Il giorno in cui, a distanza di chissà quante migliaia di chilometri, io e gli altri ci trovammo più vicini, me ne stavo con Trisha nella mansardina che da poche settimane Leonard mi aveva permesso di occupare. La sera in cui l’avevo scoperta lavoravo al Leonard’s Lodge da più di un mese.
Una mattina, percorrendo come ogni giorno Ashton Lane, avevo visto una mano attaccare un foglio all’interno di un vetro. Avevo dunque svoltato a sinistra e imboccato il viottolo e le scalette che portavano all’università, e che ogni volta mi facevano pensare alle scale dell’Esorcista. Dopo qualche passo, mentre il piede poggiava sul primo gradino e venivo superato da un altro studente, mi ero fermato. Ero rimasto imbambolato ai piedi della scaletta poi ero tornato indietro, fino davanti al vetro su cui era stato attaccato il cartello. Help needed, c’era scritto. La porta si era aperta con un leggero scampanellio. Oltre l’ingresso, delle strette scale portavano direttamente al primo piano. Ero stato in quel bar un paio di volte l’anno precedente. Era arredato come la casa disordinata di qualcuno, tappeto e divani rossi, qualche manifesto incorniciato, un calcio balilla e un bancone. Di notte, se non ricordavo male, le luci erano rossastre come i muri: adesso sembrava tutto molto sdrucito. Un signore con dei baffi pendenti da messicano e una camicia da boscaiolo aperta su una maglietta era apparso da una porta dietro il banco di legno scuro del bar e aveva appoggiato una scatola sull’acquaio. Mi aveva gettato un’occhiata e si era messo a estrarre delle bottiglie dalla scatola.
«Allora?» aveva detto dopo un po’.
«Ho visto il cartello, giù all’ingresso.»
Aveva finito di tirare fuori le bottiglie e gettato la scatola da una parte, poi, mentre si accucciava dietro il banco, mi aveva detto qualcosa di incomprensibile.
«Come?»
Lui aveva di nuovo accozzato quella manciata di suoni, ma più lentamente.
«Mi spiace, non capisco.»
Il tipo era riapparso da dietro il banco, aveva appoggiato sull’acquaio le braccia tozze come tronchi e mi aveva fissato. Si era guardato quindi intorno, aveva raccolto una pinta, si era avvicinato alle bocchette della spina e aveva fatto finta di azionarne una.
«Bir-ra. La sai spil-la-re?» aveva sillabato.
«Ah, certo.»
Qualche volta, alla festa di San Filippo, mi era capitato di passare una o due sere alle damigiane del vino e alla spina della birra, riempiendo per ore bicchieri su bicchieri.
«Bene» aveva detto il tipo appoggiando la pinta e risparendo dietro il banco, «sei assunto. Giovedì, venerdì e sabato, dalle sei fino a chiusura. Quattro pound l’ora. Quando scendi toglimi il cartello dalla porta. A giovedì.»
Ero rimasto a guardare la tozza mano del tipo che ogni tanto compariva da dietro il banco ad afferrare una bottiglia.
«Arrivederci allora» avevo detto infine mentre mi voltavo.
«Oh» avevo sentito dire alle mie spalle. Il tipo era ricomparso e aveva allungato una mano. «Sono Leonard.»
Ero tornato indietro e gli avevo stretto bene la mano.
«Jacopo.»
Lui mi aveva fissato e aveva sorriso.
«Italiano?»
«Sì, italiano.»
«Che Dio ce la mandi buona» aveva scosso la testa. «Benvenuto al Leonard’s Lodge, italiano.»
Il lavoro lì da Leonard era parso fin dall’inizio come una di quelle scialuppe arancioni che si vedono sui fianchi delle navi. Non che la borsa di studio me ne facesse sentire granché il bisogno, ma mi mettevo in tasca qualche soldo in più, e almeno uscivo di casa e vedevo qualcuno – se stare dietro alle bocchette della spina a spillare birre per studenti ubriachi si può davvero intendere vedere qualcuno.
