Quando avevamo scollinato, Biagio aveva tirato un’inchiodata come se ci fosse passato davanti un animale. La gomma posteriore aveva scricchiolato per almeno venti metri e la Vespa si era pure leggermente intraversata.

Sotto di noi, sulla sinistra, oltre un alto muro di cemento e una spessa rete metallica, scendeva una lunga curva, con delle strisce gialle e rosse all’interno e in un paio di punti dell’esterno. Si vedeva in lontananza qualche altro pezzo di pista e più in basso una lunga costruzione squadrata e colorata. In fondo alla nostra strada, nella conca, c’era una gigantesca entrata, coperta da un immenso tetto di legno.

Dopo qualche secondo avevamo visto salire lungo la curva, dietro la rete, una cosa scura che urlava come una iena e andava come un proiettile.

«Cos’era, una moto?» avevo domandato con un sorriso sulle labbra quando quella cosa era risparita dietro il muro.

Biagio continuava a fissare il punto da cui era sparita.

«Boh. Mi sa di sì.»

Eravamo restati qualche momento a guardare quei pezzi di serpente nero che ci stavano davanti, mezzi nascosti dal muro.

«Mah» aveva detto infine Biagio, poi aveva rimesso la prima ed era sceso lentamente verso la grande entrata con il tetto di legno.

C’era un casottino quadrato, da cui era sbucato un tipo alto e snello con una radio in mano.

«È chiuso» aveva detto il tipo mettendoci davanti una mano.

«Come “è chiuso”?»

«Eh» aveva detto il tipo spingendo avanti il mento. «È chiuso.»

«E lei che ci fa?»

Il tipo ci aveva fissati spazientito.

«Sto qui a dire che è chiuso.»

«Ma non sembra chiuso.»

«È chiuso al pubblico.»

«Ah» aveva detto Biagio. «Boh. Noi cerchiamo un posto dove provano le moto.»

«Qui stanno provando delle moto.»

«Allora non è chiuso.»

«Sentite, che volete?»

«Vogliamo provare una moto.»

«Ho detto che è chiuso.»

«Ma non ha detto che stanno provando delle moto?» aveva detto Biagio, incassando appena la testa nelle spalle e allargando le braccia.

«Sì, infatti, stanno provando delle moto.»

«Eh.»

«Eh.»

«Boh. Non ci capisco niente. Ci parli te per piacere?» aveva detto poi Biagio voltando appena la testa verso di me.

«Senta» avevo detto io, «siamo arrivati da molto lontano perché un signore ci ha detto di venire oggi a provare una moto al Mugello, e l’unico posto dove ci hanno detto che provano le moto è questo.»

«Sì, qui provano le moto.»

«Allora a posto.»

«Mica tanto.»

«Perché?»

«Non sono prove al pubblico.»

Biagio si era messo le mani tra i capelli.

«Cazzo, sto impazzendo.»

«Ma se un signore ci ha detto di venire...»

«E chi era questo signore?»

«Che ne so? Era un signore con l’impermeabile e il cappello. Non mi ricordo come si chiama.» Poi mi era venuta l’illuminazione. «Ci ha dato un biglietto!» mi ero eccitato. «Oh» avevo picchiato sulla spalla di Biagio, «dagli il biglietto.»

Biagio aveva preso a cacciarsi le mani in tutte le tasche, poi finalmente se ne era venuto fuori con il cartoncino che gli aveva dato quel signore alla Stradaccia. Era tutto spiegazzato.

Il custode alto e snello che ci stava davanti aveva preso il biglietto e lo aveva guardato. Le sue mani erano piuttosto buffe: secche e nodose. Aveva alzato gli occhi e ci aveva fissati, poi aveva sollevato l’altro braccio e avvicinato la radio alla bocca.

«Oh.»

«Dimmi» aveva gracchiato la radio dopo un attimo.

«Qui all’ingresso ci sono due ragazzi con un biglietto del Team Torcini.»

«E allora?»

«E allora dicono di essere stati invitati a provare una moto.»

