Era vero, Greg aveva fatto molto per Biagio. Mai però in maniera così sfacciata come sei o sette anni prima. Già da un po’ non avevamo notizie di Biagio, ed eravamo piuttosto preoccupati. L’ultimo con cui avevo parlato, un suo amico australiano che avevo conosciuto in occasione di un mio giro a Sidney, mi aveva detto che non se la passava tanto bene: ciondolava tra la casa e la spiaggia, e non era un gran bello spettacolo. Una sera lo aveva visto in vestaglia vicino alla battigia, al tramonto, con un paio di quegli orrendi e giganteschi pipistrelli australiani che gli planavano sul capo. «Sembrava la versione sciatta di un vampiro» aveva detto.
Forse, l’anno migliore di Biagio era stato quello del suo debutto in cinquecento. Era stato un azzardo di Lucio: si era convinto che l’unica possibilità per Biagio di venire davvero fuori fosse quella di riuscire a domare quei mostri da duecento e rotti cavalli. Le duecinquanta erano per piloti precisi, regolari, metodici. Una volta capite non mostravano grandi sorprese, e vinceva chi faceva meno errori. Le cinquecento erano tutta un’altra storia: erano puledri impazziti, mostri indomabili dell’ingegneria, di cui decine di piloti non erano mai riusciti a venire a capo. Sì, forse anche lì per vincere dovevi fare meno errori, ma le moto costringevano comunque tutti a farne parecchi, e alla fine per andare forte dovevi soprattutto riuscire a restare in piedi e avere l’incoscienza di continuare a dare gas. Biagio di incoscienza ne aveva quanta ne voleva, e Lucio si era detto che forse, se continuava a maturare e riusciva a limitare qualche svarione, magari i suoi momenti felici riuscivano a pagare di più. L’aveva vista lunga, e già al primo campionato Biagio era riuscito a piazzarsi quarto. C’è ancora chi racconta delle scaramucce con Kevin Schwantz, che riuscì addirittura a superare di due punti nella classifica finale. Divennero pure buoni amici, e a ogni fine gara si battevano dei gran cinque e si riempivano di complimenti. Chissà cos’era per Biagio: mi aveva sempre detto che Schwantz era il pilota più grande di tutti i tempi, e adesso si ingarellavano come ragazzini e se la ridevano insieme come compagni di merende. Erano molto simili, in effetti: grande talento e grande discontinuità. Lo stesso Schwantz, dopo aver detto che abbandonava, alla domanda su chi secondo lui fosse il suo vero erede, aveva dichiarato ridendo che non lo sapeva, ma che in Biagio vedeva tutta la sua follia.
Anche una campagna pubblicitaria aveva fatto parlare parecchio di Biagio, e aveva sbattuto il suo nome e il suo volto in tutto il mondo. Il team di Lucio in cinquecento era sponsorizzato dalla Pall Mall, che da metà stagione in poi aveva fatto girare cartelloni e pagine di giornale con una foto di Biagio a torso nudo nella stessa celeberrima posa a braccia aperte di Jim Morrison. Le Pall Mall erano notoriamente le sigarette che un tempo fumava il cantante dei Doors. In realtà il ciuffo liscio di Biagio e i suoi lineamenti affilati e i suoi occhi azzurri non ricordavano granché Morrison, ma ciò nonostante non potevi fare a meno di credere che c’era qualcosa nel loro sguardo che li rendeva molto simili. Sotto alla foto, una scritta vergata di fretta a mano diceva Il genio non ha regole.
Pare fosse stata una campagna molto felice e che le vendite avessero registrato in diversi Paesi un’impennata. A Biagio peraltro erano piovute addosso valanghe di quattrini. La trovata si era dimostrata più rivelatrice di quanto non si credesse: Biagio davvero non aveva regole, e questa in un primo momento era una cosa che aveva divertito e fatto comodo un po’ a tutti. Sia lui che Kate facevano parecchio parlare di sé, e non perdevano occasione per farsi vedere in locali e feste, spesso ubriachi e con larghi occhiali da sole. Ma andava bene, era esattamente il personaggio che ognuno voleva, e finché scendeva in pista e andava come un cannone e battagliava con Kevin Schwantz era tutto perfetto. Le due o tre volte che era caduto o aveva fatto clamorosi errori, i giornalisti ridendo avevano alluso che forse la sera prima aveva buttato giù un bicchiere di troppo. Eppure nessuno diceva niente: quei ridicoli cartelloni in giro per il mondo raccontavano la storia dell’ennesimo genio maledetto, e tutti volevano credere alla favola.
Alla fine della seconda stagione, per motivi che non erano mai stati del tutto chiariti, la Pall Mall aveva deciso di abbandonare il team di Torcini e seguirne uno satellite della Suzuki. Ovviamente voleva portarsi dietro il pilota a cui aveva legato la sua campagna più importante e fortunata degli ultimi anni. Biagio, attraverso il suo agente, aveva in un primo momento dichiarato che senza Torcini poteva pure smettere di correre. L’offerta della Pall Mall aveva superato però ogni aspettativa e, dopo un’intera giornata chiuso in uno studio con Lucio, Biagio aveva fatto dichiarare che avrebbe seguito la Pall Mall e sarebbe passato al team satellite della Suzuki. La Pall Mall sperava così di impostare anche la campagna dell’anno venturo: la Suzuki era la moto che aveva fino a quel momento guidato Schwantz. Passando dalla Honda del Team Torcini alla Suzuki, la Pall Mall sperava così di giocare sull’eredità dell’americano.
