La voce aveva preso a rimbalzare tra i muri del liceo come un mormorio clandestino. Era girata talmente rapida che nell’arco di appena tre quarti d’ora, dopo la ricreazione, mi era tornata dalla parte opposta di dove io stesso l’avevo lanciata.

Dopo quasi due ore di lezione, mentre il professor Torello tentava vanamente con il suo accento calabro di attirare la nostra attenzione sulle meraviglie del Rinascimento, non avevo più resistito: mi ero allungato appena sulla destra e continuando a far finta di ascoltare avevo semplicemente bisbigliato:

«Hanno asfaltato la Stradaccia.»

Antonio, detto Tonino, il figlio sempre pulito e bene ordinato di un avvocato che una volta aveva risolto una bega di mio babbo per un incidente, aveva alzato la testa dal quaderno su cui stava prendendo appunti e aggrottato appena la fronte.

«Eh?» aveva bisbigliato.

Io mi ero di nuovo spostato verso di lui, con la schiena bene appoggiata alla sedia e le gambe stese in avanti.

«Hanno asfaltato la Stradaccia» avevo detto ancora, con un mezzo sorriso compiaciuto da film.

Tonino aveva continuato a prendere appunti.

«Ah.»

Io lo avevo guardato scuotendo la testa, con lo stesso disprezzo che avrei provato se gli avessi detto che la Giulia Morelli quel pomeriggio l’avrebbe fatta vedere a tutti. La Giulia Morelli era la figlia bionda e dagli occhi verdi di un orologiaio, comparsa a scuola appena un anno prima e risparita l’anno successivo per andarsene in collegio all’estero, una ragazza alta e generosa che aveva in quel breve tempo sollazzato diversi giovani e sul cui ricordo e sulle cui storie ci saremmo tutti toccati per anni.

All’intervallo io, Biagio e Greg ce ne eravamo stati soprattutto in disparte, a ragionare bene sul da farsi. Ci pareva che tutti ci guardassero in modo strano, e – pur senza dircelo – eravamo convinti che quegli sguardi fossero il preludio a un grande e imminente futuro.

A Greg lo avevamo detto appena arrivati, all’entrata. Ogni giorno, anche dopo anni, scendere verso Posta per andare a scuola aveva il frustrante sapore della sconfitta. Il momento più amaro era stato quasi sei anni prima, la mattina del primo giorno di quinta elementare. L’anno precedente, in Comune, si erano convinti che non valesse la pena ristrutturare le vecchie scuole di San Filippo e avevano deciso di accorparle a quelle di Posta. Quella prima mattina, mentre i nostri occhi scorrevano le fronde dei tigli sulla strada che scendeva a Posta, capivamo nostro malgrado e inconsapevolmente quali sinistri inghippi nascondesse la parola modernità. E per quanto fossero passati anni, e per quanto molte cose fossero cambiate, scendere ogni giorno a Posta e celebrare così la sua sottile e inarrestabile supremazia ci riempiva sempre di irritazione. Era sostanzialmente inaccettabile che noi, storici abitanti di San Filippo, dovessimo abbassarci a percorrere ogni mattina la strada per quello che fino a un paio di generazioni prima non era altro che il luogo dove, per comodità, si fermavano viandanti e diligenze a riposarsi e ristorarsi, senza il bisogno di salire la collina fino al paese. Posta, per esteso, era infatti Posta di San Filippo – come recitava il cartello mezzo arrugginito all’entrata del paese, sottolineandolo tra parentesi con un ridondante e meraviglioso “frazione di San Filippo” –: era la nostra camera degli ospiti, e su questa sfumatura di tanto in tanto partiva ancora qualche insulto o qualche smanacciata. La frazione però era rapidamente diventata un multiplo: forte del facile accesso alla bassa e delle sue morbide politiche immobiliari, Posta si era nel corso del tempo ingrandita, e oltre ad attrarre imprenditori da ogni direzione, si era anche portata via i nostri negozi e le nostre botteghe e le nostre scuole e buona parte dei nostri abitanti.

