un artista dell’imbroglio, ma ora si è redento, per lo più».

«Sì, sì, tieniti il pannolino, bambolotto» brontolai.

«Dico davvero, Sienna. Lui è off-limits». Hank tagliò il pomodoro, anche se mantenne gli occhi su di me mentre borbottava: «Quel poveretto non ha mai incontrato una donna simile a te».