Le cose non erano andate esattamente come speravano. Biagio faceva più fatica del previsto a prendere confidenza con la nuova moto, e le due volte che aveva provato con rabbia a spingere un po’ di più era volato malamente, rischiando pure di farsi male. La campagna sulla possibile eredità era dunque stata messa da parte. Nel frattempo Biagio continuava a seguire Kate in giro per feste e locali e week-end in barca. Saltava conferenze stampa e presentazioni con gli sponsor, oppure arrivava con gli occhi gonfi e diceva frasi più sconnesse del solito. La campagna che evocava Jim Morrison ormai però non era più utile a nessuno e, soprattutto, Biagio non scendeva poi in pista a battagliare con un ex campione del mondo per il terzo posto in gara e in classifica. Verso fine stagione si era addirittura parlato di un divorzio con la Pall Mall, ma poi avevano tutti deciso di onorare il contratto. Pare che fosse stato Biagio a volersene andare, ma poi aveva dovuto rinunciare: Lucio un giorno mi aveva spiegato che per avere uno come Biagio in scuderia dovevi o pensare che ti facesse molto comodo o volergli molto bene, e nessuno, tranne la Pall Mall per un verso e lui per l’altro, era disposto a prendersi il rischio. Lui intanto aveva le mani legate con altri piloti e nuovi sponsor.
Era saltato tutto per aria l’anno successivo, due giorni prima del Granpremio d’Italia, di nuovo al Mugello. Il giovedì, appena prima del fine settimana di prove e gara, erano uscite su una rivista delle foto di Biagio sudato fradicio e con un sorriso ebete, abbracciato a Kate e due travestiti. Il titolo recitava Il tramonto di Jim, e l’articolo sosteneva che fossero state scattate in un locale di Torremolinos, vicino a Malaga, la sera precedente al Granpremio di Spagna, due settimane prima. A Jerez Biagio aveva sbagliato tutto: aveva commesso dei brutti errori nelle prove e poi, partito undicesimo, nel tentativo di rimontare, era scivolato malamente coinvolgendo altri due piloti e facendosi anche male a una caviglia. Il Granpremio, ironia della sorte, era stato vinto da quello stesso Alberto Puig con cui Biagio aveva fatto a sportellate cinque anni prima proprio lì a Jerez.
Le foto avevano scatenato un putiferio. La Pall Mall e il team si erano detti indignati e avevano aggiunto che o Biagio si dava una regolata e dimostrava, se non altro, un po’ di professionalità, oppure i loro rapporti dovevano considerarsi al capolinea. Biagio per parte sua aveva fatto leggere un comunicato in cui dichiarava che le foto non erano assolutamente di quindici giorni prima, ma dell’inverno passato, e che non erano state scattate a Torremolinos, ma in un locale di Londra. Ci avevano creduto in pochi o, come qualcuno aveva scritto sulla “Gazzetta”, in fondo non faceva poi tutta questa differenza. Biagio aveva evitato telecamere e giornalisti per tutto il fine settimana. Nelle prove aveva guadagnato un sorprendente quinto posto e la gara era stata forse la migliore della sua vita. In quattro giri era riuscito a piazzarsi subito al secondo posto, attaccato alla ruota di Mick Doohan. Nessuno sembrava crederci, ma pareva avere addirittura margine per poterlo passare. Si buttava nella Casanova-Savelli come un tuffatore e risaliva a cannone le Arrabbiate, inchiodato come un mastino alla moto di Doohan. Io, seduto in un ristorante italiano di Baltimora dove andavo a vedere le gare e qualche partita, mi premevo di tanto in tanto il cuore per essere sicuro che non scoppiasse. Dopo aver sentito vicino a me una coppia che rideva e che si domandava chi era quel fenomeno, non ero riuscito a trattenermi: mi ero voltato e gli avevo detto che si chiamava Biagio, e che era il mio più vecchio amico. Loro avevano annuito e detto grande, ma poco convinti. Mi sa che non mi credevano.
A cinque giri dalla fine, all’entrata della Bucine, la curva in discesa prima dell’arrivo, Biagio si era infilato all’interno di Doohan e lo aveva passato. Sul rettilineo la Honda di Doohan sembrava però avere qualcosa in più e alla San Donato riusciva a staccare per primo. Ogni giro, nello stesso punto, all’ingresso della Bucine, Biagio guadagnava qualche metro e passava Doohan con sempre maggiore scioltezza. Era come se prendesse le misure. All’ultimo ingresso alla Bucine era entrato talmente forte che mi era scappato un grido: aveva passato Doohan in staccata, con la ruota dietro alzata da terra, e all’uscita, non so come ancora in piedi e in pista, aveva spalancato il gas sfruttando ogni centimetro. La ruota davanti aveva galleggiato per diverse decine di metri e mi ero detto che sarebbe finito sull’erba e contro il muretto, ma era riuscito a tenere la moto in pista e a tagliare per primo il traguardo. Prima ancora di arrivare in fondo al rettilineo, Doohan si era avvicinato, gli aveva stretto la mano e mostrato il pugno urlandogli che era un grande.
Più tardi Biagio, sul podio, finiti gli inni nazionali, mentre Doohan e Cadalora gli spruzzavano addosso lo champagne, aveva tirato su la Magnum e aveva preso a berla tutta d’un fiato a garganella. Vedere quella grossa bottiglia che si svuotava in quel corpo minuto aveva qualcosa di prodigioso, e si erano tutti più o meno fermati. Dopo quasi un minuto Biagio aveva buttato con rabbia la Magnum da una parte, aveva rialzato la testa e a guance gonfie, mentre stendeva due bei diti medi al cielo, aveva spruzzato una gigantesca nuvola di champagne. Ancora oggi, in quei bar con appesi stemmi della Ducati e foto di motociclisti, mi capita qualche volta di vedere l’immagine di Biagio su quel podio, con i diti medi alzati e una gran nuvola di champagne sopra la testa, nella tuta blu della Pall Mall.