Fin da pochi giorni dopo la grande delusione della quinta elementare, io e Biagio avevamo deciso di intraprendere la nostra piccola campagna di dignità e rigore, rifiutando il pullmino che la scuola ci metteva a disposizione. «Grazie, preferiamo andare a piedi» avevamo detto a testa alta ogni mattina all’autista del pullmino, per più di due mesi, prima che smettesse di chiedercelo, mentre il resto dei ragazzi ci indicava e prendeva in giro. E anche a distanza di anni, al liceo, arrivare a piedi e per conto nostro pareva di giorno in giorno riaffermare ridicolmente la nostra libertà. Greg invece, con imbarazzo più suo che nostro, continuava ad arrivare accompagnato dall’autista in quella lucida macchina scura.

«Be’?» aveva detto Greg arrivatoci vicino, con aria quasi scocciata.

«Ci siamo.»

«Jacopo, ci siamo che?»

Lo avevo guardato un altro secondo.

«Hanno asfaltato la Stradaccia.»

Era un grande momento, uno di quei piccoli squarci in cui ti illudi che la vita possa davvero essere una donna affascinante e piena di sorprese.

«Ma di che state parlando?» aveva domandato Greg avvicinandosi di mezzo passo e abbassando la voce.

«Te lo giuro, hanno asfaltato la Stradaccia.»

«Ma chi?»

«E che ne so chi, so solo che è tutta bella pulita e asfaltata. L’ha scoperto Biagio stanotte.»

«Passavo di lì e l’ho visto.»

«Alla Stradaccia?»

«Eh.»

«E che ci facevi?»

«Nulla, ero in giro.»

«Sì, vabbè.»

Poi Greg ci aveva guardati un altro momento e aveva abbozzato un sorriso.

Più tardi, tornato in classe dall’intervallo, dopo appena una decina di minuti, Mario il Rosso si era allungato dalla mia parte, quella opposta rispetto a Tonino, e sempre guardando avanti aveva bisbigliato: «Hanno asfaltato la Stradaccia».

Io lo avevo fissato un istante, poi mi ero sparato una risata e mi ero piegato sul banco battendo la testa sul ripiano.

Eravamo tornati alla Stradaccia soltanto il pomeriggio del giorno dopo. Già da lontano, mentre superavamo lo Scavone e imboccavamo la strada che costeggiava l’ultimo campo, si sentiva smarmittare qualche cinquantino. Marco era lì che passava avanti e indietro su una ruota del suo Garelli truccato, davanti alla Giorgia e le sue amiche. Dalle parti della strada, ai piedi degli alberi e sull’erba, c’era diversa gente. Dopo qualche secondo, da dietro una curva, era apparso il fratello di Tino con la sua Lambretta: aveva buttato una seconda, si era attaccato ai freni e a metà curva, sbilenco ma con il corpo ben piegato da una parte, aveva ridato una gran manciata di gas. Appena ci aveva visti, aveva fatto di tutto per passarci più vicino possibile e si era messo a ridere. Anche la Giorgia e le sue amiche avevano riso e applaudito. Dopo qualche secondo la Giorgia ci aveva salutati con la mano, poi aveva detto qualcosa alle sue amiche ed erano scoppiate a ridere.

Marco ci era passato radente su una ruota, poi era tornato indietro e si era avvicinato.

«Allora, mezze seghe, che ci fate qui?»

Io e Greg eravamo rimasti immobili senza sapere bene che dire.

«Niente» avevo abbozzato.

Marco mi aveva fissato, poi si era voltato verso Greg.

«La mamma non te lo compra il motorino?»

«Marco, dài...» aveva detto Biagio. Graziano, il fratello di Biagio, era stato compagno di scuola di Marco, e si vantava di averlo pure menato, un giorno, il che – sicuramente a torto – ci aveva sempre fatti sentire parzialmente protetti.