L’anno precedente mi avevano sistemato in uno studentato oltre il Kelvingrove Park, dalle parti di Argyle Street, in quello spicchio di città su cui le torri del complesso centrale dell’università troneggiano come un castello medievale. Non che brillassi di socievolezza, ma ero se non altro finito in un appartamento misto e per qualche motivo Mathías, il ragazzo brasiliano dell’ultimo anno che viveva con noi, aveva deciso che ero un tipo interessante. Si presentava di tanto in tanto nella mia stanza e mi chiedeva cosa studiassi. Sembrava molto affascinato dal fatto che io o chiunque altro potessimo trovare un senso in tutti quei numeri e quelle lettere, e diceva sempre che mi invidiava molto. Lo divertivano anche parecchio le storie su San Filippo e sui miei amici giù al paese. Lui si stava per laureare in Sociologia e stava abbozzando una tesi sul microcredito. Qualche volta si affacciava semplicemente alla porta e mi diceva di andare con lui a bere qualcosa.
«Devo finire di studiare.»
«Non rompere le palle, andiamo.»
Poi, mentre uscivamo, dava colpi alle altre porte e gridava anche agli altri di seguirci.
Con noi vivevano una massiccia ragazza danese – Krista – e Ricardo, un bizzarro tipo spagnolo che non usciva mai dalla sua stanza. Krista non studiava all’università. Aveva trovato la stanza lì allo studentato tramite una sua amica che si era fidanzata con un tipo, e ormai viveva sempre da lui. Pare che si fossero accordate per un subaffitto poco più che simbolico e che la cosa andasse molto bene a entrambe. Krista aveva trovato lavoro in un negozio di vestiti in centro. Perché Krista avesse deciso di vivere a Glasgow restava un mistero.
Ricardo non capiva come mai non riuscissimo a rispettare i ripiani del frigorifero. In effetti quasi tutti i miei compagni impiegavano buona parte del proprio tempo libero a lamentarsi della convivenza e della capacità o meno degli altri di rispettare i loro spazi. Si parlava quindi di settori nei mobiletti dei bagni, di divisioni dei ripiani dei frigoriferi e di rimostranze per la passione di questo o quel coinquilino per il pesce o i formaggi stagionati. Tutte cose a me sconosciute. Già dal secondo giorno Mathías era entrato come al solito senza bussare e mi aveva detto che lui e Krista andavano a fare un po’ di spesa e se volevo qualcosa.
«Non saprei, non ci avevo pensato.»
«Dài, molla quei libri e vieni anche tu, così ci facciamo un po’ di scorta.»
Eravamo tornati a casa con sei sacchi di roba e l’avevamo messa come capitava in frigo e nei mobiletti. Quando uno aveva fame, si metteva semplicemente a cucinare e chiamava gli altri. Di solito a cucinare era Mathías, o più spesso ancora Krista, che tra l’altro aveva un gran tocco per la cucina orientale. In un quarto d’ora faceva degli spaghettini di riso al pollo e verdure che erano davvero un capolavoro. Io di solito mi occupavo di lavare i piatti. Avevo trovato anche un discreto garbo per la pomarola e la carbonara, e tutti erano molto felici dei barattoli di ragù che la mamma di tanto in tanto mi spediva dall’Italia. A Ricardo tutta questa promiscuità non tornava granché, e dopo qualche rimostranza avevamo scoperto che si era fatto una piccola dispensa in camera. Il freddo scozzese rendeva il davanzale della finestra un ottimo frigo. Eppure Mathías, ogni volta che uscivamo, continuava a picchiargli sulla porta e avvertirlo. Una sera, mentre ce ne stavamo tutti e tre in cucina a lavare i piatti rimasti nell’acquaio e a finire di preparare qualche pezzo di carne, Ricardo era comparso con le mani lungo i fianchi e lo sguardo fisso sul pavimento.
«Mathías, gradirei che smettessi di bussare continuamente alla mia porta.»
Mathías lo aveva fissato qualche istante senza dire niente, poi si era alzato ed era sparito in camera. Ne era uscito subito dopo con una rivista in mano, l’aveva appoggiata sul petto di Ricardo ed era tornato a sedersi.
«Ricardo, vai a farti una sega, per favore.»
Sulla copertina c’era una gran bionda con le gambe aperte e un bollino in mezzo. Ricardo aveva allontanato la rivista dal petto e l’aveva controllata, poi senza dire altro se l’era portata in camera chiudendosi dietro la porta. Noi ci eravamo guardati e abbozzando una risata avevo stretto la mano a Mathías.
