Eccomi infine lì, la mano poggiata sul vecchio telefono grigio dei miei, imbambolato, mentre l’eco di quella frase maledetta prendeva a tuonarmi nella testa. Pareva il lento avanzare di un terremoto, e la parte più lucida di me intuì subito che dalla scossa non sarebbero riemerse che macerie.

Fino a non molto tempo prima, a chi me ne avesse chiesto, avrei confessato con una punta di ingenua superbia che le mura di ciò che mi ostinavo a chiamare “la mia vita” – e che avevo tanto faticato a costruire – erano piuttosto solide. Da un giorno all’altro invece mi era parso di scorgere qua e là delle crepe poco divertenti e mi era pian piano venuto il dubbio che qualcuno avesse miscelato la malta nelle proporzioni sbagliate. Mentre tutto prendeva a tremare e iniziavo mio malgrado a vedere pezzi di intonaco che si staccavano dalle pareti, fui travolto dall’angosciante necessità di scovare l’istante esatto in cui tutto era cominciato.

Poche ore dopo, sdraiato a fissare il soffitto, riuscii a trovare lo scampolo di tempo in cui le placche che adesso sussultavano avevano dato i primi segni di deriva. Lì per lì nessuno si era accorto che la terra si stava spostando e, se anche avessimo notato una vaga inclinazione della prospettiva, il panorama che si apriva davanti ai nostri occhi appariva tutt’altro che sgradevole.

Eppure, il preciso istante in cui quel ruggito cosmico invase il mio universo fu la frazione impercettibile di secondo in cui un frammento di epidermide colpì la superficie lucida della mia finestra. Ecco dunque il fragore del mio Big Bang: il rintocco soffocato di una nocca contro il vetro, nel cuore della notte.