Cinque

La lobotomia non è cosa da bisturi, serve uno scalpello sottile lungo venti centimetri e spesso cinque millimetri che si infila nel cavo orbitale sollevando la palpebra, fino ad appoggiarlo alla sottile parete della scatola cranica. Una pressione sullo scalpello è sufficiente a spaccare la volta orbitale. Poi l’attrezzo avanza maneggiato come un pendolo nella massa bianca che separa il lobo frontale dal resto del cervello. Lo scopo è quello di rompere i fasci nervosi che collegano le due parti. Si cerca di separare le regioni turbolente da quelle tranquille.

Lo scalpello è simile a quelli usati per rompere il ghiaccio. Il chirurgo avanza facendolo oscillare, deve avanzare fino a un certo punto, deve sapere dove fermarsi…

Ho pensato a Michelangelo mentre scolpisce il viso di Maria che tiene in grembo il figlio morto. Non è ancora Michelangelo per gli altri, è soltanto uno scultore di poco piú di vent’anni.

La Pietà è l’unica opera da lui firmata, dopo di quella non avrà piú bisogno di firmare.

Ho pensato a Michelangelo con lo scalpello puntato sul cavo orbitale del viso di Maria.

Basterebbe poco per rovinare tutto ma deve martellare ancora.In fondo quello è ancora solo marmo bianco, e lui usa ferro su marmo, è il suo mestiere, è la sua arte, e lui è Michelangelo.

Per il chirurgo, una volta trovata la via d’accesso al cranio, si tratta di prender confidenza con l’uso dello scalpello. Basterebbe poco a rovinare il cervello ma deve avanzare ancora.

In fondo è solo ferro su callo bianco e anche lui si sente un artista.

Come fa a sapere quando deve fermarsi?

Il paziente è sveglio, l’operazione è dolorosa, fa certamente paura ma è necessario che il paziente sia sveglio, mentre il punteruolo avanza oscillando il chirurgo interroga il paziente, gli chiede di contare alla rovescia da 20 a 1, gli chiede i giorni della settimana al contrario, gli chiede i mesi dell’anno al contrario. Cosí lo fa pensare, lo fa restare lucido.

Quando il paziente comincia a far confusione, quando la risposta diventa incoerente, il chirurgo si ferma. È arrivato.

Il tutto dura poco, il paziente può essere subito dimesso, si può fare in ambulatorio; oggi diremmo «in day hospital».

Funzionava, era una tecnica rozza ma funzionava.

Non sempre: a volte morivano. Però ai neurochirurghi piaceva perché era risolutiva. Veniva applicata anche in caso di lievi disturbi della personalità o di comportamenti socialmente riprovevoli, come quello di una ragazza troppo libera che rischiava di infangare il nome della sua famiglia.

Si chiamava Rosemary. Il suo è probabilmente il piú famoso intervento operato dal dottor James Watts, che da solo realizzò oltre tremila interventi di lobotomizzazione negli Stati Uniti.

Rosemary è la terza di nove figli, suo fratello di un anno piú vecchio diventerà il piú amato presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy.

Nel 1941 Rosemary ha ventitre anni ed è sessualmente un po’ troppo libera e insofferente alle regole. Il padre è un ambasciatore, ha grandi ambizioni per i figli maschi e non vuole scandali in famiglia. È lui a decidere per Rosemary. Dopo l’operazione, la ragazza seduta perennemente su una sedia a rotelle vivrà fino al 2005 senza piú aver occasione di dare scandalo.

La lobotomia in Italia sarà poco utilizzata per la decisa opposizione della chiesa, ma in tutti i paesi protestanti avrà una diffusione ampia dagli anni Quaranta fino ai Settanta.

Negli stessi anni in cui si consolida la pratica della lobotomia, un altro rimedio per i malati di mente si diffonde in fretta. Lo inventa un professore dell’università La Sapienza di Roma, il dottor Ugo Cerletti.

Egli stesso racconta come l’idea è nata: era rimasto colpito da come al mattatoio i maiali venissero anestetizzati con l’uso della corrente elettrica prima di venire macellati.

Insieme al collega piú giovane Lucio Bini, perfeziona nel 1938 una tecnica che chiama terapia elettroconvulsivante, che si diffonderà rapidamente in tutto il mondo con il nome piú semplice di elettroshock.

Al paziente vengono somministrate scariche elettriche ad alto voltaggio (fino a 450 volt) e basso amperaggio (max 0,9 ampere) per un tempo variabile da mezzo secondo a due secondi.