Verso metà dicembre, Mathías aveva deciso di organizzare una festa. Il tema era, ovviamente, il Natale. Ci eravamo quindi ritrovati l’appartamento pieno di Babbi Natale e renne. Due ragazzi si erano pure presentati incastrati in una slitta di plastica bucata. Verso le due, Mathías mi aveva visto seduto sul bancone della cucina con un bicchiere in mano e si era messo lì accanto a me a guardare il viavai di gente. Ci eravamo battuti il bicchiere e avevamo brindato alla festa.
«Sei un bel tipo» aveva detto Mathías fissandomi un attimo.
Avevo riso.
«Anche tu.»
Ci eravamo ribattuti i bicchieri.
«Oh, ma Ricardo?» aveva domandato Mathías.
«Boh, non ne ho idea, sarà in camera meditando il suicidio o una strage.»
Mathías aveva sorriso e mi aveva fissato un attimo soprappensiero, poi aveva alzato la testa e si era guardato intorno alla ricerca di qualcuno. Aveva continuato per un po’ a guardare tra la gente, poi si era messo le mani intorno alla bocca.
«Charlotte!» aveva gridato.
Gli era scappata una risata e aveva aggrappato la manica di un ragazzo con in testa delle corna da renna piene di lucine.
«Oh, mi chiami Charlotte, per favore?» gli aveva detto indicando con il mento alle spalle del tipo.
Il ragazzo con le corna si era voltato, aveva allungato una mano e aveva tirato il braccio di una grossa ragazza dai capelli rossi, che si era voltata a sua volta e lo aveva guardato spazientita. Il tipo le aveva semplicemente indicato Mathías e se ne era andato. La ragazza dai capelli rossi aveva sorriso e si era avviata verso di noi. Un lungo cappello da Babbo Natale le calava fino a metà schiena, era piena di lentiggini, aveva un gran spacco tra i denti davanti, e una camicetta anch’essa rossa e scollacciata mostrava due enormi tette spinte in alto da un reggiseno con il bordo di pizzo.
«Ciao tesoro» aveva detto Charlotte quando era stata più vicina.
«Ciao Charlotte. Ti presento il mio amico Jacopo, vive qui con me.»
«Jocopo?» aveva storpiato il mio nome Charlotte. «E di dov’è?»
«Italiano.»
«Oh, italiano» aveva sorriso Charlotte avvicinandosi e appoggiandosi alla mia gamba. «Ciao, italiano. Bella festa.»
Della birra le traboccava leggermente da un grosso bicchiere di plastica e l’aria era piuttosto ubriaca.
«Senti, Charlotte, abbiamo bisogno di un favore. Cioè, non noi, un altro nostro amico. L’altro che vive qui.»
«E dov’è?»
«Eh, è stata una giornata un po’ dura per lui, ed è di là da solo in camera.»
«In camera? Da solo? E come fa?»
«Che vuoi, è un po’ giù. Tra l’altro è uno molto timido, fa fatica a conoscere gente. Secondo me è pure vergine.»
«Vergine?» aveva domandato lei spingendo in avanti la testa.
«Sì, mi sa di sì. Avrebbe secondo me bisogno di qualcuno che lo consolasse un po’.»
«Ma lo consolo io il vostro amico!» aveva detto Charlotte allargando le braccia e rovesciando della birra.
«Ecco, brava Charlotte» aveva riso Mathías scendendo dal ripiano della cucina e prendendola sottobraccio. L’aveva portata fino davanti alla porta di Ricardo, l’aveva d’un tratto aperta e ci aveva spinto dentro Charlotte. Io e Mathías ci eravamo schiacciati un cinque e non ci avevamo più pensato.
La mattina dopo, verso mezzogiorno, ci eravamo ritrovati in cucina a fare colazione. Eravamo io, Krista e Jane, una ragazza che aveva passato la notte con Mathías. Dopo qualche minuto era comparso anche lui. Aveva i capelli tutti per aria e gli occhi gonfi come panini. Aveva dato un bacio da dietro sulla guancia di Krista e uno sulla testa di Jane, quindi si era messo a sedere. Krista stava preparando una padella di uova strapazzate e del pane arrostito.
«Ti amiamo tutti» aveva detto Mathías a Krista.
Mentre già affondavamo la forchetta nelle uova, dalla porta di Ricardo, facendo attenzione a non fare troppo rumore, era sbucata Charlotte. I ricci capelli rossi le erano esplosi intorno alla testa e con la camicetta rossa e la minigonna e quelle tettone e quelle grosse gambe gonfie pareva la battona di un bordello di periferia. Ci eravamo tutti completamente dimenticati di Charlotte e quando l’avevamo vista sbucare dalla porta di Ricardo eravamo rimasti lì impalati a fissarla, qualcuno a pescare nel piatto, qualcuno addirittura con la forchetta a mezz’aria.
