Capitolo 16

La tua prospettiva sulla vita e sulla perdita deriva

dalla gabbia in cui ti hanno tenuto prigioniero.

- Shannon L. Alder

Sienna

«Mi hai deluso, Sienna».

Guardai da sopra una spalla e trovai Cletus Winston in piedi proprio dietro di me, con una ciambella in ogni mano. Eravamo nella tenda della mensa, che era per lo più vuota. Tom era partito qualche ora prima per Los Angeles e vi sarebbe rimasto tutta la settimana. Io approfittavo dell’assenza sua e di Elon per passare la mattina fuori dalla roulotte.

Prima dell’interruzione di Cletus, cercavo di lavorare. E sottolineo “cercavo”.

«E per quale motivo, Cletus?»

Lui s’impossessò della sedia vuota di fianco a me e io tesi la mano per chiedergli una ciambella, pensando che una fosse per me. Pensavo male.

«Sono mie, non puoi averle». Le tenne lontano da me e morse quella con la glassa rosa.

Feci ricadere la mano, osservandolo masticare mentre lui mi guardava con aria di sfida.

Jethro aveva mantenuto la sua parola ed era passato a prendermi quella mattina. Il passiamo comprendeva Cletus. Quindi eravamo io, Jethro e Cletus insieme nel pick-up di Jethro.

Cletus era rimasto visibilmente imbronciato e silenzioso per tutto il tragitto. Ma la cosa peggiore era che Jethro era tornato a essere rispettosamente amichevole, non amichevole da “coprimi di baci”. È difficile scalare mentalmente la marcia quando si è pronti a un “coprimi di baci” e si finisce invece con un fratello Winston arrabbiato e l’altro forzatamente gentile.

«Okay. Va bene. Perché sei deluso da me, Cletus?»

«Perché ti ho fornito mezzi e opportunità. La sola cosa che dovevi fare era sfruttare la situazione a tuo vantaggio».

«Di cosa stai parlando?»

«Di venerdì? Le coperte e il caffè? Pensi sia successo tutto per caso? Era tutto pianificato».

«Pianificato?» Lo guardai sbattendo le palpebre mentre strappava a morsi un altro pezzo di ciambella. Dall’odore, sembrava essere alla fragola.

«Sì. Pianificato».

Appoggiandomi allo schienale della sedia, incrociai le braccia sul petto ed esaminai Cletus. Decisi che era strano. «Sei strano».

«Sì. Lo sono. Ma questo non cambia il fatto che tu hai mancato il mio assist. Se vogliamo che questa cosa con Jethro si realizzi, mi serve che tu giochi a livelli da finale».

«Stiamo parlando di Jethro?» Mi raddrizzai sulla sedia.

«Naturalmente. Di cosa pensavi stessi parlando?» Non dovevo afferrare abbastanza in fretta per lui, perché sospirò forzatamente e alzò gli occhi al cielo, con grande effetto. «Vuoi il mio aiuto o no?»

«Sì, sì, sì» dissi in fretta, chinandomi in avanti, completamente concentrata. «Sì, voglio il tuo aiuto».

«D’accordo, allora. Dobbiamo coordinare il nostro attacco». Cletus sottolineò l’affermazione infilandosi in bocca il resto della prima ciambella.

«Bene. Sì. Sincronizzazione degli attacchi». Il mio cellulare suonò mentre lui masticava. Gettai un’occhiata allo schermo, vidi che era Marta e feci rispondere la segreteria. Marta mi richiamò immediatamente e mi guadagnai un’occhiataccia severa da parte di Cletus.

«Dovresti rispondere». Fece cenno al mio telefono. «Tu rispondi mentre io ci rumino su, e quest’altra ciambella la mangio».

Facendo come mi aveva suggerito, risposi. «Ehi, che succede?»

«Dove sei?»

«Uhmm, sul set. Perché?»

«Puoi andare nella tua roulotte?»

Mi accigliai. Ogni volta che Marta aveva delle brutte notizie da darmi e io ero sul set, aspettava finché non le assicuravo di essere nella mia roulotte. «Stanno tutti bene? Ho parlato con mamma e papà appena ieri».

«Stanno tutti bene, non ti chiamo per parlare della famiglia. Ascolta, vai nella tua roulotte e chiamami quando sei là».

«Okay. Va bene».

«Brava. Ci sentiamo dopo».

Riagganciò, lasciandomi perplessa e ansiosa.

«Che succede?» Chiese Cletus con un pezzo di ciambella in bocca.

