Mezz’ora più tardi, quando mi ritrovai sul marciapiede, pensai di fare quattro passi. Tirava un vento fresco che mi costrinse ad alzare il bavero della giacca e curvare le spalle. La città sembrava più silenziosa e tranquilla del solito. Mi pareva di sentire nell’aria odore di arrosto. Camminai verso Canal, e ancora a nord, su West Broadway. Per la prima volta da almeno cinque anni passai davanti a Novecento. Mi fermai e mi avvicinai al vetro, mettendo le mani intorno al volto per guardare dentro. Vedevo i fantasmi di Tara e della sua amica e il mio e di Fausto che se ne stavano lì seduti al tavolo e a girare per il locale con i piatti e le ordinazioni in mano. Rosalita Hernández. Chi l’avrebbe mai detto, che eravamo davvero stati così vicini. Mi allontanai dal vetro e per un attimo mi parve di vedere alle mie spalle, nel riflesso di West Broadway, le sagome dei miei amici e mia e di Tara ferme in mezzo alla strada a guardare un immaginario orizzonte. La mattina in cui erano crollate le torri mi trovavo da quelle parti, da una ragazza canadese piena di pensieri strampalati, con cui da qualche settimana provavo scombinatamente ad avere una storia. La prima torre era crollata mentre risalivo Washington Square. Avevo sentito la gente gridare e correre, guardare verso sud coprendosi il volto e la bocca. Io ci avevo messo un po’ a capire cosa stavo osservando: la sagoma di una sola torre immersa nel fumo. Il mondo, così come lo conoscevo, era finito, e ogni angolo del mio corpo me lo raccontava paralizzandosi. La Quinta Avenue, pochi minuti dopo, era già deserta. C’erano uomini e donne in lacrime che parlavano al telefono, altri ammucchiati a gruppi intorno al notiziario di qualche autoradio o davanti alle tivù che qualcuno aveva messo alla finestra. Poi, sparse qua è là, c’erano persone in piedi rivolte a nord. Fissavano l’Empire State Building, in attesa che uno degli aerei rimasti ancora in volo ci si catapultasse contro. Eccoci tutti lì, d’un tratto, io e Greg e Biagio e Tara o Rosalita o come diavolo si chiamava, e forse il resto del mondo: tutti in piedi, spaesati, con le spalle a un passato che ci avevano bombardato, a osservare ciò che restava in attesa di un altro crollo.
Risalii West Broadway fino a Prince Street e svoltai a sinistra, poi infilai a destra e proseguii di nuovo verso nord, su Thompson. Oltre Houston, passai davanti al bar italiano dove qualche anno prima andavo a vedere le ultime gare di Biagio in Superbike, poi davanti ai due chess forum dove mi ero preso delle gran ripassate a scacchi da un ragazzino pieno di tic e un elegante anziano in doppiopetto. La vasca di Washington Square era piena. Pensai di fermarmi qualche istante a sedere sul bordo. Il palazzo all’angolo con la Quinta si specchiava sulla superficie immobile dell’acqua e ogni tanto qualche leggero refolo di vento faceva sfrigolare il riflesso delle luci. Pur di stare da quella parte della vasca e continuare a guardare verso nord mi ero tolto le scarpe, mi ero arrotolato il fondo dei pantaloni e avevo messo i piedi a sguazzo. L’acqua era piuttosto fredda, ma riuscii a farci presto l’abitudine. Un ragazzo di colore mi si avvicinò e mi chiese una sigaretta. Gli dissi che mi dispiaceva, ma non fumavo. Lui annuì e mi disse che facevo bene.
«È una bella notte» disse guardando intorno e in alto.
Si mise lì a sedere sul bordo della vasca e continuò a guardarsi intorno senza dire niente. Aveva un buffo volto rotondo e mi domandai cosa ci facesse in giro a quell’ora. Dopo un paio di minuti mi augurò una buona giornata e con un lungo e profondo respiro proseguì per la sua strada.
Un tassista borbottò che era la sua ultima corsa e il mio indirizzo era troppo lontano, ma alla fine mi portò e mi ringraziò pure per i due dollari in più di mancia. Decisi di prendermi un altro giorno di malattia e di non puntare la sveglia. La mia casetta aveva ancora tutti i segni della valanga di ore passate a cercare conferma delle macchinazioni di Greg: fogli sparsi sul tavolo con maggiore caos del solito, post-it appiccicati dappertutto, bicchieri mezzi pieni. Pareva di sentire l’odore dell’ossessione. Aprii i vetri che davano sulla strada e feci entrare un po’ d’aria. Presi anche un grosso sacco nero e ci buttai dentro tutte le cartacce e gli appunti e i fogliacci che potessero ricordarmi quel pandemonio. Pensai di farmi una doccia, ma alla fine patteggiai per una bella sciacquata, e decisi di ripensarci l’indomani. E infine, tirate tutte le tende e fatto più buio possibile, mi lasciai cadere a peso morto sul letto.