La radio era rimasta qualche secondo in silenzio.

«Vado a sentire» aveva infine gracchiato.

Il tipo aveva riabbassato il braccio e aveva reso il biglietto a Biagio.

«Vanno a sentire.»

Noi avevamo annuito senza dire niente, e Biagio aveva fatto risparire il biglietto in tasca. Eravamo rimasti così diversi minuti, fermi e senza dire niente, ognuno a guardare in un punto diverso.

«Oh» aveva gracchiato la radio dopo un altro po’.

«Sì» aveva detto il tipo dopo essersela avvicinata alla bocca.

«Fai passare.»

«Bene» aveva detto il tipo, poi ci aveva guardati e si era spostato da una parte. «Prego» aveva detto ancora, «box sedici.»

Biagio aveva dato un colpo secco alla pedivella e rimesso in moto la Vespa.

«Come?»

«Box sedici.»

«Ah» aveva detto Biagio. «Grazie.» Poi aveva infilato la prima ed era partito.

Dopo qualche centinaio di metri, superato un sottopassaggio, si stendeva una recinzione di ferro rosso con delle enormi aperture. Dietro la recinzione, sulla sinistra, c’era una lunga costruzione squadrata gialla e rossa. Davanti alla costruzione si apriva un gigantesco parcheggio con qualche camion pieno di scritte e qualche furgone. Eravamo entrati pian piano in una delle aperture della recinzione. In tutti quegli spazi il rumore della Vespa pareva affogare. Dopo qualche metro avevamo visto sbucare da dietro uno dei camion un ragazzo con indosso una camicia con gli stessi colori e scritte del rimorchio, ma in piccolo.

«Scusa?» avevo gridato al ragazzo quando ci eravamo fatti più vicini.

Biagio aveva fermato la Vespa e aveva poggiato un piede per terra. «Sai dov’è il box sedici?»

Il ragazzo aveva guardato noi e la nostra Vespa, poi aveva sorriso e scosso la testa.

«Cinquanta metri sulla sinistra. Lo vedi, c’è il numero» aveva detto mentre già proseguiva verso la costruzione squadrata.

Avevo guardato bene la costruzione: in effetti ogni manciata di metri si aprivano delle immense serrande rosse con sopra scritti dei numeri in ordine crescente.

«Ah» avevo detto, «grazie.»

Poi Biagio aveva rimesso la prima e a passo d’uomo, cercando di non guardare negli altri androni, eravamo andati verso il numero sedici. Sembrava intimorito e lo conoscevo abbastanza per sapere che si stava domandando cosa diavolo ci stesse a fare, in quel posto pieno di scritte e colori dove sembrava tutto finto.

Adesso non posso evitare di chiedermi se Biagio non avesse capito qualcosa: se in qualche modo le cellule del suo corpo non avessero già intuito di trovarsi davanti a uno di quei momenti in cui la vita può prendere una piega inattesa per cui poi rischi di perdere il controllo. Non so se ho mai ben capito come vanno queste cose, ma è come se, mentre dentro i tuoi abitanti ti tirano da una parte all’altra, finisce che pur di non prendere una decisione ti lasci trascinare dal mondo. Poi capita sempre che ti ritrovi tra capo e collo qualcosa che non ti aspettavi, e ti domandi se in fin dei conti sia vero che il mondo la sa più lunga di te.

Arrivati al numero sedici, Biagio aveva fermato la Vespa proprio lì davanti e aveva messo un piede in terra. Dopo qualche istante, dalla penombra dell’androne era apparso il signore che era venuto alla Stradaccia. Non aveva indosso né l’impermeabile né il cappello, ma una semplice camicia. Aveva i capelli corti e tirati indietro, grigiastri, e i baffi senza la penombra del cappello apparivano parecchio più ingombranti.

«Sei venuto» aveva detto poi con un mezzo sorriso quando ci eravamo fatti più vicini.

«Sì» aveva detto Biagio, «sono venuto.»