«Alla faccia del verginello, Mathías» aveva detto Charlotte. «Il tuo amico mi ha distrutta.»
Io e Mathías ci eravamo guardati un attimo con le nostre forchette a mezz’asta, poi eravamo scoppiati a ridere sputando pure fuori qualche pezzo di uovo.
Ricardo era stato da quel giorno soprannominato l’Oracolo. Incuriositi dal fatto che pareva accettare tutto ciò che gli veniva offerto, quando cucinavamo avevamo preso a lasciargli davanti alla porta dei piatti o delle scodelle pronte, che mezz’ora dopo ritrovavamo ripuliti.
Un giorno, qualche settimana più tardi, avevo anche provato ad avvicinarmi alla sua stanza per fare conversazione, ma mi aveva semplicemente detto che non aveva tempo per le nostre chiacchiere. Ci eravamo convinti che fosse un essere superiore e alieno, che non potevamo fare a meno di venerare e imbonire di quando in quando con un’offerta.
Andavamo quasi tutte le settimane al Nice & Slazy, un locale seminterrato verso il centro, su Sauchiehall Street. Il lunedì sera facevano open mike: potevi montare sul palco e cantare quello che ti pareva, cover o canzoni tue. In cambio avevi diritto a una birra gratis. Quelli meno capaci avevano il buon cuore di cantare qualcosa di divertente o comunque in maniera ridicola, e ci scappavano sempre due risate. Di solito erano quelli che si prendevano più applausi. Di tutte le volte che ci sono stato nei miei quattro anni a Glasgow, la maggior parte delle quali in quel primo anno con Mathías, non ho mai sentito fischiare nessuno. C’erano un paio di ragazzi molto in gamba che cantavano le loro canzoni e che vedevamo di frequente anche in altri locali. Uno si chiamava Liam, portava degli spessi occhiali e un cesto di capelli crespi con un improbabile ciuffo schiacciato alla meno peggio da una parte. Pareva la caricatura di uno studente del mio dipartimento. Eppure, ogni volta che veniva il suo turno, raccoglieva la chitarra, si metteva a sedere sull’alto panchetto al centro del palco e prendeva a intonare splendide canzoni con un accenno di country, che appiccicato al timbro lieve della sua voce produceva vibrazioni molto particolari. Un altro ragazzo, di cui non ricordo il nome, nascondeva il volto dietro una lunga zazzera liscia e scura, e riusciva a sorprenderci con canzoni sempre diverse. Aspettavamo Liam con l’eccitazione con cui aspetteremmo la canzone di un album che conosciamo a memoria, e il secondo con la curiosità di sapere cosa avrebbe inventato.
Durante le cover, Mathías iniziava a battere le mani prima ancora che i musicisti aprissero la bocca, solo dai primi accordi, e mi diceva il nome del pezzo. Di tanto in tanto mi raccontava qualche retroscena, del dramma di Syd Barrett e del modo in cui il resto del gruppo un giorno lo aveva lasciato a casa, della mattina in cui Paul McCartney si era svegliato con il vago ricordo di aver scritto Yesterday durante la notte, di come Brian Wilson – convinto di aver composto l’album migliore della storia della musica contemporanea – fosse impazzito dopo aver sentito Sgt. Pepper.
Un ragazzo era la fotocopia vocale di Mark Knopfler.
«Viene da qui» aveva detto Mathías una sera, dopo aver applaudito l’attacco di un arpeggio.
«Chi, viene da qui?»
«Il cantante e chitarrista dei Dire Straits.»
«Qui dove?»
«Glasgow. Ci ha vissuto fino a quando aveva sette anni.»
Da allora, tutte le volte che nel corso degli anni mi è capitato di ascoltare i Dire Straits, mi sono sempre stupito: non sono mai riuscito del tutto a digerire il fatto che quei ritmi e quella voce così americani, che parevano raccontare storie di lande desolate del Midwest e feste di paese in campi di granturco, venissero in realtà da quella grigia e fredda città operaia scozzese.