«Ancora non lo so». Pensai di cercare su Google il mio nome, ma non lo feci. «Mia sorella non vuole dirmelo finché non sarò sola nella mia roulotte».

«Cosa?»

«È il suo modo di fare». Raccolsi in una pila i fogli che avevo sparpagliato e chiusi il laptop mentre spiegavo: «Fa così da anni. Pensa che io reagirò come una pazza sentendo una cattiva notizia, che perderò la testa davanti alle persone con una scenata imbarazzante».

«Perché lo pensa?»

Alzai le spalle. «Credo sia perché lo facevo sempre quando avevo cinque anni».

«Avevi cinque anni. È quello che fanno i bambini di cinque anni».

«Lo so. Ma per lei, per certi versi, avrò sempre cinque anni».

«Uhmm». Cletus mi studiò e poi si alzò di scatto. «Stai andando alla tua roulotte?»

Cercando di non far cadere nessuno dei miei averi, mi spostai di fianco mentre lui rimetteva a posto la mia sedia. «Non mi dirà nulla finché non ci vado».

«Bene. È un bene». Annuì una volta, poi senza tante cerimonie uscì di corsa dalla tenda, lasciandomi lì a guardarlo, accigliata.

Era davvero strano. Piacevolmente strano.

Ritornando in me, perché non avevo tempo per pensare alla stranezza di Cletus Winston, feci cenno a Henry di seguirmi nel tragitto di ritorno verso la roulotte. Arrivati, lui aprì la porta e me la tenne aperta. Entrai, deposi le mie cose sul tavolo e chiamai immediatamente Marta.

«Sienna».

«Marta. Sono da sola. Nella mia roulotte. Che succede?»

La ascoltai fare un profondo respiro prima che tirasse il proverbiale dente. «Barnaby non pensa che tu sia la scelta giusta per il ruolo di Smash-Girl. Ma vuole comunque la tua sceneggiatura».

Lasciai che le parole penetrassero a fondo in me. Quando assimilai quanto Marta mi aveva appena detto, mi si annodò lo stomaco e sprofondai su una sedia. «Perché?»

«Dice che sei troppo vecchia».

Annuii, anche se non ero d’accordo. Avevo venticinque anni, quando avremmo iniziato a girare le prime scene ne avrei avuti ventisei o ventisette. Presumendo che stessero seguendo la mia sceneggiatura, avevo proprio l’età giusta per il personaggio. «Okay».

Non era okay. Ero super arrabbiata. Ma ero anche un’adulta e non vedevo alcun vantaggio nel lamentarmi e lanciarmi in recriminazioni al telefono con mia sorella.

«Inoltre, teme che il personaggio sarebbe troppo connotato».

«Perché? Perché scrivo la sceneggiatura?»

«No. Perché sei latino-americana».

Alzai gli occhi al cielo, disgustata. «Stai dicendo che non vuole scritturarmi per la parte di una donna che perde facilmente la pazienza perché pensa che tutte le donne latino-americane perdano facilmente la pazienza?»

«No. Ovviamente non lo pensa. Ma è uno stereotipo. Ha già incontrato resistenze dai gruppi per le pari opportunità, e pubblicità negativa sul fatto di assegnare a una donna latino-americana un ruolo stereotipato».

«È la cosa più stupida che abbia mai sentito». Mi appoggiai allo schienale della sedia e iniziai a farla ruotare da una parte all’altra. Digrignai i denti. Era stupido. Era irragionevole. «In pratica Barnaby teme che i gruppi per le pari opportunità di razza piantino scenate per via di una donna latino-americana che recita una parte in un film importante perché il ruolo, si dà il caso, è quello di un personaggio che diventa rosso quando è arrabbiato, senza pensare al fatto che sono la migliore scelta per la parte. E, tuttavia, questi stessi gruppi per le pari opportunità non hanno alcun problema se una persona viene scartata per il ruolo solo perché è latino-americana. È stupido al punto da essere geniale».

«Sienna...»

«No. No. Ha perfettamente senso. Meglio tenere intatto questo soffitto di cristallo piuttosto che affrontare la questione di petto. Voglio dire, a chi importa che avere una donna latino-americana in quella parte aprirà delle porte e promuoverà la diversità nei film. Freghiamocene completamente. Molto meglio preoccuparci del rischio di perpetuare uno stereotipo datato. In effetti, probabilmente dovrebbero sbarazzarsi di tutti i colori della pelle a parte il bianco, nei film. E di tutte le donne. Aveva ragione Shakespeare, nei film come a teatro dovrebbero recitare solo uomini bianchi. A meno che, naturalmente, il personaggio sia ricco e privilegiato. Allora bisognerebbe dare la parte a una persona di colore, perché non vogliamo promuovere degli stereotipi».