Poco dopo, alla conferenza stampa, era visibilmente ubriaco. Era stato accolto da uno scroscio di applausi, e dopo gli attacchi dei giorni precedenti anche io che non c’entravo niente non avevo potuto trattenere una scossa di irritazione. Una volta seduto, non appena era calato il silenzio, aveva dichiarato che quella era stata la sua ultima gara e che non si divertiva più e che non aveva più voglia di correre e che se ne potevano pure andare tutti affanculo. C’era stata un’ondata di gelo, poi qualche giornalista aveva urlato no, che non era giusto, e che non doveva andarsene. Lui li aveva guardati, aveva biascicato che erano una massa di buffoni, li aveva di nuovo mandati a quel paese e se ne era andato. Si erano tutti messi a ridere e avevano senz’altro pensato che era ubriaco e che era solo un’altra delle sue bravate. Ma si sbagliavano, e la sua carriera si era interrotta lì al Mugello, dove era cominciata.
Si era dunque ritirato con Kate nella casa sul mare che nel frattempo aveva comprato a Sidney, vicino a Bondi Beach. Le notizie su di lui avevano preso ad arrivarci frammentarie, e non erano gran belle notizie. Dopo un paio di anni era sparita pure Kate, e nessuno ne avrebbe saputo più niente.
Anche Lucio non se la passava molto bene. Il team aveva attraversato due o tre anni difficili e non aveva più trovato i fondi per andare avanti e lui già da un po’ si barcamenava cercando qualche collaborazione e organizzando corsi di guida. Greg era venuto a saperlo e lo aveva fatto chiamare da una sua assistente per fissare un incontro. Lucio si era dunque ritrovato alla vetrata di un’elegante edificio affacciato sul Tevere e sul Palazzaccio, nella sala riunioni di una delle società di Greg. Una giovane ragazza in tailleur grigio lo aveva accompagnato dentro e gli aveva chiesto se desiderava qualcosa da bere.
«Niente, grazie» aveva detto lui.
«Molto bene, il signor Mariani sarà qui a momenti.»
Una decina di minuti più tardi era apparso Greg, seguito da un’altra ragazza in tailleur.
«Buongiorno, signor Torcini» si era avvicinato Greg tendendo la mano.
Lucio stentava a ritrovare in quell’individuo slavato, in maglioncino e pantaloni grigi a sigaretta, lungo e stretto come un asparago, il silenzioso biondino di cui conservava il ricordo alla Stradaccia e di cui Biagio nel corso degli anni gli aveva spesso parlato. Aveva sempre faticato ad associare quel ricordo con il peso che il nome Gregorio Mariani si portava dietro, e adesso più che mai.
«Non voglio rubare tempo a nessuno» aveva detto Greg senza nemmeno sedersi. Poi si era impercettibilmente voltato verso la sua assistente e si era fatto passare un foglietto di carta. Greg lo aveva alzato reggendolo con due dita.
«Sa cos’è questo, signor Torcini?»
Quella piccola messinscena doveva aver riempito Lucio di ironia, e non era riuscito del tutto a trattenerla.
«Un foglietto di carta?»
«È un assegno in bianco, signor Torcini. Per mettere in piedi una nuova scuderia. Una scuderia che vorrei lei dirigesse. Le garantisco, signor Torcini, che non è mia abitudine staccare assegni in bianco, ma se lo faccio sono davvero in bianco.»
Greg e Lucio si erano guardati un secondo negli occhi. Quando Lucio mi aveva raccontato questa storia mi era venuto il dubbio che Greg stesse impazzendo.
«C’è solo una condizione perché questo assegno diventi suo.»
Di nuovo un momento di pausa.
«E sarebbe?»
«Biagio.»
«Biagio, cosa?»
«L’unica condizione è che uno dei piloti sia Biagio.»
Lucio aveva fissato qualche istante Greg senza dire niente.
«Io Biagio non so nemmeno dov’è. E, posto che lo scopra, ho pure dei seri dubbi che sia ancora in grado di correre.»
«Questo, signor Torcini, non è un problema mio. Se lei riporta qui Biagio, e se è disposto a correre, lei ha a disposizione tutti i soldi che desidera per mettere su un nuovo team. Altrimenti è stato un piacere rivederla e le auguro ogni bene.» Greg, senza nemmeno voltarsi, aveva ripassato l’assegno alla sua assistente, poi aveva di nuovo allungato la mano avanzando di un passo. «Arrivederci, signor Torcini, e in bocca al lupo. La signorina qui alle mie spalle le lascerà tutti i nostri contatti e, se desidera, un piccolo fondo spese per andare a recuperare Biagio. Le metterà anche a disposizione le nostre informazioni al suo riguardo. Grazie ancora.»
Lucio gli aveva stretto la mano e aveva guardato Greg uscire. Era ricomparso due mesi più tardi, con accanto una versione un po’ invecchiata ma apparentemente più tranquilla di Biagio, pronto sorprendentemente a correre per lui. Lucio aveva però proposto di lasciar perdere il Motomondiale e correre invece in Superbike. Era un ambiente più tranquillo, diceva, più umano, dove tra l’altro c’erano maggiori speranze di far bene. E ormai il Motomondiale era diventato un insopportabile carosello tipo Formula Uno.
«Come crede, signor Torcini» gli aveva detto Greg di nuovo a Roma, quando si erano rivisti. «Come le ho promesso, ha carta bianca.»
Gli aveva poi detto che avrebbe potuto discutere i dettagli con la sua assistente.
«Perdonatemi, ma adesso devo andare» aveva di nuovo tagliato corto Greg. Aveva stretto la mano di Lucio, poi quella di Biagio.
«E te non fare cazzate» aveva aggiunto.
Quando Biagio mi raccontò di tutta quella pantomima, non ci volevo quasi credere.
«Ma scusa, e te che gli hai detto?» domandai a Biagio con un mezzo sorriso basito.
«Che vuoi che gli abbia detto, Jacopo? L’ho mandato a cacare.»
