Ventiquattro
Le vittime di questa storia non hanno mai avuto voce. Non ho potuto testimoniare al posto delle vittime, ho narrato i passaggi di una storia in una sintesi, senza dilungarmi troppo sui perché, sullo spirito del tempo, sul male, sulla logica dell’eugenetica.
Ho cercato di chiedermi cosa avrei fatto se fossi stato coinvolto, se sarei diventato complice anche io, se mi sarei rassegnato e poi abituato.
Ho coltivato il dubbio che anch’io avrei potuto essere tra loro. Ho usato parole forti, parole sbagliate, sapendo che dopo un po’ le avremmo sopportate per abitudine.
Sarei contento se ogni lettore di questo libro, arrivato qui, prendesse una penna e tornando indietro cancellasse quelle parole e le togliesse dal suo vocabolario. Non basterebbe ancora, ma sarebbe un bel segno.
In questo libro ci sono pagine in cui combatto ancora e pagine in cui sono sconfitto dalle parole.
Ho usato la parola eutanasia perché è cosí che l’eugenetica nazista chiamava l’eliminazione.
Il linguaggio usato nelle autorizzazioni che l’ufficio T4 emanava si fondava sul presupposto che i medici avrebbero già voluto applicarla ai pazienti incurabili ma ne erano impediti dalla legge.
Hitler li autorizzava a farlo, lasciandoli decidere chi avesse diritto di accedere al trattamento che doveva porre fine alla loro vita indegna di essere vissuta.
È tutto fondato sul concetto che l’unico a non poter decidere è il paziente, il malato, il mangiatore inutile che non capisce, che non sa nemmeno di essere al mondo, che è incapace di intendere e di volere.
A tutto questo poi si sommano ragioni diverse, di tipo economico, riguardanti il bilancio dello stato, il costo sociale dei pazienti.
Su questo si è scritta una storia che ho provato a raccontare, ma non voglio eludere il problema.
Eutanasia è una parola che oggi usiamo ancora e fa discutere. Discutere del diritto individuale di porre fine a una sofferenza è diverso da discutere di una teoria che permetta di tagliare fuori chi è improduttivo.
Sull’eutanasia come scelta vorrei dire che alla morte ci penso, cosí mi tengo stretta la vita e non voglio dare confidenza all’idea di averla prolungata quando sarò cosí stanco o malato da non volerne di piú. Ma su quella degli altri, sulle loro scelte non ho niente da commentare.
Mi dà fastidio sentir urlare su questo, mi sembra ovvio che si possa non essere d’accordo e discuterne. Discutere sí, ma con piú rispetto, di qualcosa che vorresti non ti toccasse mai.
Cosí, quando tocca ad altri, è fin troppo facile parlare e stonare. Ci vorrebbe piú vicinanza e un po’ di silenzio.
Non è materia da legislatori. Non si può riformare la morte, né dare regole chiare su dove cominci o finisca la vita. La legge sull’aborto esiste per impedire che l’aborto sia clandestino, ma non conosco nessun medico che sia contento di far abortire. Le leggi sull’eutanasia esistono in alcuni paesi, ma la loro applicazione ha creato gravi problemi perché anche i medici possono giudicare male e sbagliare.
Non c’è una soluzione che ci lasci tranquilli, che possa sistemare le cose una volta per tutte.
Ogni volta che un caso come quello di Piergiorgio Welby o di Eluana Englaro esplode sui giornali il tono diventa ideologico, fanatico, e ci si irrigidisce.
Non può e non deve essere cosí.
Nessuno ragiona davvero sull’onda delle emozioni, e poi ritorna l’oblio e non si è risolto un problema che si riproporrà ad altri, medici o parenti, che avranno di fronte gli stessi interrogativi. Nella maggior parte dei casi essi agiranno o non agiranno nel silenzio, tra dubbi e ripensamenti. Le loro scelte non meritano il cinismo di una strumentalizzazione.
Alessandro Bergonzoni è impegnato da anni in un’associazione che si occupa di pazienti in coma. Lo apprezzo molto per la delicatezza e la forza con cui ha sempre affrontato la questione.
Una sua frase mi è rimasta in testa, esprime un dubbio, non pretende di insegnare, mi turba sempre e recita cosí: «Se sapessimo la sensibilità della rosa non staccheremmo la spina».
Forse recita. Ma lo fa bene.