Dopo qualche istante ci era arrivato vicino pure Luca, il fratello di Tino, a cavallo della sua Lambretta.

«Be’, che c’è?» aveva detto a Marco alzando appena il mento. Aveva gli occhi di uno strano colorito opaco e giallino e una voce aspra che faceva venire il mal di gola solo a sentirla. Quella lunga coda spettinata e quella cicatrice sulla guancia mi avevano sempre raccontato storie poco divertenti e fin da piccolo avevo fatto di tutto per restarmene alla larga, specialmente quando anni prima si divertiva a riempirci ogni volta di scoppole. Erano almeno due anni che non vedevo Luca, e nel frattempo se ne erano raccontate di tutti i colori: dicevano che era stato in galera, che aveva fatto una rapina, che si bucava e che spacciava. Dicevano un sacco di cose su Luca, cose che forse non erano manco vere, ma che contribuivano a renderlo un personaggio sinistro e leggendario.

«Niente» aveva detto Marco. «Chiedevo a questi finocchi cosa ci fanno qui.»

Marco era il bulletto belloccio del paese, quello che tra l’altro nelle faide con Posta era sempre il primo a darle. Accanto a Luca pareva un cagnolino scodinzolante.

«Dài, ragazzi, lasciateli fare» aveva gridato la Giorgia da lontano con il sorriso sulle labbra.

«Mica è tuo, qui» aveva sussurrato Greg. Mi ero voltato e lo avevo guardato con un misto di ammirazione e sconforto: una parte di me si domandava dove avesse d’un tratto preso tutta quell’intraprendenza, l’altra voleva ripararsi la testa tra le mani.

Marco aveva tirato il Garelli indietro di un paio di passi e si era sporto verso di noi aggrottando la fronte.

«Come hai detto?»

Greg guardava fisso un punto lontano davanti a sé e io mi sentivo scivolare inesorabilmente verso una di quelle situazioni che avrebbero senz’altro portato a qualche forma di dolore.

Grazie al cielo, il canto di un motore era rimbalzato per la campagna. Marco si era fermato e aveva guardato verso il paese. Anche Luca si era voltato e, mentre sentivamo quel canto e mentre dopo un po’ osservavamo quell’animale rosso e argento che si avvicinava, il senso di gratitudine per un dio che non conoscevo e un’onda di eccitazione mi avevano invaso lo stomaco come una colata di cioccolata calda. L’animale rosso e luccicante portava in groppa un grosso individuo con una stretta tuta di pelle nera e un vecchio casco bianco con due strisce verdi. Arrivato vicino all’entrata della Stradaccia, l’animale aveva dato due nuovi ruggiti e scalato un paio di marce, poi si era infilato tra la banchina e il guardrail e ci era venuto incontro.

Marco e Luca erano rimasti immobili a guardare quella cosa avvicinarsi, e per fortuna non sembravano più molto interessati a noi e alle nostre frasi.

«E questa?» aveva domandato Luca con l’aria imbambolata quando l’animale e il suo cavaliere si erano fermati lì accanto, cercando di coprire lo strillo del motore.

Il pilota aveva staccato i due automatici della visiera mezza graffiata e da sotto era apparso il volto strizzato di Paolino. I lati del vecchio casco gli raggrinzivano la pelle accanto agli occhi e gli schiacciavano le guance.

«Questa è la Sandra» aveva detto Biagio accennando un sorriso.

Era venuto fuori un giorno come un altro, qualche mese prima, una qualunque fredda mattina di inizio febbraio. Greg si era avvicinato a ricreazione e dopo averci salutati ci aveva semplicemente detto di passare da lui dopo pranzo, ci doveva far vedere una cosa. Biagio aveva detto che doveva dare una mano a suo babbo con qualcosa e anche per me non era un giorno ideale: avevo promesso di andare a studiare da Francesca. Francesca era la figlia pacata e ben educata del proprietario dell’emporio, con cui stavo già da più di un anno. Greg ci aveva fissati un secondo serio e aveva detto che era importante, che ci sarebbe voluto poco. Non eravamo abituati a tutta quell’intensità da parte di Greg, e avevamo pensato che forse era il caso di andare.