Greg per fortuna aveva abbozzato una risata, poi si era voltato e se ne era andato.
Avevano messo su un team satellite della Ducati e per un paio di stagioni erano andati piuttosto bene. Biagio e Lucio, immagino facendosi una gran risata, lo avevano chiamato Team Stradaccia, e anche Greg quando me lo aveva raccontato pareva parecchio divertito. Insieme a Biagio, Lucio aveva preso un giovane pilota giapponese che per fortuna si era dimostrato più forte del previsto. Avevano fatto diverse belle gare, e durante il campionato erano sempre stati tra il quinto e il sesto posto della classifica generale.
Biagio era visto da chiunque un po’ come un eroe, come un compagno andato e tornato dall’inferno, e lo trattavano con grande rispetto. Dopo le due gare che gli era capitato di vincere, lo abbracciavano e incitavano tutti, quasi con commozione. A Biagio faceva senz’altro piacere, ma lo metteva anche a disagio.
«Mi trattano come un demente» mi aveva detto un giorno per telefono.
Alla fine del secondo campionato aveva deciso che non aveva più voglia, e questa volta era parso a tutti naturale. Aveva preso una casa all’Isola d’Elba, dalle parti di Capoliveri, e se ne stava tutto il tempo lì, più che altro per conto suo. A un certo punto era comparsa al suo fianco una giovane ragazza indonesiana, ma dopo un po’ se n’era andata pure lei. Con il paese non voleva avere più niente a che fare, e quando gli avevo chiesto perché non prendesse una casa più vicina mi aveva detto che da quando era morta la Betta lì non c’era più niente che lo riguardasse: «Il babbo e Graziano sono due ’briaconi, e in Australia mi sono abituato al rumore del mare».
Non molto dopo essere arrivato a San Filippo per passare qualche settimana con i miei, avevo deciso di andare a trovarlo. Avevo chiesto in prestito la macchina al babbo ed ero andato fino a Piombino a prendere il traghetto. Mentre guardavo il Tirreno e sentivo il vento in faccia, mi dicevo che era stata una grande idea e che magari mi sarei fermato qualche giorno in più. L’indomani stavo già tornando.
Le indicazioni per raggiungere la casa erano state sorprendentemente piuttosto precise, e non avevo fatto molta fatica a trovarla. Era una piccola casa colonica in pietra, su due piani, immersa in una selva di arbusti e spazzata dal vento, affacciata sul golfo Stella e sulla costa meridionale dell’Elba. Se percorrevi un viottolo per qualche decina di metri, verso il mare, e ti sporgevi, riuscivi a vedere la cava di Punta Calamita. Le camere da letto si trovavano al piano di sopra. Al pianterreno, superato l’ingresso, c’era un grande salone con un bel camino in pietra, e in fondo si apriva un’ampia cucina con il pavimento in cotto, oltre a un’altra stanza spoglia che un tempo doveva essere stata una sala da pranzo. Sarebbe stato un gran bel posto, se ogni angolo della casa non fosse stato invaso da quell’inquietante sentore di marcio. I vetri delle finestre erano opachi e probabilmente non venivano aperti da mesi, in diversi angoli del soffitto trasparivano larghe macchie di umido e un’uniforme pellicola di polvere copriva ogni singolo oggetto lasciato disordinatamente in giro. L’unico segno di una recente presenza umana era la sagoma scavata nel divano di velluto verdastro e consunto, che però in mezzo a tutto quell’abbandono pareva più che altro l’interno di un sarcofago. In cucina il tavolo era coperto da ogni sorta di cianfrusaglia e l’acquaio era ricolmo di piatti e bicchieri di plastica sporchi. Per un attimo mi era venuta voglia di aprire il frigo, poi avevo pensato che forse non era una buona idea.
«Non viene mai nessuno?» avevo domandato sulla porta della cucina, mentre posavo la borsa sul pavimento e mi guardavo in giro cercando di moderare il disgusto.
«A fare che?»
«Che ne so, a pulire.»
Biagio era andato fino al frigo e ne aveva tirato fuori due birre.
«Qualche volta viene una tipa.»
Per fortuna l’anta del frigo si era aperta verso di me, impedendomi di guardare dentro. Biagio era come avvizzito: portava tutto il tempo dei larghi occhiali neri a fascia, i capelli erano sporchi e ciondolanti e la sua solita magrezza aveva preso una piega flaccida e malsana. Si trascinava dall’interno polveroso della casa a una sdraio che aveva sistemato sull’aia accanto a un tavolino. Lo sforzo di portare fuori una seconda sdraio e aprirmi la birra era stato l’unico concreto segnale che celebrasse la mia presenza. Non era disagio all’idea di avermi lì: assomigliava più a indifferenza. Pareva che niente di quello che accadeva potesse in alcun modo scuoterlo o interessarlo, figuriamoci turbarlo. Eravamo restati a sedere sulle sdraio per tutto il resto del pomeriggio, azzardando di rado qualche frase, a cui Biagio aveva risposto con semplici gesti o brevi accenni di risata. La sera, quando avevo chiesto se voleva che cucinassi qualcosa, mi aveva detto che lui non aveva molta fame, ma che forse nel congelatore c’erano un paio di pizze da scaldare. Dopo cena eravamo rientrati in casa per guardare un film e lui, come sulla sdraio, si era semplicemente lasciato cadere nella buca del divano e non si era più mosso. Si era infine tolto gli occhiali scuri: gli occhi erano sempre azzurri, ma opachi e spenti, come se tra loro e chi li animava ci fosse un’incolmabile intercapedine. Sì, Biagio non era mai stato di grandi parole, e non era raro che parecchio del tempo passato insieme sfilasse in silenzio, eppure c’era sempre stato qualcosa nella sua presenza, una sorta di vibrazione o campo magnetico, che per qualche minuto sembrava riordinare il mondo circostante. A un certo punto aveva tutto preso una piega diversa, ma da ragazzi era come se suo malgrado avesse sempre saputo come stavano le cose, e in qualche modo venivi sfiorato anche te dalla stessa consapevolezza. Adesso di quella vibrazione e di quel campo magnetico non sembrava essere rimasto niente, o erano talmente lontani da confondersi con tutto il resto. Ecco cos’era, lontano. Biagio era lontano, lontano in fondo a se stesso, lontano dalla superficie dei suoi occhi e della sua pelle, e lontano da qualunque cosa lo circondasse. Una volta invece, seppur silenzioso, ti risucchiava come un vortice. Appena finito il film, per sperare di combattere l’ansia con qualche pagina di un libro, avevo detto che ero stanco ed ero salito al piano di sopra. Biagio aveva semplicemente annuito e detto buonanotte. Avevo scelto una spoglia stanza con due letti in ferro battuto. In un comò nel corridoio avevo trovato delle lenzuola apparentemente più sane delle altre e mi ero steso a letto mezzo vestito. Non sono mai stato una persona schizzinosa, ma l’idea che qualche lembo della mia pelle potesse combaciare per ore con qualunque superficie di quella casa mi riempiva di disagio.