Due giorni più tardi dissi ad Amanda che ero passato per caso da un’agenzia e che avevano delle offerte interessanti per un paio di appartamenti e che saremmo potuti andare a dare un’occhiata. Lei aveva le mani impiastricciate di colore e una fascia arancione in testa. Appena aperta la porta, aveva detto che doveva finire una cosa ed era corsa a balzelli verso lo studio. Quando le dissi degli appartamenti si fermò e mi guardò. Teneva le mani in alto come un chirurgo prima di un’operazione e le sopracciglia aggrottate.
«Come hai detto?»
Sembrava una ragazzina, con quella fascia in testa e quelle mani piene di colore, e ancora una volta mi domandai cosa ci stesse a fare una donna come lei con uno come me.
«Ho detto che ho visto in un’agenzia le foto di una casa che sembra perfetta per noi.»
Lei mi fissò ancora qualche secondo.
«Sei sicuro?»
«Mi sa di sì.»
Le lezioni ripresero di tanto in tanto a divertirmi. Domandai anche a Jerry, il direttore di facoltà, se potevo fare più corsi divulgativi, magari incrociati con altri indirizzi di laurea. Mi mancavano i brevi seminari alla New School, lo sforzo di inventarmi dei modi per spiegare le leggi che governano l’universo a chi non ne sapeva granché, quella leggera luce nei loro occhi quando sembravano finalmente cogliere un concetto fino ad allora impenetrabile. Mi mancava la fatica di trovare le immagini e le parole giuste. Forse mi mancavano le parole e basta. E per quanto le parole non potessero del tutto spiegare quello che studiavo, era pur vero che la prospettiva di quei ragazzi sarebbe da quel momento e per sempre mutata di almeno qualche centesimo di grado.
Ripresi in mano degli appunti di oltre un anno prima, che avevo accantonato per dare sfogo alle mie improvvise e deliranti manie di onniscienza. Erano ancora acerbi, ma avevano qualche aspetto che meritava di essere sviluppato. Ripresi contatto con alcuni ex alunni e tentai di mettere in piedi un gruppo di ricerca. Facemmo un buon lavoro sullo studio della correlazione tra le emissioni di neutrini e le onde gravitazionali nelle supernovae, e fu pure pubblicato. Per festeggiare offrii a tutti delle belle bistecche da Peter Luger.
Alla fine non siamo andati a vivere nella casa di cui avevo visto le foto nell’agenzia. Gira gira, siamo finiti in un’appartamento della Columbia University, sulla Centodiciottesima. Con le agevolazioni dell’università era l’unico modo per avere un posto abbastanza grande per entrambi i nostri studi. Ha anche un piccolo terrazzo, dove prima che venga troppo caldo prendiamo un po’ di sole e riusciamo la sera a fare qualche cena all’aperto. Amanda non era entusiasta, le dispiaceva lasciare Alphabet City e i suoi amici portoricani, ma era sorprendentemente felice di vivere con me. Mi sono detto che infine forse è pure questo: far felice qualcun altro.
Anche i figli della signora Schmidtz credo che fossero molto sollevati: la signora ormai se ne sta da qualche tempo in una casa per anziani nel New Jersey, ma aveva fatto una questione d’onore che io restassi nel bilocale quanto volessi, e al prezzo pattuito all’inizio. Ero stato io, la sera del suo collasso, a portarla all’ospedale. Di tanto in tanto le faccio visita: lei si fa sempre trovare vestita tutta in ghingheri e ben pettinata. Le prime volte mi prendeva a braccetto e mi portava in giro e mi presentava a tutti come il suo giovane ragazzo italiano. Adesso non cammina più tanto bene, e restiamo soprattutto a chiacchierare in camera sua, davanti a una tazza di tè. Io mi porto sempre dietro una fiaschettina di whisky e gliene verso un po’ nella tazza, di nascosto dagli infermieri. Le ho anche insegnato a giocare a briscola.
Di recente è passato da queste parti pure Mathías. Il film di un giovane regista brasiliano che lui ha prodotto era in concorso a un festival, qui a New York. Siamo andati a vederci un concerto degli Allman Brothers al Beacon Theater. Hanno suonato una versione di Mountain Jam di almeno mezz’ora che ci ha fatto venire le lacrime agli occhi. Dopo il concerto abbiamo passeggiato qualche minuto per Columbus e ci siamo infilati in un baretto. Portava una camicia bianca, e una gran criniera già un po’ brizzolata gli calava in parte sugli occhi. Nel frattempo si è sposato e ha messo al mondo un figlio, si è però anche innamorato di un’altra donna e ha lasciato la moglie, che si è fatta comprare una casa e lo tormenta di continuo con le sue responsabilità.