Alle tre meno cinque eravamo già al grande cancello. Arrivati in fondo al lungo viale di cedri, il cameriere era come al solito lì che ci aspettava sulla porta, in cima alle scale in pietra della villa. Ci aveva salutati con un impercettibile segno del capo e ci aveva accompagnati nella piccola stanza di passaggio, coperta di tappeti e libri in pelle, che loro chiamavano “il salottino”.

«Il signorino sarà qui tra un minuto» aveva detto il cameriere. «Posso servirvi qualcosa?»

Biagio si era lasciato cadere su un’enorme poltrona di velluto blu, che lo aveva accolto con un grande sbuffo.

«Non so, te vuoi qualcosa?» gli avevo chiesto piuttosto imbarazzato. Lui aveva giocherellato con una piega della poltrona e fatto spallucce.

Il cameriere ci aveva fissati per un paio di secondi, senza riuscire del tutto a nascondere una punta di fastidio.

«Dài, andiamo» ci aveva fatto segno Greg dalla porta con una certa stizza.

«Si ricordi dell’appuntamento con sua madre» aveva detto il cameriere mentre io e Biagio gli sfilavamo davanti e seguivamo Greg verso il portone d’ingresso.

«Sì, Franco, sì» aveva sospirato Greg uscendo. «Torno tra un attimo, giuro che non scappo.»

Una volta fuori eravamo scesi verso destra lungo la scalinata dell’ingresso e avevamo girato intorno alla villa.

«Oh» avevo detto, «ma quello lì la mattina lo caricate a molla o è così di suo?»

«Non lo so» aveva detto Greg. «È roba di mia mamma, io l’ho trovato già montato.»

Da qualche tempo, al massimo qualche settimana, l’impeccabile e formale cortesia di Greg aveva iniziato a mutare in qualcosa di più oscuro e sfuggente. Era più distratto, e più spiccio, e qualche volta il suo umorismo prendeva delle sfumature vagamente amare. Adesso non posso fare a meno di riconoscere in quei piccoli segni il vero inizio di tutto, ma all’epoca era semplicemente qualcosa di bizzarro che mi era capitato di notare, nient’altro che una leggera deviazione da quell’essere che già a sette anni salutava mia mamma con un baciamano e ci invitava sempre a passare per primi da una porta.

Avevamo costeggiato un lato della villa, avevamo preso un vialetto in pietra e ci eravamo addentrati nel parco. Avevamo girato intorno al laghetto mezzo coperto dalle foglie piatte delle ninfee. Ai bordi si era formata una leggera crosta di ghiaccio. Tre anni prima, durante la grande gelata, eravamo riusciti a correrci sopra e fare dei gran scivoloni.

Eravamo scesi per delle scalette coperte di licheni, fino ad arrivare vicino alle grandi serre in vetro e metallo dipinto di bianco. Accanto c’era un lungo capanno di legno pieno di falciaerba e macchine agricole, in cui da bambini ci piaceva infilarci a giocare. C’era anche una vecchia automobile scura tutta impolverata, che per qualche ragione ci aveva sempre spaventati.

Eravamo entrati nel capanno e, facendo attenzione a dove mettevamo i piedi, nella penombra, eravamo andati giù fino in fondo, dove non ricordavo di essere mai arrivato.

«L’altro giorno» aveva detto Greg mentre a fatica cercava di scavalcare il vecchio vomere di un aratro e due calessi rugginosi «sono venuto qui a dare un’occhiata e... merda, mi si è agganciato il pantalone a un chiodo... ecco... e mentre guardavo in giro ho scoperto questa.»