La mattina mi ero alzato presto e, pur di fare qualcosa, ero sceso al piano di sotto e mi ero messo a dare una sistemata. Avevo aperto tutte le finestre, trovato un canovaccio e provato a dare alla menopeggio una spolverata. Da qualche parte avevo recuperato dei grossi sacchi neri in cui avevo buttato tutto il cibo sparso in giro e i piatti di plastica dell’acquaio e le cartacce disseminate in ogni angolo del salotto. Avevo dato una bella spazzata: i lanicci di polvere erano grossi come gatti e continuavano ad arrotolarsi alla scopa come le trecce di un rasta.
«Lascia perdere» aveva detto Biagio alle mie spalle, mentre spazzavo. Aveva già indosso gli occhiali da sole e il suo tono sembrava piuttosto stizzito.
«Non ti preoccupare. Almeno faccio qualcosa.»
Lui mi aveva fissato un altro secondo, poi era andato a raccattare nel frigo la prima birra della giornata ed era uscito a riprendersi il suo posto, sulla sdraio.
Poco più tardi, dopo aver dato un colpo di spugna al ripiano della cucina e aperto il vano sotto l’acquaio per vedere se trovavo qualche prodotto per i bagni e i vetri, ero stato invaso da un’orrenda ondata di fetore. Nell’altro vano c’era un cestino di plastica verde con dentro dell’immondizia che stava lì da chissà quanto. Strizzando la faccia avevo aperto bene il cestino e tirato fuori il sacco nero. Lo stavo già chiudendo di fretta, quando qualcosa aveva attirato la mia attenzione. Sforzandomi di non vomitare e trattenendo il respiro avevo guardato meglio: da sotto qualche resto bagnaticcio di cibo faceva capolino un oggetto stretto e lungo che per qualche secondo avevo desiderato con tutto me stesso di non aver visto. Mi ero guardato intorno, avevo raccolto un rotolo di carta assorbente, ne avevo staccati due ritagli, li avevo piegati su se stessi un paio di volte e reggendoli tra le dita avevo affondato la mano nel sacco. Avevo scansato qualche avanzo muffito e, cercando di non toccare niente, avevo tirato fuori l’oggetto. Una siringa da insulina. Mentre fissavo le tracce di plasma essiccato alla base dell’ago e con un senso di nausea mi immaginavo tutto ciò che significavano, il quadro aveva preso finalmente a ricomporsi davanti ai miei occhi. Come avevo fatto a non capirlo? Eccoli dunque, tutti i misteri del mio amico: il suo declino, il suo distacco, il suo disinteresse, la sua solitudine, la sua apatia, l’immagine di lui a Sidney in vestaglia, i suoi silenzi, e per qualche motivo anche l’immagine di lui da piccolo, in giro di notte per i campi.
Lo ammetto: ero stato invaso da un’imbarazzante ma innegabile ondata di terrore. Avevo appoggiato una mano al bordo dell’acquaio, e mentre cercavo di trattenere il fiotto acido che mi saliva in gola avevo preso a vedere tutti i minuscoli oggetti di quella cucina – e subito dopo del resto della casa – come i dettagli del terrificante set di un film dell’orrore. Mi ero per un attimo affacciato su un luogo buio e gelido, la cui profondità mi scatenava dentro una violenta vertigine. Qualche volta, nel corso degli anni, in momenti meno sereni del solito, mi ero domandato come un cretino se fosse quello che tutti chiamavano abisso. Be’, eccola infine la risposta: no. Questo era un mostro ben più nero e profondo, davanti a cui – lo confesso con vergogna – non avevo saputo fare altro che fuggire. Avevo avvolto la siringa in uno spesso strato di carta assorbente, me ne ero andato nella camera dove avevo dormito, avevo buttato nella borsa il batuffolo e le due cose che avevo tirato fuori la sera prima ed ero riuscito. Biagio era sempre lì sulla sua sdraio, a sorseggiare una lattina di birra e guardare il golfo. Gli avevo detto che avevo chiamato i miei, e mia mamma pareva essersi sentita di nuovo male, e che mi dispiaceva, ma dovevo andarmene. Biagio si era alzato a fatica per abbracciarmi, e come previsto non sembrava molto interessato alla notizia.
«Cerca di star bene» gli avevo detto, sentendomi vile e meschino.
«Anche te» aveva risposto lui rimettendosi a sedere e riprendendo a guardare il mare.
Un’ora e mezza dopo, sul traghetto di ritorno, ero stato colpito da un’intensa miscela di conforto e senso di colpa. Una parte non sottile di me mi pungolava gridando al vigliacco, l’altra non riusciva a nascondere il sollievo per essere riuscita a mettersi in salvo prima che fosse troppo tardi.