Sì, mi stavo comportando in modo ridicolo e meschino. Ma avevo appena perso il ruolo della vita. Avevo il diritto di sfogarmi ed essere amareggiata. Chiunque, di qualsiasi etnia, lo sarebbe stato.

Avevo avuto un’infanzia privilegiata, avevo vissuto in un bel quartiere, un quartiere sicuro, circondata da persone che mi amavano. I miei genitori erano dottori e guadagnavano bene. Non pensavo che tutte le persone bianche fossero privilegiate, così come non pensavo che tutte le donne latinoamericane perdessero la calma per un nonnulla.

Ma agli attori bianchi non succedeva mai di vedersi negata una parte perché rischiava di perpetuare stereotipi negativi sulla loro razza. E allora perché a me negavano il ruolo di un’eroina con le palle?

Era stupido al punto da essere geniale.

«Tesoro, lo so che sei sconvolta. Ma, se guardiamo il bicchiere mezzo pieno, l’ultima sceneggiatura gli è piaciuta moltissimo così come le pagine che hai già mandato per Smash-Girl. Vogliono comunque che tu faccia parte del progetto».

Mi nascosi il mento nel petto, scivolando sulla sedia e guardando torva, ma senza vederlo, l’interno della roulotte. Non risposi.

«Sienna? Ci sei?»

«Sì».

«Avrai altre parti».

«Lo so».

Esitò, poi chiese. «Continuerai a mandare altre pagine? Per Smash-Girl?»

Non risposi.

«Sienna», la sua voce si fece severa, «continua a mandare la sceneggiatura. Hai capito?»

«Devo andare».

«Sienna, devi ascoltarmi...»

Chiusi la chiamata e spensi il cellulare, tentata di scagliarlo via.

Non lo feci.

Invece, sprofondai nella mia frustrazione. Ma la cosa super strana era che non sapevo se fossi più arrabbiata per aver perso la parte o per il motivo per cui avevo perso la parte. Sì, ero profondamente irritata perché ero stata scartata per via della mia etnia… ma perdere la parte, e conseguentemente tutta la pompa e la pubblicità ad essa collegata, in verità mi sembrava un sollievo.

Sentii bussare alla porta. Lo ignorai. Chi aveva bussato ci provò una seconda volta, più forte. Lo ignorai anche stavolta. La persona bussò una terza volta e stavo per urlare una risposta, quando sentii aprirsi la porta.

«Sienna?»

Chiusi gli occhi per escludere il mondo esterno, perché chi aveva bussato insistentemente era Jethro.

Non aspettò la mia risposta, semplicemente entrò senza invito, chiudendosi la porta alle spalle. Lo avvertii attraversare la stanza fin dove sedevo sprofondata nella sedia, sentii i suoi occhi muoversi su di me.

«Ehi» disse, colpendomi leggermente il piede con il suo stivale. «Stai bene?»

Io inghiottii un groviglio di emozioni. Ero frustrata. E come ho già detto in precedenza, quando ero frustrata piangevo.

Quando fui certa di riuscire a parlare senza piangere, dissi: «Sto bene».

Jethro era silenzioso. Lo sentivo ancora guardarmi, per cui aprii gli occhi e trovai i suoi. La sua bellezza mi sembrò travolgente, la sua presenza nella roulotte, disorientante. Quindi chiesi: «Che ci fai qui?»

«Cletus mi ha detto che stavi ricevendo delle cattive notizie».

«E allora?»

«Allora». Il suo sguardo si fece tagliente: chiaramente trovava la mia domanda estenuante. «Ero preoccupato per te».

Aggrottai le sopracciglia sentendo le sue parole, perché aveva detto che era preoccupato per me come se fosse una cosa ovvia. Non era ovvia. Non quando il minuto prima mi baciava come se fossi quanto di più buono mai esistito dopo le ciambelle di Daisy e il minuto dopo se ne andava. Mi era passato a prendere stamattina e poi aveva usato il fratello come terzo incomodo per poter tenere le distanze. Mentre dibattevo tra me e me sul se chiedergli o no perché mi aveva baciata e se avesse in programma di farlo ancora, Jethro estrasse il cellulare dalla tasca. Si accigliò guardando lo schermo. Premette e scorse con il pollice finché non trovò quello che cercava. All’improvviso, della musica si alzò dal suo telefono.