Greg aveva d’un colpo tirato via uno spesso telone grigiastro, e in mezzo a una nuvola di polvere era apparsa quella che aveva tutta l’aria di essere una moto.

Io e Biagio avevamo finito di scavalcare l’aratro e, facendo attenzione a non agganciarci anche noi in qualche spunzone, avevamo superato il primo calesse. Ci eravamo fermati prima del secondo, comunque abbastanza vicino da vedere meglio cosa Greg ci stesse mostrando. Era in effetti una vecchia motocicletta tutta impolverata, i cui mezzi manici, il serbatoio rosso e la sottile sella di pelle correvano sulla stessa linea. Sotto al serbatoio e alle lamelle del cilindro si trovava una sorta di uovo di metallo e sul parafango anteriore un cartellino di ferro che assomigliava a una pinna. Il motore sembrava ossidato, e tutte le cromature erano cosparse di puntini scuri. Eppure, malgrado tutto, era sempre un bello spettacolo.

«E allora?» aveva detto Biagio.

«Come “e allora”?» aveva ripetuto Greg visibilmente deluso. «Ma non vedi che bellezza?»

«Greg, è un ammasso di ruggine.»

«Chissenefrega, la rimettiamo.»

«Ma di chi è?»

«E che ne so? Di nessuno. Ho chiesto, ma manco sapevano che c’era.»

«Incredibile» avevo detto io. «Quest’anno non sapevo nemmeno cosa chiedere per Natale e lui trova le moto in giardino.»

A Biagio era scappata una risata. Greg ci aveva guardati tutti e due con una sorprendente aria da confine estremo del mondo, entusiasta e disperata.

«Ma non capite? Questa è la nostra moto.»

Sembrava addirittura terrorizzato, e il suo tono supplicare aiuto. La nostra moto. D’un tratto, rimescolate dall’improvvisa urgenza di Greg, quelle semplici parole suonavano come gli ultimi appigli prima di sprofondare in un crepaccio. Era come se una nuvola di brillantini fosse caduta dall’alto e quell’ammasso di ferri vecchi avesse tirato un colpo di tosse e ripreso vita. Come se quella moto fosse stata nostra da sempre, nascosta per un banale scherzo della mente in qualche piega della memoria.

Eravamo rimasti un altro po’ a guardarla, poi Greg l’aveva ricoperta con cura ed eravamo usciti. Una volta fuori, sotto un raggio di sole, mentre i piedi scricchiolavano sull’erba ghiacciata, ci eravamo sistemati uno davanti all’altro, in una specie di cerchio. Greg aveva tirato fuori dal taschino della camicia una di quelle sigarette che amava sempre fumare, fatte in casa e legate con del filo da cucire. Arrotolava le foglie di una specie di felce che aveva trovato in giardino, le legava con il filo e le lasciava qualche giorno a seccare, appoggiate su uno spicchio di mela o una buccia d’arancia.

«Allora, come si fa?»

«Eh, bella domanda» aveva detto Biagio. «Dammi un tiro.»

Greg aveva preso una boccata dalla sigaretta e l’aveva passata a Biagio. Biagio l’aveva raccolta con l’indice e il pollice, e tenendola bene d’occhio aveva fatto un gran tiro.

«Io non so niente di motori» avevo detto.

Biagio aveva mollato fuori il fumo lentamente, poi si era messo a guardare ancora la sigarettina.

«Sono proprio buone, Greg» aveva detto con la voce mezza impastata dal fumo. «Proprio buone.»

«Vero?» aveva detto Greg tutto contento, mentre riprendeva la sua sigarettina.

«Sì, proprio buone.»

Poi si erano messi tutti e due ad annuire.

«Oh» avevo detto io.

Loro mi avevano guardato.

«Eh.»

«Be’?»

«Be’ che?» aveva detto Greg lasciando uscire il fumo dalla bocca e strizzando un po’ gli occhi.

«La moto.»

«Ah, già, la moto.»

Biagio si era voltato verso Greg.