Tornato a casa, mi ero semplicemente fatto una lunga doccia ed ero andato a letto. Il mattino dopo, appena sveglio, mi ero rimesso con ancora maggior foga a interrare e innaffiare i nasturzi e le pansé di mia madre. Avevo pure preso a levare le poche erbacce dal resto del giardino. Due giorni più tardi, chino su un’aiuola ad aprire con la paletta una piccola buca nella terra scura, avevo sentito e poi visto l’elicottero di Greg che planava sul paese e scendeva verso la villa. Ero rientrato in casa, mi ero tolto il grembiule che la mamma mi aveva messo a disposizione per lavorare in giardino, mi ero lavato le mani alla meno peggio nell’acquaio della cucina, ero passato un attimo di sopra dalla mia stanza e infine ero uscito. Era una giornata molto calda e umida, più di agosto che di fine giugno, e a ogni passo sentivo gocce di sudore invadermi il petto e appiccicarmi addosso la maglietta. Camminavo a grandi passi lenti, piegato in avanti più del solito. Avevo attraversato il paese facendo lo slalom tra i turisti inglesi e tedeschi, superato la piazza, sempre più simile alla piazzetta di Capri, e mi ero spinto su, fino al cancellone della villa. Quando mi avevano risposto al citofono, avevo semplicemente detto il mio nome di battesimo, come facevo quando ero piccolo. Il cancello si era incredibilmente aperto senza che mi chiedessero altro. In fondo al viale costeggiato di cedri, davanti al grande portone, in cima alle scale in pietra dell’entrata, un cameriere che non avevo mai visto era già lì che mi aspettava.
«Mi spiace, signore, ma in casa non c’è nessuno» aveva detto il cameriere. Sembrava filippino, e portava una giacca bianca vagamente larga.
«Ho visto arrivare quel coso» avevo detto indicando in alto verso il cielo. «Dica al signor Mariani che c’è Jacopo, e che lo aspetta nello studio» ed ero entrato senza farmi dare il permesso. Il cameriere era rimasto un attimo interdetto, poi mi aveva seguito attraverso il corridoio e il salottino blu di passaggio e mentre entravo nello studio di Greg aveva acceso le luci.
Greg aveva adibito a suo studio quello che una volta era il vero e proprio cuore della villa, un gigantesco salotto con il soffitto a cassettoni e un monumentale focolare sormontato dagli stemmi di famiglia. Era passato da un pezzo il tempo in cui vi si accoglievano ospiti e si davano ricevimenti, e Greg, per stuzzicare la sua megalomania, aveva pensato di metterci in fondo un largo tavolo di legno scuro e farci il suo studio. Il mio bilocale nell’Upper West entrava forse comodo nel quarto di quella sala. Dopo un paio di minuti era comparsa un’altra cameriera, aveva salutato con timidezza e si era messa ad aprire tutte le finestre e le porte in vetro smerigliato della sala, inondandola pian piano di luce naturale e di refoli di calore estivo.
Da una parte, sotto una finestra, c’era la Sandra. Ero stato preso da un momento di irrefrenabile nostalgia. Avevo osservato l’uovo lucido del motore e il cupolino in vetroresina che avevo fatto con le mie mani quasi vent’anni prima, avevo posato le dita sulla manopola dell’acceleratore e, mentre tiravo leggermente la leva del freno, mi era venuta una gran voglia di versare qualche lacrima.
«Che fai, mi spii?»
Avevo alzato la testa. Greg, sempre nei suoi pantaloni grigi e con le maniche arrotolate della camicia, era andato dritto verso il fondo della sala e aveva appoggiato dei fogli sul ripiano del tavolo.
Avevo di nuovo guardato la Sandra e tirato ancora un paio di volte la leva del freno.
«È lei?»
Greg aveva alzato un momento gli occhi, poi si era messo a scartabellare qualche foglio.
«Certo che è lei.»
Avevo mollato la manopola del gas e avevo fissato qualche altro secondo la Sandra, poi mi ero avviato verso il tavolo di Greg.
«Pensavo l’avessi lasciata a Paolino.»
«Paolino? Che c’entra Paolino? Era mia e me la sono ripresa.»
Prima di lasciarmi cadere su una delle tre poltroncine di pelle rossa che stavano davanti alla scrivania, mi ero tolto dalla tasca posteriore dei pantaloni il batuffolo di carta assorbente. Lo avevo lentamente aperto e avevo infine buttato la siringa sul ripiano del tavolo. Greg aveva gettato prima uno sguardo alla siringa, poi uno breve a me.
«Grazie. Magari un’altra volta.»
«Idiota. È di Biagio. Sono stato all’Elba a trovarlo.»
Greg aveva sospirato, aveva fatto una strana e rapida serie di schiocchi con il labbro inferiore e la lingua, poi aveva lasciato i fogli e si era messo a sedere.
«E quindi?»
«E quindi è messo male, Greg. Se ne sta tutto il giorno seduto su una sdraio a guardare il mare e bere birra. Chissà quante se ne fa di queste al giorno. La casa puzza di morto.»
«Chi gliela porta?»
«Non ne ho idea. Non ho visto nessuno passare per la casa, ma sono rimasto solo una sera. Volevo restare di più... poi ho visto questa e me ne sono andato. Non lo so, ho avuto paura. E comunque stare lì è dura, fa impressione.»
Greg mi ascoltava senza dire niente.
«Gli ho chiesto se almeno qualche volta viene qualcuno a rimettere un po’ a posto, e lui ha detto che di tanto in tanto passa una tipa. Ci credo poco però, la casa sembra abbandonata. Magari gliela porta lei.»
Greg aveva tamburellato qualche istante sui braccioli della sua poltrona.
«E che dovremmo fare, secondo te?»