«Con questa?» aveva domandato il signore mettendo una mano sulla frizione della Vespa.

«Sì, con questa.»

Il signore si era fatto una risata e aveva scosso la testa.

«Vabbè, mettetela da una parte e vediamo se si combina qualcosa.»

Nell’androne un sacco di meccanici vestiti di giallo e nero e con indosso un sacco di scritte lavoravano come forsennati intorno a tre moto tirate in alto su dei ponti idraulici. Non le avevo mai viste moto così: erano tutte lucide e pulite e brillanti. Sembrava che non fossero nemmeno mai state accese. Ricordo che mi ero domandato se camminavano davvero o fossero lì per bellezza. Sulle gomme delle moto c’erano delle buffe coperture di stoffa attaccate a un filo elettrico. I meccanici se ne andavano avanti e indietro con in mano una chiave o anche solo una vite. C’era qualcuno che controllava dei fogli e parlava spesso in una radio. Accanto a un tavolo, un po’ in disparte, c’erano due ragazzi con le stesse magliette gialle e nere che segnavano qualcosa su dei grossi blocchi.

Il signore che ci aveva invitati aveva chiamato una ragazza e le aveva detto di guardare se trovavano una tuta e un po’ di abbigliamento giusto per Biagio. La ragazza aveva preso Biagio sottobraccio, aveva detto sorridendo «ma certo» e se lo era portato via. Mentre se ne andava verso il camion, Biagio si era voltato a guardarmi e aveva abbassato gli angoli della bocca, poi era sparito fuori. Il signore mi aveva detto di fare come se fossi a casa mia e di guardarmi pure intorno e mi aveva chiesto se volevo qualcosa da bere o da mangiare.

«Eh» avevo detto, «magari qualcosina.»

Il signore aveva chiamato un’altra ragazza e le aveva detto di darmi qualcosa. Lei aveva dei gran capelli rossi e gli occhi azzurri, ed era una delle poche a non indossare i colori e le magliette di tutti gli altri.

«Vieni» mi aveva detto. «Di cosa hai voglia?»

“Di tante cose” avrei voluto dirle, ma alla fine avevo ripiegato sul buon vecchio caffè. Avevano anche dei biscotti ripieni di mele e di pasta di fichi che erano davvero la fine del mondo.

All’inizio non l’avevo visto, ma in un angolo sedeva un ragazzo che pareva addirittura più giovane di noi. Era stretto in una tuta di pelle, anche quella gialla e nera e piena di scritte. Parlottava con un tipo che gli stava accanto mezzo di sghimbescio. Il ragazzo succhiava continuamente qualcosa dalla cannuccia di un grosso bicchierone. Quando si era accorto che lo guardavo, aveva alzato appena le sopracciglia e dato un piccolo scatto con la testa per salutarmi.

La ragazza con i capelli rossi mi aveva detto che doveva occuparsi di un paio di cose, e che potevo prendere tutto quello che volevo e fare davvero come se fossi a casa mia. Faticavo ad associare tutto quel viavai e quei colori e quell’elettricità con il silenzio del soggiorno dei miei, ma avevo comunque ringraziato e raccolto un altro paio di quei deliziosi biscotti alla pasta di fichi, poi mi ero reso conto di essere a pezzi e mi ero andato a posare su una sedia di tela. Tutti continuavano a lavorare sulle moto, e una di quelle con le coperte sulle gomme era stata abbassata dal ponte e avvicinata all’altra uscita del box. Oltre l’androne, dietro un muro, ogni tanto si sentivano sfrecciare gran ruggiti e strilli di motori. Avevo pensato per un attimo di andare a vedere cosa succedeva, ma poi mi ero detto di fare le cose un po’ con calma, e me ne ero rimasto tranquillo sulla sedia. Avevo visto il signore con i baffi chiamare uno dei meccanici e mentre mi indicava dirgli che eravamo arrivati da un posto sperso nelle campagne con un trabiccolo che stava fuori dai box. Aveva aggiunto di dargli una bella occhiata prima che ripartissimo, che non ci voleva sulla coscienza. Poi si era avvicinato e mi aveva chiesto di chi era la Vespa.

