Luogo per sanare e curare di Mario Paolini

«Luogo per sanare e curare».

Era scritto cosí sul cartello davanti all’ospedale psichiatrico di Kaufbeuren, da cui inizia il racconto di Ausmerzen. Manca il soggetto: sanare e curare chi? Quando nella seconda metà dell’Ottocento si aprono i grandi manicomi moderni, il pensiero sottostante è condiviso, le planimetrie dei luoghi spesso sono sovrapponibili. Grandi aree, circondate da un inequivocabile muro che separa e distingue il fuori dal dentro, sani e malati, noi e loro. Anche dentro le separazioni proseguono, quelli tranquilli e quelli agitati, quelli che lavorano e quelli troppo gravi per farlo, medici e infermieri, laici e suore, educatori e guardiani. Un mondo separato e autosufficiente.

Aree e padiglioni rispondono a un bisogno sociale e allo stesso tempo offrono una risposta che prima non c’era. Il bisogno sociale è quello del controllo e della custodia organizzata di tutta una galassia di esseri con caratteristiche non compatibili con lo stare fuori; per cui è meglio metterli dentro, metterli via. Non solo i matti, quelli che immaginiamo tali forse senza averne conosciuto alcuno, ma finivano in quei luoghi altrove anche tutti quelli che avevano pezzi riusciti male, piú o meno evidenti, nel corpo e nella mente. Per un lungo tempo, non ancora appartenente in modo definitivo al passato, questi luoghi di custodia separata sono serviti a proteggere chi è fuori dalla vista – prima ancora che dall’incontro – con questi esseri diversi, errori di natura secondo Platone, figli del peccato secondo la tradizione giudaico–cristiana o «gettati nel mondo dal lancio di dadi del computer di Dio», come diceva un bel libro18. Persone come queste furono uccise, sistematicamente, durante il nazismo perché ritenute vite indegne di vita, inutile costo sociale, diversi, variabili incognite inaccettabili per chi voleva ridurre la vita a equazioni dalla soluzione certa.

Conoscere le cose accadute serve a togliere alibi a quella che forse è la domanda piú inquietante che pone la vicenda dello sterminio dei disabili e dei malati di mente sotto il nazismo: come è stato possibile? È una domanda che deve interrogare ogni persona e in modo particolare e diverso chi a vario titolo svolge una professione in relazione di aiuto: medici, infermieri, insegnanti, operatori del sociale. Perché ciò che accadde non accadde per mano dei cattivi con la divisa e la voce oscena, ma fu fatto da gente che di mestiere si occupava della cura di altri. Colleghi di un tempo che fu. Per questo bisogna partire da quel cartello: luogo per sanare e curare. Chi abitava in quei luoghi?

In Italia la legge che istituisce i manicomi è del 1904; nuovi istituti vengono aperti ampliando la disponibilità di posti e alleggerendo il carico delle strutture esistenti. Già, perché da qualche parte dovevano stare anche prima quelli «diversi». Storia complessa che merita di essere conosciuta.

Si entrava in manicomio se il medico condotto del paese rilasciava una dichiarazione cosí:

Il sottoscritto medico condotto certifica di avere visitata A. di M. e di T. [omissis], nata a Sarmede, di anni 35, di professione contadina, residente in Salgareda e di averla trovata affetta da alienazione mentale, che presenta i caratteri ante descritti e per la quale riconosce l’assoluta urgenza di inviare l’alienata medesima al manicomio. Rilascia il presente agli effetti dell’art. 2 della legge 14 febbraio 1904 n. 36. Salgareda, 27/10/1906, dott. P. [omissis].

Oppure perché quattro brave persone andavano dal sindaco e sottoscrivevano un atto di notorietà, a volte prestampato con gli spazi da riempire, in cui dichiaravano «di essere perfettamente a conoscenza che ________ da circa ___ giorni dà manifesti segni di alienazione mentale».