Riconobbi la canzone ma non ricordavo il titolo. Era una vecchia registrazione. Una voce di donna che cantava in francese riempì lo spazio tra e attorno a noi.

«Che canzone è?»

Lo sguardo morbido di Jethro si mosse su di me, un sorriso invitante gli incurvava appena le labbra. «La Vie en Rose».

«È molto bella». Era molto bella, ma non stava migliorando il mio umore.

Poi Jethro mi porse la mano. «Balla con me».

Sbattendo le palpebre incredula, prima guardando la mano che mi offriva e poi il suo volto, chiesi: «Perché?»

Senza rispondere immediatamente, si piegò a prendermi, mi tirò su in piedi e fece scivolare il braccio attorno ai miei fianchi. Gli permisi di tenere il mio corpo contro il suo, di prendermi per mano e farci ondeggiare al ritmo di quella musica piacevole. Con riluttanza, ammisi a me stessa che sapeva tenere bene il ritmo. Qualcuno gli aveva insegnato a ballare.

Jethro abbassò la bocca sino al mio orecchio, la sua barba mi solleticava il collo mentre lui finalmente sussurrava una risposta alla mia domanda. «Perché tu vuoi che io ti tenga stretta, ma non sai come chiederlo».

Camminavamo per la prateria tenendoci per mano.

TENENDOCI. PER. MANO.

Il mio cervello gridava quest’affermazione a intervalli irregolari, perché era sia disorientante che eccitante.

Avevamo ballato nella mia roulotte, con La Vie en Rose in loop, finché non ero stata finalmente pronta a parlargli delle mie cattive notizie.

Mentre raccontavo la vicenda mi ero innervosita di nuovo, progressivamente. Lui aveva suggerito di andare a fare una passeggiata con il pretesto di controllare le trappole per gli orsi. Il ritmo dei passi, assieme alla bellezza del parco, assieme al tramonto ormai prossimo che sfumava il cielo di blu e porpora, rese più facile raccontare la storia delle mie disavventure.

Jethro ascoltò attentamente, dimostrandosi in egual misura preoccupato e arrabbiato per me. Poi espresse il suo sostegno e la sua comprensione allungando la mano per prendere la mia e tenerla nella sua.

E dunque eravamo finiti in questa situazione e il silenzio che era sceso tra noi rivaleggiava con la lunghezza delle nostre ombre.

Lui ruppe il nostro confortevole silenzio dicendo: «Una cosa che la mia mamma diceva sempre, e che io cerco sempre di tenere a mente è: “Non andare a nuotare nudo dove ci sono le tartarughe azzannatrici”».

Sbirciai il suo bel profilo; il detto mi faceva sorridere, perché Hollywood era piena zeppa di tartarughe azzannatrici, ma ero distratta dalla forza che emanavano la sua mascella, il suo collo e le sue spalle. Anche la sua mano nella mia mi sembrava possente. Jethro era forza e potenza pronti a scattare e la sua forza mi sembrava naturale e selvaggia. O meglio, selvaggia rispetto alla forza compassata a cui ero abituata io. I miei colleghi attori, e includevo anche me nella categoria, coltivavano la loro forza in palestre con aria condizionata e personal trainer.

Jethro usava la sua forza ogni giorno, come parte del suo lavoro, a volte da solo, a volte come membro di una squadra. Mi sembrava reale. Lui mi sembrava reale. Amavo che lui fosse reale.

I suoi occhi balzarono nei miei, risvegliandomi dalle mie fantasticherie.

«Uhm, davvero?» Sbuffai una risata, scuotendo la testa. «Mi sembra una donna molto saggia. Lavorava a Hollywood?»

Lui fece un sorriso che svanì presto. «No. Le sue tartarughe azzannatrici erano più del genere che va in motocicletta».

Facemmo ancora qualche passo e poi io dissi e pensai, all’unisono: «Assomiglia proprio alla mia mamma. Le piace dare avvertimenti di questo tipo. Ma lei avrebbe detto qualcosa come: “Non puoi fare una borsa di seta dall’orecchio di una scrofa”, dove l’orecchio della scrofa rappresenta le persone di merda».

Il suo sorriso di riposta fu amaro e comprensivo.