«Che ne so, Greg. Andiamo lì, portiamolo via, sbattiamolo in una comunità, spariamogli un colpo in testa. Che ne so?»
Greg mi aveva fissato un attimo negli occhi, poi aveva calato lo sguardo sulla mia maglietta.
«Sei sporco.»
Avevo abbassato la testa e con due dita avevo allontanato di qualche centimetro il cotone bianco dal torace. C’erano in effetti macchie di rena e di erba, anche la striata bluastra di qualche fiore.
«Mi sto dedicando al giardinaggio.»
Greg aveva accennato una piega di sorriso.
«È questo il risultato di tutti i tuoi sforzi accademici?»
«Mi intendo di nasturzi.»
Greg aveva scosso la testa.
«Vabbè» aveva detto poi tornando serio, «pensiamoci un attimo e risentiamoci. Adesso levati dalle palle, ho da fare.»
Si era riavvicinato con il busto alla scrivania e aveva raccolto le carte che stava sfogliando poco prima.
«E quella?» avevo domandato puntando con il mento la siringa.
«Mettitela nel culo, quella.»
«Be’, questa è roba di tua competenza.»
«Quella robina manco la sento, ciccio: sono abituato a ben altre misure.»
Avevo abbozzato una risata, poi avevo riavvolto la siringa nella carta assorbente, l’avevo di nuovo fatta sparire nella tasca dei pantaloni e me ne ero andato.
Non so adesso cosa darei per poter dire che il giorno dopo ci eravamo risentiti con Greg e che avevamo trovato una soluzione e che eravamo andati dal nostro amico e che lo avevamo portato via e che eravamo riusciti a dare un freno alla sua deriva. Saremmo potuti andare lì con l’elicottero di Greg e atterrargli direttamente davanti a casa. Avremmo potuto portarci dietro anche Paolino: ci avrebbe messo un attimo a caricare quel mucchio di pelle e ossa sull’elicottero. Fatto com’era, probabilmente Biagio manco avrebbe opposto resistenza. Avremmo potuto fare un sacco di cose, un sacco di bastarde cose che continueranno per sempre a bussarci alla porta come morti viventi. E invece no: da bravo pilota, Biagio era stato più rapido di noi. Non aveva mentito quando aveva detto che una signora veniva a dargli una rassettata alla casa. Dodici giorni più tardi la signora era passata da quelle parti e aveva trovato il cadavere di Biagio sul divano del soggiorno. Il fetore era già insopportabile, e il medico che era arrivato a certificare la morte aveva detto che doveva essere lì da almeno tre giorni. Se ci penso, riesco quasi a vederlo: solo, steso in quella buca del divano come in un sarcofago, un braccio calato da una parte, la bocca mezza aperta, la pelle e il volto scavati dalla morte come legno marcio.
Quindi sì: Greg aveva in effetti già fatto molto per Biagio. Una volta trovato il cadavere, peraltro, si era anche adoperato con qualche suo contatto per permettere che la salma fosse trasferita velocemente al paese. Ci eravamo domandati se Biagio avrebbe preferito così, ma alla fine ci eravamo detti che senza dubbio era meglio che farlo seppellire in un cimitero qualunque dell’Isola d’Elba.
Perché dunque, quando avevo chiesto a Greg se sarebbe venuto al funerale e lui mi aveva dato la sua tagliente risposta, avevo preso mio malgrado a scivolare in quella fossa di apatia? Greg si era in effetti adoperato spesso per Biagio, e da un pezzo non usava più perdere molto tempo su ciò che non poteva capire o toccare o comprare. Eppure, dall’istante stesso in cui – attraverso il telefono dei miei – mi aveva colpito il timpano, la frase di Greg aveva preso a rimbalzarmi nella testa come il rintocco di un gong, impedendomi di considerare seriamente qualunque altro pensiero e trascinandomi in un inarrestabile vortice di stordimento. La parola è inebetito. Già da qualche settimana, o forse inconsapevolmente qualche mese, i miei neuroni non brillavano per reattività, ma dall’istante stesso in cui la mia mano aveva abbassato la cornetta grigia dei miei sulla sua sede, era questa la parola che meglio mi descriveva.
Il giorno dopo, al funerale, davanti a una chiesa gremita di gente – arrivata da tutti i paesi vicini, immagino nella speranza di trovare telecamere e giornalisti – don Roberto disse che non aveva mai conosciuto Biagio, ma che nel corso degli anni gli era stata restituita dall’amore dei suoi compaesani – disse proprio così – l’immagine di un ragazzo dolce, solare, con una parola sempre buona per tutti. Riuscii a stento a trattenere l’accenno di una risata. Ragionò sul celeberrimo “gli ultimi saranno i primi” e concluse pregando il Signore che adesso quell’animo sensibile trovasse un po’ di pace. Quell’imbecille di Cardini, il sindaco, prese la parola e fece uno sbilenco discorso sulla sfortuna e sulle cattive tentazioni e sulla solitudine e su come lo Stato fosse ormai incapace di assistere i suoi cittadini più isolati. Fingendo commozione sbatté una mano sul leggio e trattenne un’imprecazione ammettendo che questa triste scomparsa doveva essere per ognuno lo sprone a combattere con tutte le proprie forze la dilagante solitudine che ci circondava. Poi si prese un teatrale momento di pausa.
«È quindi con grande orgoglio» continuò poi «che la giunta comunale ha già incaricato un prestigioso scultore di fama internazionale di fare un monumento al nostro talentuoso e purtroppo sfortunato compaesano.»
La chiesa fu investita da uno scroscio di applausi e Cardini, per quanto si sforzasse, non riuscì a trattenere una punta di soddisfazione. Dentro di me sentivo in lontananza l’eco di una banda di scatenati che gridavano e fischiavano e imprecavano, ma non trovai la forza di dare loro seguito.