«Di un amico.»

«E ve l’ha data per venire fin quaggiù?»

«Non lo sa che siamo quaggiù.»

«Ah» aveva detto il tipo. «Buona idea.»

Quando Biagio era ricomparso, non avevo potuto fare a meno di abbozzare una risata. Non pareva manco più lui. Aveva indosso una tuta stretta come quella del ragazzo seduto nell’angolo, che lo faceva stare tutto gobbo e con le gambe storte.

«Sembra fatta per lui» aveva detto la ragazza al signore con i baffi.

«Ottimo» aveva detto quello mettendo una mano sulla spalla di Biagio.

Biagio mi guardava con aria perplessa e pure un po’ scocciata.

«Ma come cammini?» gli avevo chiesto sorridendo.

«Che ne so» aveva detto Biagio allargando un po’ le braccia. «Mi tira dappertutto.»

Il tipo con i baffi aveva sorriso e aveva mollato a Biagio una pacca.

«Quando sei sopra non te ne accorgi nemmeno. Vediamo come va con il casco.»

Il tipo aveva preso dalle mani della ragazza un grosso casco tutto nuovo di pacca e aveva detto a Biagio di infilarlo. Quando Biagio lo aveva calzato, il tipo aveva guardato con attenzione che gli stesse bene e, afferrandolo per la mentoniera, aveva provato a smuoverlo. Biagio aveva barcollato avanti e indietro come un pupazzo.

«Perfetto» aveva detto il tipo mentre aggiustava la fettuccia sotto il collo di Biagio. Poi se lo era tirato dietro verso la moto che era appena stata smontata dal ponte. «Allora, te vai tranquillo e guida come ti viene. Non pensare ad andare forte, pensa solo a guidare e prendere confidenza con la moto. Sarà diverso, magari ti sembrerà strano, ma vai avanti e gira, abbiamo tempo e benzina. Cerca di capire bene il percorso. È una pista tosta questa, vacci piano. Per ora usa solo terza e quarta, tira la sesta solo sul rettilineo. Poi casomai vediamo.»

Quando Biagio e il tipo si erano trovati vicini alla moto, uno dei meccanici ci era montato sopra e, spinto da un altro, aveva fatto qualche metro avanti per accenderla. La moto aveva strillato e fatto una gran fumata azzurra. Mentre tornava vicino al tipo e a Biagio, il meccanico che ci era salito sopra continuava a dare delle gran manciate di gas e a guardare qualcosa sul fianco del motore.

Il tipo continuava a parlare a Biagio, ma non sentivo più quello che diceva. Faceva il gesto di mettere le mani sul manubrio, piegava braccia e gambe, si spostava come se stesse guidando. Poi aveva allargato una mano e invitato Biagio a salire. Biagio aveva appoggiato la mano sinistra sul manubrio e, appena prima di alzare la gamba e montare, si era voltato per guardarmi. Era molto serio. Io avevo sorriso e annuito e alzato il pollice. Lui mi aveva fissato un altro secondo, poi aveva annuito anche lui, mi aveva gettato un abbozzo di sorriso poco convinto ed era montato in sella. Lo spazio di uno sguardo: se solo ci preparassero a questo genere di cose, la vita sarebbe tutta diversa.

Mentre Biagio continuava a dare colpetti di gas, il meccanico che aveva acceso la moto si era sporto sul quadro per vedere che fosse tutto a posto, poi aveva messo una mano sulla gomma posteriore e aveva fatto segno che andava bene.

Il tipo con i baffi si era piegato accanto alla testa di Biagio e gli aveva detto ancora qualcosa. Biagio aveva di nuovo annuito, poi il tipo si era tirato dritto e gli aveva mollato due leggere pacche sulla schiena. Il piede di Biagio si era alzato e aveva infilato la prima. Il tipo aveva sorriso e gli aveva dato un’altra pacca, poi lo avevamo guardato andarsene in quella leggera nuvola di fumo azzurro.