Visto che non volevo più parlare delle ingiustizie hollywoodiane e che ero curiosa, chiesi: «Da piccolo volevi fare il ranger della forestale?»

«No». Jethro scosse la testa, nella sua negazione c’erano sia divertimento che veemenza. «Proprio no. Non sopportavo i ranger, quando ero giovane. Mi rovinavano sempre il divertimento». Rimase in silenzio per un istante, ma era il genere di silenzio foriero di ulteriori rivelazioni. «Crescendo, volevo solo avere sulla schiena la toppa degli Iron Wraiths».

«Cosa vuol dire?»

Lui mi fece fermare e mi lasciò la mano, incrociando le braccia sul petto e guardando lontano, verso l’orizzonte. «Significava che volevo fare il biker, volevo essere un membro del club». Poi, più piano, aggiunse. «Non desideravo altro».

«Cosa ti ha fatto cambiare idea?»

Lo sguardo di Jethro guizzò sul mio volto, esaminandomi prima che iniziasse a parlare con riluttanza. «Avevo un amico, un caro amico, siamo cresciuti insieme. Si chiamava Ben». Il suo sguardo cadde sull’erba alta della prateria che ci arrivava alle ginocchia. «Ci divertivamo da matti, facevamo ogni cosa insieme, ogni volta che potevamo. Era davvero una brava persona. Una delle migliori, in effetti. Io mi mettevo sempre nei guai e lui era sempre pronto a venire in mio soccorso, a cercare di portarmi sulla retta via». Jethro ridacchiò ripensando a un qualche ricordo e scosse la testa. «Immagino che contassi su di lui per questo, che ci fosse sempre lui a pensare bene di me quando tutti gli altri non vedevano altro che i miei aspetti negativi. Ti sembra strano?»

«No. No, per niente. Credo che a tutti noi serva qualcuno che veda sempre il meglio in noi». Per quanto mi riguardava, pensare a Jethro come a una cattiva persona mi sembrava qualcosa discordante con la realtà, se non impossibile. «Lo conoscevi da sempre?»

«Sì. Da che ho memoria, lui era lì con me. Finché non è morto».

Mantenni un’espressione incoraggiante, ma neutrale. Sapevo com’era morto Ben, perché Hank me l’aveva detto settimane fa, ma avevo l’impressione che Jethro avesse bisogno di parlarne. Per cui chiesi dolcemente: «Come morì Ben?»

«Si era arruolato nei Marines, voleva fare del bene, fare la differenza prima di sistemarsi e mettere su famiglia. Ma morì in Afghanistan, durante la prima missione. Lui sognava di diventare ranger della forestale».

«Ben voleva diventare un ranger?»

Il suo sguardo si fece assente. «Esatto».

«Per questo sei diventato un ranger?»

I suoi occhi scattarono ai miei, catturando il mio sguardo. Di solito Jethro aveva un accenno di sorriso permanente nelle sue espressioni. Era una delle cose che più mi piacevano di lui, quanto spensierato e amichevole fosse. Ma in quel momento non c’era traccia di allegria nel suo sguardo, nessuna gioia o tranquillità.

«Sì». Annuì con un cenno. «Perché quando Ben morì, non riuscivo a smettere di pensare che sarei dovuto morire io al suo posto».

«Oh, Jethro. No». Allungai la mano verso la sua, ma lui capì il mio intento e si mise le mani sui fianchi, sfuggendo al mio tocco.

«Ero un vero stronzo. Non rispettavo mia madre, ero arrogante, pieno di me. Una volta cercai di convincere mia sorella a prostituirsi». Il labbro di Jethro si arricciò e lui sputò quelle parole, visibilmente disgustato da se stesso. «O meglio, mio padre cercò di farlo e io non feci niente per fermarlo. Avevo solo quindici anni all’epoca, ma per me lui era un mito. Per fortuna mio fratello Billy lo scoprì e mise fine a tutto. Io volevo seguire le orme di mio padre, lo consideravo un grand’uomo. Un uomo importante, perché i Wraiths lo consideravano uno importante. Ma la verità era che tutto quello che aveva era il rispetto di quei fuori di testa dei suoi “fratelli”, i membri del club. Aveva potere in una piccola e merdosa banda di motociclisti. Era tutto quello che aveva».

Non sapevo cosa dire, perché non credevo che Jethro avesse finito. Rimasi in silenzio, guardandolo, desiderando che mi permettesse di abbracciarlo o toccarlo in altro modo.

