Tredici

Perché la data falsa sulla lettera di Hitler?

Il 1° settembre ’39 la Germania invade la Polonia.

Difficile pensare che quel giorno il Dittatore avesse tempo di firmare le carte della sua cancelleria.

Ma la campagna polacca è rapida e tra un’invasione e l’altra si trova il tempo per pensare al fronte interno dell’igiene razziale.

Solo che il Dittatore non vuole farlo attraverso una legge, né attraverso il partito in forma ufficiale. Se dovessero sorgere problemi, in nessun modo dev’essere data la colpa al partito.

Un progetto di legge poi sarebbe inopportuno, provocherebbe discussioni in tutti i ministeri.

D’altra parte anche gli uomini coinvolti vogliono avere le spalle coperte. Non vogliono correre il rischio di diventare i capri espiatori di un linciaggio pubblico.

Cosí Hitler cede e dà loro la lettera. Retrodatandola al 1° settembre, la si associa a un provvedimento di guerra. In guerra si sa, le opposizioni contano meno, anche quelle provenienti dalla chiesa.

È una lettera privata su carta intestata personale, non c’è protocollo.

Come chiameremmo noi italiani un documento cosí? Un pizzino. Un pizzino che vale trecentomila vite bruciate.

Ogni suo desiderio è un ordine, signore.

Ma cosí è troppo comodo; troppo semplice. Questa non è un’associazione a delinquere. È un’azienda sanitaria un po’ privata e un po’ statale; ad ammazzare sono chiamati quelli in camice bianco che per mestiere e dovere dovrebbero curare.

Una volta ottenuto il nuovo incarico, gli uomini del secondo ufficio della cancelleria inventano, discutono, decidono, sbagliano, correggono, improvvisano ma organizzano in tre mesi, pezzo per pezzo, un intero processo di produzione. Eppure non sono dei fenomeni.

Viktor Brack ha trentasei anni e un curriculum di tutto rispetto: è stato l’autista di Himmler, e passandoci del tempo insieme è diventato suo amico.

Anche per fare l’autista al capo delle SS e della polizia serve una raccomandazione. Il padre di Brack è il medico della moglie di Himmler.

Brack finisce nella cancelleria privata, e comanda il secondo ufficio. Tra i suoi colleghi alla cancelleria di pari grado c’è il fratello di Bormann.

Himmler prenderà il posto di Frick e Bormann quello di Bouhler. Succederà durante la guerra.

Si fa guerra ai nemici ma tenendo d’occhio gli amici. L’organizzazione per l’eutanasia agli adulti prende forma un pezzo per volta.

Il primo livello a essere organizzato è quello medico: un comitato di periti formato da psichiatri. Lo dirigono prima Werner Heyde e poi Hermann Paul Nitsche (che sono inseriti nel diagramma di Brack); saranno i supervisori del lavoro dei colleghi.

Sotto di loro, una cerchia ristretta di dodici psichiatri di provata fedeltà sarà chiamata a selezionare chi deve essere trattato eseguendo le necessarie perizie.

Il nome di Heyde viene prima degli altri. Ho già detto come sono arrivati a lui: è quello raccomandato dalle SS.

Paul Nitsche è di un’altra generazione: è un uomo dell’Ottocento, è stato uno degli psichiatri riformatori che volevano rendere piú umano il manicomio attraverso il lavoro e l’integrazione sociale dei malati, poi diventa eugenista e la sua clinica di Sonnenstein diventerà uno dei centri di sterminio dei disabili adulti.

Non si può leggere una frase cosí senza fermarsi a pensare che è senza senso, non si può accettare quella virgola e quel poi senza chiedersi perché? Come?

Interrogato in proposito, Michael von Cranach azzarda un’inquietante spiegazione:

Klaus Dörner parla di «morte terapeutica», indicando che i medici agivano per uno slancio terapeutico. Dörner ha sottolineato che molti dei colpevoli erano stati i riformisti della psichiatria degli anni Venti, inizio anni Trenta. Nel loro slancio terapeutico si erano sforzati molto per trattare bene i pazienti ritenuti guaribili o curabili, mentre i pazienti cronici e per i quali le loro cure fallivano venivano uccisi, anche come azione terapeutica, in senso lato.