«Dammi un altro tiro, vai.»

Greg gli aveva riallungato la sigaretta e mi aveva fissato soprappensiero.

«Eh, la moto. È un bel problema» aveva annuito passandosi una mano sul mento. Biagio lo aveva guardato ed era scoppiato a ridere. Greg lì per lì si era voltato serio, poi aveva dato un’occhiata alla mano con cui si stava massaggiando il mento ed era scoppiato a ridere anche lui. Avevo continuato a guardarli ridere e fare scenette con la mano sotto il mento per almeno due minuti, poi per fortuna si erano ripresi.

«Tutto a posto?» avevo domandato alla fine.

«Sì» aveva detto Greg abbozzando con Biagio un’altra risata e passandosi le mani sugli occhi, «tutto a posto.»

«E quindi?»

«E quindi l’unica è sentire Paolino» aveva detto Biagio.

Un anno, in seconda media, prima di prendere la saggia decisione che la scuola non faceva per lui e andare una volta per tutte a lavorare in bottega da suo babbo, ci eravamo ritrovati Paolino in classe, e ogni giorno erano pacche che volavano da tutte le parti. Era come un animale in gabbia. Una volta fuori, era tutto sommato tranquillo: forse ombroso, e non saresti certo andato a stuzzicarlo, ma in fin dei conti se ne stava semplicemente molto per i fatti suoi. In classe invece, incastrato in quei banchi, gli si potevano quasi vedere i nervi che prendevano a pulsare sotto la pelle, e dopo un po’ iniziava a soffiare come una pentola a pressione contro qualunque cosa avesse a portata di mano.

«Io, ragazzi, non posso» aveva detto Greg. «L’avete sentito il manichino: ho da fare con la mamma.»

Biagio lo aveva guardato un attimo serio, poi aveva sciacquato via la sua punta di disprezzo con una leggera scossa della testa.

Quando eravamo arrivati da Paolino, lui era lì piegato sul manubrio di una Lambretta. Occupava ancora la vecchia bottega nell’angolo della piazza: era stretta e unta, puzzolente di benzina e oli esausti, con moto e motorini accatastati uno sull’altro come capitava. I vetri dell’ingresso erano tenuti in piedi alla meno peggio da infissi sbilenchi dipinti di azzurro e scrostati, da cui nei giorni di tramontana entravano spifferi capaci di spegnere fiammiferi a un metro di distanza. L’interno della bottega era talmente stretto e puzzolente che Paolino preferiva lavorare sempre fuori, anche nei giorni di gelo. Bastava che non piovesse: l’avevo visto lì sul marciapiede pure sotto i fiocchi radi di una nevicata. Una volta vicini, Biagio mi aveva gettato un’occhiata e dato un colpetto con la testa per dirmi di andare avanti. Io avevo alzato il mento e mi ero domandato quando si fossero definiti tutti quei ruoli.

«Ciao» avevo detto.

Paolino aveva alzato gli occhi dalla leva del freno su cui stava armeggiando, ci aveva gettato uno sguardo e senza dire niente aveva ripreso a lavorare.

Io e Biagio ci eravamo guardati un secondo perplessi.

«Senti» avevo azzardato, «dovremmo parlarti di una cosa.»

Paolino aveva continuato a lavorare sulla leva della Lambretta. Io mi ero voltato verso Biagio, che aveva alzato semplicemente le spalle, poi ero tornato a guardare Paolino.

«Abbiamo una moto» avevo detto dopo un altro po’, sentendomi per un attimo più alto di almeno mezza spanna.

Paolino aveva raccattato una chiave dal sellino della Lambretta e si era messo a stringere un dado della leva, di nuovo senza dire niente.

Ero piuttosto in difficoltà, ma dopo qualche istante avevo raccolto un briciolo di coraggio.

«Paolo?» avevo accennato timidamente.

Paolino si era fermato e aveva sospirato, poi aveva alzato gli occhi e ci aveva fissati.