L’applicazione viene ripetuta a giorni alterni per alcune settimane. Essa provoca convulsioni nel paziente, è questo lo scopo della cura. Gli elettrodi sono applicati alla testa. La corrente cerca la via piú corta tra i due elettrodi per passare.

Il principio di funzionamento è lo stesso che si usa per una saldatrice elettrica: tra anodo e catodo, i due poli, si pone un materiale che conduce, il ferro. Facendo passare 40 ampere a 450 volt, il ferro si fonde e si può saldare.

Nel caso dell’elettroshock si usa un impulso di intensità quaranta volte piú piccola per tempi brevissimi. Il materiale che conduce è il cervello; la scarica lo attraversa fra i due elettrodi. Si può cosí mirare a certe zone del cervello lasciandone fuori altre, ma è tutto molto approssimativo.

Franco Basaglia, padre della riforma degli ospedali psichiatrici in Italia, cosí definirà l’elettroshock: «È come dare dei pugni a un televisore che non funziona sperando che riprenda a funzionare. A volte succede, ma non abbiamo la minima idea di come abbiamo fatto».

Nessuno sapeva come nel cervello funzionasse l’elettroshock. Neanche oggi lo sappiamo.

Di sicuro dopo ogni applicazione il paziente per un tempo piú o meno breve presentava elettroencefalogramma piatto, poi ricominciava a funzionare.

Se si trattasse di un computer, si potrebbe dire che si faceva un reset, ma trattandosi di vita biologica sarebbe piú corretto parlare di morte e rinascita dell’attività cerebrale.

Il dottor Bini ammetteva che i pazienti erano spesso recalcitranti ma concludeva che «era per il loro bene, per ridargli la felicità».

Era ovvio che i pazienti si ribellassero, l’elettroshock somministrato a vivo dava un dolore atroce. La convulsione che segue la scarica in un paziente sveglio era talmente devastante da provocare a volte il distacco dei fasci tendinei, in certi casi le lesioni erano piú gravi ancora, a volte mortali. Ma erano morti avvenute in manicomio, contavano poco. L’uso dell’anestesia viene introdotto solo nel 1963, dopo piú di vent’anni di applicazioni.

Oggi l’elettroshock viene ancora previsto dai protocolli come seconda opzione quando i trattamenti farmacologici non funzionano. La medicina lo prevede e sul suo utilizzo si discute ancora. Ma funziona, dicono i neurologi, e dopo l’introduzione dell’anestesia la mortalità è crollata.

Il 21 maggio 1972 uno squilibrato di nome László Tóth, geologo australiano di origine ungherese, prese a martellate la Pietà di Michelangelo. Mentre colpiva urlava: «Io sono Gesú Cristo risorto dalla morte». I colpi provocarono danni gravissimi, l’amputazione di un braccio e la devastazione del viso di Maria. Il martello si era accanito sul naso e sulle volte orbitali.

L’uomo, subito arrestato, giudicato mentalmente instabile, viene ricoverato in un manicomio italiano dove gli fanno dodici applicazioni di elettroshock, una dose considerata normale. Dopo la terapia destinata a restituirgli la felicità, László Tóth viene rispedito in Australia, e presto il mondo si dimenticherà di lui. La Pietà, ottimamente restaurata, è tornata al suo posto. Solo una spessa lastra di protezione è rimasta a ricordo del giorno lontano in cui fu orribilmente sfregiata.

La pratica dell’elettroshock è stata anche usata per «curare» i dissidenti, gli oppositori politici in molti paesi. Era facile da applicare: era strumento di controllo sanitario o politico, a seconda dei casi.

All’inizio degli anni Settanta, Stanley Kubrick gira Arancia meccanica, in cui al protagonista viene praticata una tortura: la «cura Ludovico». Al paziente–criminale sono state bloccate le palpebre per costringerlo a vedere immagini violente associate alla sua musica preferita, la Nona sinfonia di Beethoven. Elettrodi fissati al capo registrano le sue reazioni, non è l’elettroshock ma lo ricorda. È una rieducazione forzata per associare agli impulsi violenti del presente un estremo disagio fisico. È un film contro l’ipocrisia del potere.

Nel 1975 un altro film potente racconta la lobotomia e scatena un dibattito contro lo strapotere degli psichiatri sui loro pazienti. Si chiama Qualcuno volò sul nido del cuculo, e nessuno di quelli che lo hanno visto se lo può dimenticare.

Durante gli anni Settanta molte idee sulla malattia mentale vengono contestate, e gradualmente le pratiche che da quelle idee derivavano saranno abbandonate. La diffusione degli psicofarmaci, inoltre, renderà meno pressante l’uso della chirurgia e dell’elettroshock.