Ai miei occhi questa teoria viene contraddetta dal modo con cui questi psichiatri hanno ucciso i loro pazienti, l’estrema brutalità del modo con cui furono uccisi e la privazione del valore del paziente. Tutto questo contraddice le teorie che fosse un’azione medica. Non si sente nessuna pietà, nessuna intenzione di voler aiutare (anche se con metodi sbagliati) questi pazienti. Deve essersi aggiunto qualcos’altro. E quando si cerca di capire cos’è questo qualcos’altro ci si imbatte ancora in qualcosa di molto oscuro6.

In ogni caso il professor Nitsche accetta l’incarico di sedersi a una scrivania, di essere il superperito che coordina altri periti sotto di lui per uccidere dei pazienti. È un’autorità e la sua presenza dà prestigio alla Cooperativa del Reich per gli ospedali e case di cura, la Rag, un’altra sigla fantasma: cosí battezzano il gruppo a cui aderiranno anche i dodici psichiatri chiamati a peritare le cartelle cliniche inviate a Berlino da tutte le cliniche e i manicomi dello stato.

Ognuno in quel gruppo si sceglie un nome d’arte per non usare il proprio.

Conosci qualche psichiatra che possa stare con noi? Sí, certo, gli psichiatri rimasti sono ormai quasi tutti con noi.

In una stanza si riuniscono quelli che già ammazzano i bambini, in un’altra quelli che devono cominciare con gli adulti. Solo che gli adulti sono molto piú numerosi dei bambini e sono anche ben conosciuti, hanno famiglia.

Come uccidere un grande numero di civili senza pubblicità, senza rumore, senza provocare contestazioni e disapprovazione?

La soluzione del problema non tocca ai medici, tocca al secondo ufficio della cancelleria.

Non basta averlo sedotto con il cinema e stordito con la propaganda, il popolo non deve deprimersi, o potrebbe cominciare a dubitare.

Perciò si muovono con discrezione e rapidità, agiscono in borghese.

In sei mesi trovano i luoghi, uno lo hanno già requisito e può funzionare, un altro è un ex carcere che con qualche modifica può essere usato per le prove perché è vicino a Berlino. Gli altri vengono cercati, trovati, requisiti uno alla volta e modificati. Sono quasi tutti abbastanza isolati, ma non lontani da strade e ferrovie. A parte la prigione, sono castelli donati alla chiesa oppure a istituzioni benefiche per farne ospizi e ricoveri per malati di mente.

Si chiamano Grafeneck, Brandenburg, Hartheim, Sonnenstein, Bernburg, Hadamar.

Tecnicamente saranno classificati come centri di uccisione. In ognuno di questi entreranno in funzione una camera a gas e un forno crematorio.

A me questi nomi solo tre anni fa non dicevano niente, non erano quelli che sapevo già, non erano Auschwitz, Mauthausen, Belzec, Treblinka, Chelmno, Birkenau, Sobibór, Dachau, Buchenwald e nemmeno la risiera di San Saba.

No, non li conoscevo, come non so a memoria del resto i nomi dei Gulag o dei luoghi di altri eccidi contro dissidenti e oppositori.

Non voglio fare classifiche dell’orrore e della follia dei dittatori e delle loro ideologie. Siamo sempre impreparati davanti a certe storie e diffidenti o prevenuti verso chi ce le vuole raccontare. Non siamo disposti all’indignazione permanente, preferiamo vaccinarci dicendo che in fondo sono tutti uguali, ma basta un uomo, un testimone capace di dare dignità di corpo e di volto a dei numeri e per un po’ diventiamo umani. Basta un viaggio con la scuola a uno di quei luoghi per sentire voglia di capire.

I nomi a volte ci aiutano o ci costringono a pensare e poi a ricordare.

Ricordare è oggi un gesto di educazione, una sfida personale alla dittatura del presente che ci fa tutti informati e distratti, condannati a oblio repentino.

Ricordare ci fa piú solidi in un mondo liquido.

Ricordatevi di Grafeneck, la prima a cominciare, novemilaottocentotrentanove vite trattate.

Ricordatevi di Brandenburg, la prigione, novemilasettecentosettantadue vite trattate.

Ricordatevi di Hartheim, diciottomiladuecentosessantanove vite trattate.

Ricordatevi di Sonnenstein, tredicimilasettecentoventi vite trattate.

Ricordatevi di Bernburg, ottomilaseicentouno vite trattate.

Ricordatevi di Hadamar, diecimilasettantadue vite trattate.

Trattate male.

Nessuna morte pietosa, molta paura, molto inganno.

Ho dato i numeri, scusate due–tre passi indietro.