«Sei la parodia di te stesso» gli ho detto.
Lui si è fatto una risata e si è messo le mani nei capelli, poi mi ha guardato e mi ha detto che sembravo diverso. Non pensavo che l’avrei mai fatto, ma gli ho raccontato tutta la storia. Lui mi ascoltava serio, senza dire niente e senza staccarmi gli occhi di dosso. Quando ho finito di raccontare è rimasto un po’ a guardarmi senza dire niente, poi ha preso un sorso dalla sua birra e ha riappoggiato il boccale sul tavolino.
«Buffa bestia, la fortuna» ha detto continuando a fissare il boccale e togliendo un residuo di schiuma dal bordo con la punta del pollice.
Per il resto, alla nostra storia non penso granché. Mi capita però spesso di ripensare alle ultime parole di Greg. Mi trovavo già nell’ascensore. Appena prima che si chiudessero, avevo bloccato le porte con la mano e avevo guardato ancora una volta Greg dritto negli occhi.
«Perché?» avevo domandato.
Non ero del tutto convinto di cosa quel perché significasse, ma non ero riuscito a trattenerlo. Greg mi aveva fissato per qualche istante e aveva sospirato. Pensavo che mi avrebbe mandato a quel paese e fatto richiudere l’ascensore senza aggiungere altro.
«Divertimento, Jacopo» aveva invece detto. «Semplice divertimento. Cos’altro pensi che conti? Credi davvero che ci sia qualcos’altro per cui vale la pena vivere? Alleluia, finalmente ci sei arrivato anche tu: presto o tardi la nostra specie e il nostro beneamato pianeta saranno spazzati via come un granello di sabbia. A dirti la verità, mi auguravo che con tutti i soldi che tre università avevano investito sulla tua persona, riuscissi ad arrivarci un po’ prima, ma insomma meglio tardi che mai. Eppure c’è una cosa che nessuno ci potrà mai togliere, perché si esaurisce nel momento in cui si compie, e prima che chiunque ci possa mettere le mani sopra. Il piacere. Questo ho provato mentre rimettevamo la moto e mentre ce ne stavamo alla Stradaccia e mentre disegnavo e facevo stampare quella cartolina e mentre ti sentivo crescere tra le strade di Glasgow e New York e mentre guardavo Biagio venirsene fuori da quelle curve come un proiettile. Ed ecco cosa provo mentre mi faccio ungere e fare dei massaggi e mentre passo del tempo con Richard. Il piacere, ragazzo. Tutto qui.»
E me l’aveva quasi fatta. Ma sì, mi dicevo nei giorni e nelle settimane seguenti: che altro ci occorre, in effetti? Mandiamo avanti le nostre vite, guardiamo da un’altra parte, e quando il mostro si avvicina troppo, quando sentiamo il calore del suo respiro e la sua ombra che ci avvolge, andiamo a farci un bel massaggio, facciamo l’amore con la nostra donna, andiamo a sentirci un bel concerto. Il piacere. La bellezza. Non potevano metterci a disposizione delle zattere migliori per restare a galla.
Be’, troppo facile, caro Greg. Sei troppo intelligente, troppo disturbato per credere davvero che un paio di massaggi e un concerto possano salvarci dall’abisso su cui galleggiamo. È vero, ce lo eravamo detti: non è la brillantezza delle nostre idee a renderci apparentemente tanto dissimili dagli animali che ci circondano, e forse in effetti la riga la tira proprio il dubbio. Ma perché dubitiamo, Greg? Lo sai anche te: se la risposta a tutte le domande fosse davvero il piacere, o la bellezza, avremmo smesso di interrogarci da un pezzo. Continuiamo a ossessionarci di domande perché non riusciamo e non riusciremo mai a rispondere all’unica che conta. Eccolo il mostro che un giorno l’antenato dell’uomo ha scorto nelle pieghe del mondo. Ecco il burattinaio che giocherella con le nostre giornate. Studiamo l’epopea di quest’ammasso di formiche che chiamiamo genere umano, ammiriamo le sue opere e le sue scoperte, e tutto ciò che osserviamo è la continua, assillante danza di fughe e rincorse con quella bestia di cui scorgiamo l’esistenza ma che non riusciamo mai a inquadrare.
Il terrore e la meraviglia del niente: sarebbe bello raccontare un’altra storia, ma mi sa che è così che va a finire.