Una parte della psichiatria si è impegnata in quegli anni a ridefinire il proprio ruolo e quello dei pazienti. Riforme importanti sono state fatte e l’Italia si è distinta per aver avviato la piú radicale, che prevedeva la chiusura dei manicomi e il reinserimento in strutture territoriali degli ex degenti.

Altri psichiatri si sono trasformati in farmacisti, affidando gran parte del loro lavoro alle proprietà miracolose delle pillole e delle pastiglie che dànno l’equilibrio a quelli che non ce l’hanno. Con le pillole tirano avanti, la chimica li aiuta a ritrovare l’equilibrio perduto. Però cosí la chimica sostituisce molte altre pratiche mediche.

Basta oggi un lieve disturbo per vedersi prescritto uno psicofarmaco: non cura ma risolve. Tra qualche anno forse tutto questo farà orrore ma per adesso è normale, come normale era la lobotomia.

Nel 1949, a uno dei medici che piú di altri nel tempo l’hanno messa a punto, il dottor António Egas Moniz, portoghese, venne assegnato il Nobel per la Medicina.

I primi esperimenti di questa tecnica risalgono a un medico svizzero che cominciò a praticarla nel 1890. Anche la lobotomia è figlia della Belle Époque e della stessa logica eugenetica del controllo di varianti degenerate di razze umane.

Galton aveva onestamente indirizzato il suo pensiero verso una selezione positiva dei caratteri. Bell non arrivò mai apertamente a proporre la sterilizzazione forzata dei sordi. Ma la necessità di far fronte a fortissimi squilibri sociali spingeva ormai le società piú evolute verso provvedimenti drastici nei confronti di individui indesiderabili.

Morons, cosí negli Stati Uniti venivano chiamati in un’unica categoria tutti quelli che per la società erano portatori di tare ereditarie e dovevano per questo essere sterilizzati.

Come ho già detto nel precedente capitolo, altri provvedimenti furono presi contro gli immigrati indesiderati, comprese restrizioni ai matrimoni misti tra uomini di razze inferiori e donne americane bianche.

Il problema principale dell’America era la sua crescita tumultuosa, che richiamava immigrati da ogni parte del mondo minacciandone l’identità Wasp, White Anglo–Saxon Protestant.

L’eugenetica era l’alibi e la motivazione per respingere quella minaccia.

In Europa il paese pioniere delle sterilizzazioni forzate è la Svizzera, ma è difficile tenere il conto e quantificare gli interventi, perché in maniera autonoma e con criteri diversi operavano le singole autorità cantonali e a volte municipali.

L’azione è diretta sia verso i malati di mente che verso le minoranze insofferenti alle regole sociali, come gli zingari.

Ovviamente, nei primi anni del Novecento la Svizzera non è terra di immigrazione, e le disposizioni di legge sono tutte orientate a regolare questioni interne. Quando però dopo la Seconda guerra mondiale le cose cambieranno, la Svizzera tratterà l’immigrazione italiana con provvedimenti restrittivi figli della stessa logica usata negli Stati Uniti quarant’anni prima: difendere l’integrità della nazione dalla minaccia rappresentata dal lavoratore immigrato.

Tra i pionieri dell’eugenetica svizzera c’è lo psichiatra Ernst Rüdin, che diventerà un convinto nazista e sarà il padre delle leggi sulla sterilizzazione in Germania.

In Nord Europa, i paesi scandinavi si distinguono per l’attuazione delle politiche eugenetiche, che cominciano negli anni Trenta e continuano ininterrottamente fino agli anni Settanta.

Anche in questo caso le disposizioni sulla sterilizzazione dei malati di mente si accompagnano a dispositivi contro gli zingari e contro altre minoranze interne refrattarie all’integrazione.

La civile Svezia, la civile Danimarca, la civile Norvegia, la civile Finlandia convivono per decenni con impianti legislativi che prevedono l’ostracismo, il controllo, la tutela, la sterilizzazione di intere categorie interne a quelle società.

Sono quasi centomila le persone sterilizzate negli Stati Uniti tra gli anni Venti e gli anni Quaranta.

Nei paesi scandinavi il numero è anche maggiore, perché le pratiche continuano per cinquant’anni: se rapportato alla popolazione, l’incidenza dei provvedimenti è molto piú alta che in qualsiasi altro paese.

Le idee all’inizio sono cose da poco, molte restano lí senza andar da nessuna parte. Altre trovano gambe e camminano, fanno strada, a volte arrivano a un bivio e le strade si dividono.

È successo anche all’eugenetica.