Il poco che so di musica, lo devo a Mathías. Per Natale mi aveva regalato un walkman della Sony, nero e con i tasti meccanici, e mi dava continuamente cassette da ascoltare. Mi mettevo le cuffie sugli orecchi mentre risalivo il Kelvingrove Park verso l’università, con la facciata del Main Building che sembrava guardarmi dritto negli occhi e dirmi di comportarmi bene. Era stato così che avevo imparato ad amare i Black Sabbath, le canzoni meno famose dei Beatles e dei Rolling Stones, Miles Davis, Lou Reed e i Velvet Underground, Tracy Chapman, i Nirvana, gli Iron Butterfly e i Creedence. Era stato là, seduto su una panchina con indosso le cuffie, che le musiche e i testi dei Pink Floyd avevano preso a frugarmi dentro e fissare ossessivamente la mia parte più oscura e tagliente. Nelle giornate fredde e nevose amavo molto ascoltare Joni Mitchell, o i giri di chitarra di J.J. Cale. Se c’era il sole invece nessuno batteva i Grateful Dead, Bertha soprattutto.
Quando alla fine dell’anno, dopo la sua laurea, io e Mathías ci eravamo salutati, lui – con già in spalla il suo semplice zaino – mi aveva lasciato cadere sul letto i suoi tre raccoglitori neri di cassette. Ero rimasto a fissarli con un misto di paura e commozione che non mi sarei aspettato.
«Te le lascio, trattale bene.»
Lo avevo guardato basito.
«Ma sei scemo, tutte? E tu?»
«Io ora ripasso da casa, ho gli originali, me le rifaccio.»
Mi ero alzato dalla sedia, mi ero avvicinato lentamente ai raccoglitori posati sul letto e ne avevo aperto uno. Li conoscevo bene, eppure l’idea che quella fila di cassette – trasparenti, della TDK, con su scritti ordinatamente a mano i nomi dei gruppi e delle canzoni – fosse d’un tratto mia era stupefacente.
«Ma sei sicuro?» avevo domandato ancora mentre alzavo L.A. Woman e me la rigiravo tra le mani.
«Sì» aveva riso Mathías, «sono sicuro. E tu non ti chiudere troppo in camera, l’anno prossimo.»
Gli avevo promesso di no e ci eravamo abbracciati e ci eravamo detti di rivederci presto.
Ed è stata la musica a tenerci sempre in contatto. Di tanto in tanto arrivava al mio indirizzo del momento una cassetta o un cd di questo o quel nuovo gruppo che Mathías aveva conosciuto in giro per il mondo. Già il secondo anno era stato lui a mandarmi la mia prima cassetta dei Pearl Jam, con su scritto “Senti un po’ questi”. Era stato così che avevo conosciuto anche i Nine Inch Nails, i Faith No More, e poi più tardi i Radiohead, Beck, Elliott Smith. Un giorno Mathías mi aveva chiamato da un luogo sperduto tra il Brasile e il Perù: aveva detto di aver visto una buffa scimmia e che gli ero venuto in mente.
«Vaffanculo» avevo riso.
C’era un gran frastuono in sottofondo, ma eravamo riusciti comunque a fare due chiacchiere. Gli avevo chiesto se aveva sentito questi nuovi Wilco.
«Guardalo adesso, come cammina con le sue gambe» aveva detto lui con un sorriso a filo delle parole.
Poi aveva gridato che doveva andare a prendere un elicottero e aveva attaccato.
Solo mesi dopo avrei scoperto che Mathías in quel momento si trovava al confine tra Perù e Brasile per girare un documentario su una tribù amazzonica appena scoperta e seriamente minacciata dall’industria mineraria dello Stato brasiliano di Acre. C’era sempre stato qualcosa, in Mathías, che finché vivevamo insieme non ero mai riuscito del tutto a comprendere. Nell’anno in cui avevamo condiviso l’appartamento a Glasgow, i segnali erano apparsi come semplici bizzarrie: una certa incuria per la sua persona, il fatto stesso di vivere l’ultimo anno in uno squallido studentato. Anche nient’altro che la scelta, da brasiliano, di un’università scozzese. Solo anni dopo, quando avevo imparato a conoscere meglio la sua storia e il mondo, avevo d’un tratto capito da cos’era che Mathías cercava con tutto se stesso di scappare: dalla fortuna.