Manifesti segni. Perfettamente noti: son cose che richiedono, per la brava gente, un adeguato luogo per sanare e curare, e non dover vedere. I bambini che nascevano con delle disabilità prima o poi entravano in manicomio, anche se esisteva un dibattito tra i medici e le istituzioni provinciali da cui dipendevano per mantenere all’ospedale psichiatrico la specificità di cura delle malattie mentali. Cosí, spesso venivano realizzate delle strutture satellite, sotto il nome di istituto pedagogico o sigle simili, e quei bambini venivano inviati lí. Fino a diventare grandi e poi tornavano in manicomio. Quasi tutti erano poveri, perché era normale essere poveri, talmente normale che nei comuni si redigeva su moduli prestampati il «certificato di miserabilità». Poveri erano sicuramente la maggior parte dei bambini, degli uomini e delle donne uccisi tra il 1939 e il 1945 nella Germania nazista. Poveri, analfabeti, ritardati mentali, gente con il biglietto degli ultimi nel convoglio dell’umanità; gente che non scrive e non fa memoria.

Chiedersi come è stato possibile ucciderli sistematicamente, uno per uno, significa restituire a essi il diritto di essere persone. «Chiedetevi se questo è un uomo», non è dunque domanda che Primo Levi pone solo per un frettoloso ricordo una volta all’anno per uomini come noi ridotti da altri a esseri subumani, ma è domanda che noi dobbiamo porci nei confronti di esseri piú o meno evidentemente diversi: perché il pensiero di «vite indegne di essere vissute» o di nutzlose Esser19 non appartiene al passato ma, pericolosamente, a qualcosa che è in noi, che si nutre di ignoranza e paura, che si combatte con la conoscenza e la partecipazione.

Gli elementi per conoscere la vicenda di T4 sono oggi molti e molto piú disponibili di quanto non lo fossero soltanto pochi anni fa; ma da soli non bastano per conoscere, se non c’è un posto dove far atterrare le emozioni che questa vicenda scava e scova, se non c’è parallelamente un desiderio di cura da un modello pervasivo che ci ha contaminato e che richiederà tempo e azioni per essere curato. Non si tratta di uno sguardo pietoso sul passato, ma di uno specchio scomodo in cui riflettersi per riflettere sul presente e sul futuro, accogliendo, con il suggerimento di Luigi Ciotti, l’idea che il futuro sia una cultura dell’integrazione che si fa cultura dell’interazione.

Cultura attiva, schierata, che pensa normalmente e in eguale misura che il diritto delle persone disabili a essere cittadini è uguale, ne piú né meno, a quello di tutti di vivere liberi dalla mafia, di con–vivere nel civismo, di recuperare una dimensione di persone e non di consumatori, di vivere. Anche per queste ragioni, la vicenda dello sterminio dei disabili e dei malati di mente durante il nazismo non è una storia che riguarda i tedeschi, bensí ognuno di noi, nonostante quel che mi scriveva una cara amica:

Da molti anni mi sento in colpa perché sono tedesca. E non sono l’unica. Ho cercato di spiegare questa sensazione a delle persone francesi, a delle persone italiane. Ma non mi capivano. Dicevano: ma perché ti senti in colpa per delle cose che ha fatto la generazione dei tuoi nonni? Eppure è cosí: mi sento in colpa per il semplice fatto che sono tedesca. Quando vedo una bandiera tedesca provo disagio. Durante i Mondiali di calcio nel 2006 in Germania, per la prima volta dopo la guerra i tedeschi mettevano le bandiere fuori dalle finestre. E mi veniva da vomitare. Come potrò spiegare a mio figlio cosa vuol dire essere tedeschi? A scuola ci martellavano con la storia del nazismo, si parlava tantissimo dell’Olocausto. E avevano ragione: è l’unica maniera per non dimenticare mai e per non ripetere. Von Cranach parla di Bewältigung [superamento] e Wiedergutmachung [riparazione]; per me, come sicuramente per molti tedeschi, è un tema centrale.