«Sentite, mezze seghe, io non ho tempo da perdere con le vostre cazzate. Non so cosa volete e mi parlate di una moto che non c’è e...»

«Potresti venire a vederla, è da Gregorio.»

Paolino si era tirato bene dritto e ci aveva puntato contro la chiave del dieci con cui un attimo prima stringeva il dado.

«Io con voi non vengo nemmeno a guardare le tette di vostra madre. Se avete qualcosa da farmi vedere la portate qui, e se fra tre secondi non siete spariti vi gonfio il culo con tanti di quei calci che quando arrivate a casa non passate dalla porta.»

«Bene» avevo alzato le mani. «Come non detto.»

«A posto» aveva detto Biagio.

Il giorno dopo, a scuola, Greg ci aveva chiesto come era andata.

«L’abbiamo trovato riluttante.»

Avevamo impiegato più di due ore a trascinare la moto e le sue gomme sgonfie dalla rimessa di Greg fino alla bottega di Paolino. Era ancora più freddo del giorno prima e in parecchi punti del parco di Greg e del paese erano rimasti dei sottili strati di ghiaccio, su cui sia io che Biagio eravamo scivolati diverse volte. Greg in un paio di occasioni, senza in verità troppo entusiasmo, si era offerto di darci una mano, ma noi ci eravamo silenziosamente confessati che Greg ci stava in pratica regalando parte di una moto, e il minimo che potessimo fare era sudare al posto suo. Ci sentivamo anche grandi e tosti, e l’orgoglio ci impediva di abbandonarci a un aiuto: pur con il freddo eravamo sudati, sporchi di polvere, e in uno degli scivoloni io avevo picchiato il ginocchio contro la leva dell’accensione, strappandomi i pantaloni e aprendomi un taglio. Mi dolevano muscoli che non sapevo manco di avere.

Sono convinto che quando Paolino ci aveva visti sbucare nella piazza, trasandati e insanguinati, scivolando sulle lastre gelate del selciato e fumando nel gelo come panni caldi, aveva per la prima volta provato un accenno di rispetto. Si era messo ad aspettarci appoggiato allo stipite di legno dell’ingresso della bottega.

«Eccola» avevo detto una volta vicini, appena ripreso fiato.

«E che ci volete fare con quella?» aveva domandato Paolino dopo qualche secondo.

Io e gli altri due ci eravamo guardati senza sapere bene che dire.

«Farla camminare, immagino.»

Paolino per un po’ aveva fissato prima la moto e poi noi.

«E chi paga?»

Un’ondata di gelo mi aveva d’un tratto ghiacciato ogni goccia di sudore poggiata sulla pelle e aveva fatto pulsare di dolore il taglio al ginocchio. Come avevamo fatto a non pensarci? Credevamo davvero che Paolino si sarebbe preso la briga di risistemare un ammasso di ferri vecchi così, per divertimento?

«Pago io.»

Mi ero voltato. Greg fissava Paolino dritto negli occhi. Portava in volto, per la prima volta, una durezza che avrei imparato a riconoscergli solo molto tempo dopo. Paolino aveva guardato Greg, poi di nuovo la moto. Aveva fatto qualche passo avanti ed era venuto a vederla più da vicino. Si era accucciato in terra, aveva passato una mano sul carter togliendo un po’ di polvere e si era fermato qualche istante a scorrere la moto da cima a fondo. Teneva tra i denti un pezzetto di carta arrotolato e lo faceva andare da una parte all’altra della bocca. Poi si era alzato ed era tornato sull’ingresso.

«Servirà un sacco di lavoro.»

Greg continuava a fissarlo, serio e fermo come una statua.

«Non c’è problema.»

Parevano due pistoleri in un film americano. Paolino ci aveva guardati di nuovo tutti, cercando credo di capire se stesse raccattando o meno una fregatura.

«Vabbè» aveva detto infine. «Prendo la canna e intanto le diamo una sciacquata.»