Sì, strada facendo Mathías era stato roso dal tarlo dell’autenticità. Era il figlio di un banchiere di San Paolo, ed essere il figlio di un banchiere di San Paolo significava abitare in ville con guardie armate e filo spinato sui muri e girare con gorilla e macchine blindate. Mathías avrebbe potuto avere tutto ciò che voleva, dalla vita; o se non altro dalla vita lì in Brasile. Eppure, da un certo momento in poi, si era convinto che tutto ciò che avrebbe ottenuto non sarebbe mai stato davvero suo. Ecco quindi il perché di un’università scozzese: c’era qualcosa di più lontano dalle spiagge brasiliane con i suoi bikini striminziti? Ed ecco anche quella sua affettata trasandatezza, quel suo bisogno di essere sempre così sdrucito, quel suo semplice zaino, quei suoi tagli di capelli sempre improbabili e poi da un certo momento in poi quella sua testa quasi completamente rasata.
La vita però è maliziosa, e ovviamente tutto questo faceva di lui un personaggio ancora più attraente, e di conseguenza gli faceva sentire puzzo di retorica a ogni piè sospinto. Ovunque scappasse, Mathías era braccato dalla consapevolezza che in qualche modo riusciva sempre a essere affascinante, e per motivi indipendenti dalla sua volontà. Era affascinante suo malgrado, e queste due semplici parole gli avevano incrinato l’esistenza.
Era per questo che aveva preso a girare documentari. Dopo l’università aveva lavorato per diverse organizzazioni umanitarie in giro per il mondo, sempre alla ricerca di una tregua con il suo passato. Era stato in villaggi africani e periferie del Sudamerica e in zone terremotate dell’India e dell’Indonesia, fino a quando, in Sudan, un giovane chirurgo di Medici Senza Frontiere non aveva dimenticato una vecchia Arriflex sedici millimetri e una manciata di bobine, con cui Mathías aveva per divertimento raccolto immagini della costruzione di un pozzo. Finito il progetto, era quindi passato a trovare un suo amico a Londra e aveva deciso di sviluppare le bobine, convinto che sarebbe stata tutta roba da buttare. Il centro di stampa gli aveva messo a disposizione una stanza e un proiettore per vedere i film. Un signore magro e dalla pelle grigiastra gli aveva spiegato come passare la pellicola nelle serpentine del proiettore e lo aveva lasciato solo, al buio della piccola stanza. Tranne qualche scena, la luce e il fuoco di buona parte delle inquadrature erano corretti e Mathías si era trovato imbambolato come un ragazzino a osservare le immagini silenziose e in bianco e nero di quei giovani africani e quei volontari che faticavano e sorridevano e qualche volta facevano scenette davanti all’obiettivo. L’audio non c’era e quasi in ogni scena Mathías immaginava un sottofondo musicale: qui il Preludio al Te Deum di Charpentier, qui Money dei Pink Floyd, qui un lungo tratto di Jessica degli Allman Brothers. Mentre passava da una bobina all’altra e quel fascio tremolante di luce proiettava le sue immagini granulose e silenziose sullo schermo, Mathías si era reso conto di iniziare ad ammirare un quadro più ampio. Una volta fuori dalla stanzetta con il proiettore, il tipo magro e con la pelle grigia gli aveva chiesto come fossero i film.
«Belli» aveva detto Mathías soprappensiero, poi aveva ringraziato e si era avviato verso l’uscita. Quando già stava appoggiando la mano sulla maniglia della porta, si era voltato ed era tornato indietro.
«Senta, ma se uno volesse montare questo materiale in un unico film, come potrebbe fare?»
«Un’unica bobina?»
«Sì.»
«Se vuoi te lo possiamo fare noi.»
Mathías aveva guardato ancora un momento il tipo, poi aveva abbassato lo sguardo e raccolto dal banco una mezza matita spuntata.
«Ma se uno volesse tagliare qualche scena, eliminarne altre e via di seguito?»
«Un montaggio.»
«Sì, un montaggio.»
«Be’, o ti trovi un montatore con cui lavorare o impari a usare una moviola e te lo monti da solo.»
«E chi ce l’ha, una moviola?»
«Se vuoi ce l’abbiamo anche noi. Ti possiamo affittare la stanza a ore.»
«E l’audio?»
«Questi film non hanno audio.»
«Sì, lo so, ma se uno ce lo volesse mettere?»
«È un po’ complicato. Devi fare una pista magnetica a parte e o le tieni separate e le sincronizzi ogni volta che proietti il film o riversi tutto su supersedici e ci aggiungi la pista audio.»