«Ma quando Ben morì» la voce di Jethro si fece più profonda, roca per l’emozione, «feci un passo indietro e capii che non erano gli Iron Wraiths, o mio padre, che ammiravo tanto. Era la lealtà, la famiglia, il senso di appartenenza a qualcosa di importante, a qualcuno di importante. Questo volevo. E ce l’avevo già, con i miei veri fratelli. E con Ben». Sembrava così torturato, così tormentato dal rimorso che sentii le lacrime appannarmi gli occhi, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo. «Lo avevo con la mia mamma e mia sorella, ma l’avevo buttato al vento». Jethro scosse la testa, il suo sorrisino era adombrato da un inconfondibile disgusto per se stesso.

«Sei cambiato» gli feci notare, odiando che le sue fattezze fossero così distorte da rabbia amara, tutta diretta verso di lui. «Sei cambiato, e guarda come sei diventato».

«Non sono cambiato, non nel senso che intendi tu. Quello che ho fatto è stato diventare una nuova persona, decidere di vivere la vita che Ben non aveva avuto occasione di vivere. Ho cercato di vivere i suoi sogni e i suoi desideri. Voglio diventare la persona che lui non ha mai avuto l’occasione di diventare».

Quell’affermazione mi strinse il cuore. Mi portai al petto entrambe le mani per evitare di allungarle di nuovo verso di lui. «E invece quale vita vuoi vivere tu? Quali sono i desideri e sogni di Jethro?»

Jethro scosse di nuovo la testa, il suo sorriso era caustico e stanco. «Quei sogni sono morti con Ben McClure in Afghanistan. Ed è meglio così».

Feci un sospiro pieno di dolore. «Non sto parlando dei desideri e dei sogni di diventare membro di una banda di motociclisti. Sto parlando dei nuovi sogni, dei nuovi desideri, di quelli buoni. Cosa vuoi fare tu? Se avessi la possibilità di fare qualcosa, qualunque cosa, cosa faresti?»

Jethro si mise le mani in tasca e alzò le spalle. «Non farei del male alle persone».

«Ok, allora eliminiamo “ammazzare tutti con un’ascia” dalla lista».

Con questo gli strappai una piccola risata. Il peso sul mio petto si fece più lieve e una parvenza del suo sorriso amichevole ritornò.

«Dico sul serio, però. Cos’è che vuoi tu

Ancora una volta, mi trovai a essere oggetto del rimirare di Jethro. E, ancora una volta, trattenni il fiato.

Come aveva fatto venerdì, Jethro fece un passo verso di me, annullando quasi la distanza tra noi, e fece scivolare le dita tra i miei capelli. La pelle d’oca esplose ovunque sulla mia pelle, così sensibile al suo tocco. Alzai il mento, desiderosa della sua bocca, perché quell’uomo era davvero bravo a baciare.

Il mio stomaco e il mio cuore si erano dati alla ginnastica sincronizzata.

Inoltre, lui mi piaceva davvero, davvero da matti.

Invece di baciarmi le labbra, mi tirò a sé e premette le labbra sulla mia fronte. Il respiro mi sfuggì dai polmoni in un confuso pffff.

«Jethro...»

«Sssh» disse, con le labbra ancora vicine alla mia attaccatura dei capelli.

Jethro abbassò il mento e premette insieme le nostre fronti, respirandomi fino in fondo. Io gli afferrai i polsi e scossi leggermente la testa, non volendo interrompere il contatto, ma ero un ammasso di confusione. Non sapevo cosa stessimo facendo. Io volevo più contatto, non meno.

«Cosa stiamo facendo?» Chiesi, sentendomi irrequieta.

«Mi consolo».

La cosa mi fece sorridere, per cui lo sbirciai da sotto in su. «Io ti consolo?»

«Sì».

Il mio sorriso si allargò e chiusi gli occhi, abbandonandomi al momento.

Piano piano, iniziai a sentire una sinfonia di suoni innalzarsi attorno a noi. Il vento giocava nell’erba, faceva frusciare le piccole ma copiose foglie di una quercia vicina e solitaria. I grilli e altri insetti frinivano e ronzavano. Sentii il battito del cuore di Jethro attraverso la punta delle sue dita e dove lo avevo afferrato per i polsi. Il mio cuore rallentò fino a battere allo stesso ritmo del suo.

La mia irrequietezza iniziò a svanire fino a scomparire, eclissata dall’immobilità, dal conforto di essere così vicini, anche se ci toccavamo a malapena. E mi consolai con lui.