Il tipo si era voltato e mi aveva sorriso.

«Se vuoi puoi andare qui sopra, sul tetto. Si vede meglio.»

Dal tetto della costruzione si vedeva tutto il rettilineo: compariva in fondo sulla sinistra e saliva su sulla destra, verso uno scollino. Mentre saliva piegava leggermente e in fondo sembrava arrampicarsi in una specie di tornante. Avevo visto Biagio passare un paio di volte. Mi scorreva sotto piegato sulla moto, che in mezzo a tutto quell’asfalto pareva quasi sparire.

Il tipo con i baffi stava affacciato al muretto con un cronometro in mano. Se ne stava lì con i gomiti appoggiati al cemento e guardava le moto passare. Quando Biagio gli sfrecciava davanti dava un impercettibile scatto con la mano, poi la alzava per controllare il cronometro e la riabbassava. Dopo qualche giro, uno dei ragazzi con le magliette piene di scritte gli si era avvicinato con in mano un attrezzo quadrato e nero. Il tipo con i baffi aveva guardato il ragazzo e l’attrezzo, poi avevano parlato un momento e il ragazzo se ne era tornato nel box.

Un giro più tardi il tipo aveva fatto cenno a Biagio di rientrare. Lo avevo visto uscire dalla pista e rallentare sotto di me. Appena arrivato, il tipo con i baffi gli si era chinato accanto. Avevano parlottato per un po’, poi quello gli aveva mimato altri movimenti e lo aveva guardato ripartire. Dopo un altro paio di giri, il tipo aveva fermato il cronometro proprio mentre il ragazzo di prima gli si avvicinava alle spalle. Avevano guardato insieme il tempo, poi il ragazzo aveva di nuovo sollevato quello strumento quadrato e lo aveva mostrato al tipo con i baffi. Il tipo ci aveva messo una mano sopra come per parare la luce e si era chinato per vedere meglio. Era rimasto fermo così per diversi secondi, forse un minuto, poi si era di nuovo tirato dritto, e dopo aver detto qualcosa al ragazzo si era rimesso con le mani sul muretto.

Aveva di nuovo fatto rientrare Biagio. Questa volta però lo aveva fatto scendere e levarsi il casco e bere un po’ d’acqua. Biagio era tutto sudato, ma aveva l’aria tranquilla, e la tuta adesso sembrava meno ridicola. Dopo qualche minuto il tipo lo aveva fatto rimontare in sella e lo aveva guardato allontanarsi.

Me lo ero sentito comparire di fianco poco più tardi. Si era avvicinato in silenzio e aveva poggiato con me i gomiti sul muretto.

«Tutto a posto?» aveva domandato.

Io gli avevo gettato un’altra occhiata.

«Eh» avevo detto, «non c’è male. Lei?»

Il tipo aveva sorriso.

«Eh» aveva detto anche lui, «non c’è male.»

Dopo una manciata di secondi ci era passato sotto Biagio.

«E lui, come va?»

Il tipo aveva guardato Biagio che spariva nello scollino in fondo al rettilineo.

«Non c’è male» aveva detto dondolando un po’ la testa. Non sembrava molto convinto.

Io avevo annuito e non avevo detto niente. Non sapevo che dire.

«Che tipo è?» mi aveva domandato lui dopo un po’.

Ci avevo pensato un attimo.

«Mah. Silenzioso direi.»

Poi ci eravamo rimessi a guardare giù senza dire nulla. Erano passate le moto di altri due team, e anche il ragazzo che prima sedeva nel box e succhiava da quel gran bicchierone. Il tipo con i baffi aveva guardato un altro paio di volte il cronometro, poi si era tirato in piedi e si era messo a fissare l’uscita della curva prima del rettilineo.

D’un tratto, dal grande piazzale alla sinistra del circuito, si era accesa una sirena ed era partita un’ambulanza.

«Merda» aveva detto il tipo mentre correva verso le scale.