«È difficile?»
«Difficile... più che altro costoso.»
Mathías si era quindi fermato a Londra. Junior, il suo amico, gli aveva detto ridendo che se non rompeva troppo le scatole poteva dormirgli in salotto quanto voleva. Mathías aveva trovato lavoro in un ristorante caraibico dietro casa, e ogni spicciolo che metteva da parte lo investiva in ore di affitto della moviola. Era una vecchia Steenbeck azzurrina con sei piastre. Il tipo magro e dalla pelle grigiastra del Dolly Film, Marlow, gli aveva spiegato come passare la pellicola nella macchina e come segnare i punti da tagliare con un pastello giallo di cera.
«Devi fare molta attenzione» gli aveva detto, «questi film sono sviluppati direttamente in positivo. Sono l’unica copia che hai, se fai casino butti via tutto. Pensaci bene prima di tagliare.»
Gli aveva poi dato un rotolo di nastro trasparente bucherellato e mostrato una macchinetta nera di metallo con le sedi per la pellicola e un taglierino a molla. Gli aveva spiegato come tagliare la pellicola e applicare il nastro bucherellato per unire gli estremi.
«Le scene che tagli, marcale con un pezzetto di nastro bianco e un titolo o con un numero e attaccale qui» aveva detto Marlow tirandosi vicino un buffo carrello che assomigliava a un attaccapanni da guardaroba con sotto un cestino da lavanderia in tela. Saldati al montante orizzontale, in alto, c’erano decine di piccoli uncini di metallo, a cui poter appendere, attraverso uno dei forellini, i ritagli di pellicola.
Mathías aveva dunque preso a passare tutto il suo tempo libero al buio della moviola, e diversi anni dopo mi avrebbe confessato che forse, di tutta la sua vita, quello era stato il periodo più sano e impeccabile. Stava ore e ore da solo a guardare e riguardare le sue scene, cercando il fotogramma giusto in cui tagliarle e immaginando le musiche da poterci inserire. Preso dall’entusiasmo, aveva poi sentito anche il bisogno di filmare delle nuove immagini in giro per la città: acqua che scorreva, pozzanghere, luci, viavai di gente, neon, traffico, spazzatura... in un paio di occasioni aveva deciso di usare pure della pellicola a colori. Dettagli apparentemente inutili che però, in qualche punto del film, avrebbero poi scatenato un imprevisto e molto efficace straniamento. Quando mi aveva parlato di quell’idea, devo confessare che mi era parsa piuttosto leziosa, una di quelle trovate pretestuose da festival del cinema che mi avevano sempre lasciato perplesso e con in bocca un gran sapore sintetico. Eppure, quando poi mi ero trovato a vedere il nastro del documentario, mi ero sorpreso a dover ammettere che funzionavano e, per quanto non riuscissi a spiegarmi perché, sapevo che senza sarebbe stato tutto più debole e sciatto. Aveva chiamato il documentario semplicemente Water e una volta finito aveva trascinato Junior a vederlo. Quando avevano riacceso le luci, Junior si era voltato verso Mathías e gli aveva detto che era un capolavoro.
«Dici?»
«Dovresti mandarlo a qualche concorso.»
«Anche secondo me» aveva detto Marlow, appoggiato all’ingresso della sala di proiezione.
«Davvero?»
«Sì, davvero.»
Avevano quindi stampato una decina di copie del documentario e l’avevano mandato a qualche festival. Il film aveva fatto un certo scalpore e aveva pure vinto qualche premio, uno dei quali in Brasile. Solo anni dopo, mentre in una grande macchina nera andavamo verso un ristorante in cima a un grattacielo di San Paolo, Mathías mi avrebbe detto con aria malinconica che in verità avrebbe voluto essere uno di quei registi ombrosi e schivi, continuare a girare i suoi sedici millimetri e stare ore al buio a montarli su una vecchia Steenbeck. Nel frattempo era diventato un regista piuttosto famoso ed era entrato in società con il suo produttore.
Avevo osservato qualche secondo quei suoi occhi persi sulle auto che sfilavano fuori del finestrino. Già da un pezzo i miei studi sulle radiazioni cosmiche e sui possibili destini dell’universo mi avevano reso piuttosto cinico e schietto.
«Mavaffanculo» gli avevo detto, e lui per fortuna si era sparato una risata.