All’uscita qualche signora con indosso i vestiti buoni della domenica e un fazzoletto in mano rispondeva alle domande di due o tre giornalisti sparsi per il piazzale. Si avvicinarono anche a me, ma prima ancora che mi dicessero qualcosa gli sussurrai che se non si levavano dai tre passi li prendevo a calci in culo fino alla fine del paese. In un angolo scorsi Lucio. Lo avevo avvertito io due giorni prima. Ci camminammo incontro e ci scambiammo un abbraccio, ma veloce. Lui poi mi tenne le spalle.
«Mi dispiace» disse.
Io annuii e non aggiunsi altro. Ci fermammo qualche secondo davanti a quel viavai di gente e mi domandai cosa avrebbe detto Biagio se fosse stato lì.
«Vai al cimitero?» mi domandò Lucio.
La bara uscì dalla chiesa portata da Graziano e da persone che Biagio non aveva manco mai visto.
«No, mi sa che me ne vado a casa.»
Lucio annuì. Guardammo la bara sparire nel lungo carro scuro della Mercedes e iniziare il suo lento cammino verso il cimitero, seguita da quel gregge di gente. Quando il piazzale si fu svuotato, alzai gli occhi e osservai per un attimo il vento che smuoveva leggermente le fronde dei pini. Ecco, dunque, cosa resta, mi venne per qualche ragione da pensare; e non sapevo granché cosa volesse dire.
«Vabbè» dissi. «Io mi sa che vado.»
Lucio annuì di nuovo.
«Sì, anche io.»
Lo fissai per la prima volta più attentamente: anche lui era invecchiato, e sembrava quello zio che non avevo mai avuto. Lo riabbracciai rapidamente e gli mollai una leggera pacca sul collo.
«Sentiamoci» mi disse.
«Sì.»
«Mi raccomando.»
Sorrisi e bisbigliai di nuovo un sì, poi infilai le mani in tasca e me ne andai. A casa vagai per un po’ in giardino, dando qualche calcetto con la punta della scarpa alle pietre che circondavano le aiuole. Sembrava tutto molto ordinato. Rientrai, chiamai la compagnia aerea e mi feci anticipare il biglietto di ritorno a due giorni dopo. Quando i miei tornarono mi dissero che avevano trovato un posto per Biagio proprio al centro del cimitero, non lontano dai suoi, e che il Buti aveva promesso di fargli una lapide come si deve.
Due giorni dopo, Amanda venne a prendermi all’aeroporto. Erano gesti di cui la nostra storia era stata sempre piacevolmente sprovvista, ma non mi fece alcun effetto. Anche vederla non mi scosse granché. Di solito ritrovarla mi provocava un bizzarro senso di spaesamento. Qualche volta, addirittura dopo appena poche ore, quando mi riappariva dall’angolo di una strada o alla porta di casa, mi domandavo per un attimo se sorridesse davvero a me, e frenavo l’istinto di guardare se avessi qualcuno alle spalle. Non riuscivo del tutto a adattarmi all’idea che tutta quella bellezza fosse a mia disposizione. Una bellezza peraltro così originale, una di quelle bellezze costantemente sull’orlo del collasso, eppure per questo ancora più intriganti. Guardandola bene lo sapevi che quel grosso naso e quegli zigomi rotondi e quelle labbra pronunciate si sarebbero potuti torcere molto rapidamente in qualcosa di sgraziato e irritante. Eppure non accadeva mai: mi scoprivo spesso a osservarla la mattina appena sveglia, la notte brilla dopo una festa, la sera in pigiama davanti alla tivù con una ciotola di gelato in mano, cercando di scoprire finalmente una torsione disarmonica del suo volto. Ma i tratti e le curve di quel viso sembravano resistere a qualunque attacco, e mi pareva di stare lì a sentire storie sull’eterna guerra tra armonia e disordine.
Sbigottimento. Era questo che avevo provato fin dai primi momenti in cui ci eravamo frequentati. Le volte che ci eravamo trovati a raccontare come fosse iniziata la nostra storia, ci eravamo immediatamente accordati su un martedì sera, appena fuori dall’entrata della New School. Un paio di anni prima una professoressa di Religioni comparate mi aveva contattato e mi aveva detto di aver seguito una mia conferenza e di essere stata colpita da una mia frase: “Oggi, è questa la nostra religione”. Era una mezza battuta, ma seguiva in effetti una mia più seria e ormai antica riflessione sull’analisi dell’inconoscibile nella fisica. Patricia, la professoressa, mi aveva spiegato che stava lavorando su un ampio testo di religioni comparate, in cui pensava da tempo di inserire una parte sulla fisica contemporanea, sulla falsa riga del Tao della fisica di Capra, ma che tentasse di abbracciare anche religioni non orientali. Ci eravamo dunque incontrati per un caffè ed eravamo diventati piuttosto amici. Era una tipa divertente, Patricia, e sapeva organizzare cene parecchio brillanti a cui sorprendentemente non mi spiaceva andare. Dall’anno successivo al nostro incontro mi aveva chiesto di tenere, all’interno del suo corso, un breve seminario di due o tre lezioni sugli aspetti più determinanti della fisica contemporanea, concentrandomi soprattutto su ciò che avvicinava l’analisi scientifica ai confini estremi dell’universo. Avevo scoperto di divertirmi a scovare immagini che tentassero di spiegare quegli aspetti del mio lavoro che per me ormai avevano significato esclusivamente in termini matematici, e in quelle poche ore avevo l’improvvisa impressione che la fisica fosse un luogo ben più ampio e affascinante di quanto io stesso potessi immaginare. Forse a trarmi in inganno erano anche gli sguardi rapiti di chi mi ascoltava.
La New School era stata fondata negli anni Settanta da un gruppo di professori della New York University, con l’intenzione di costituire un’università più plastica e liberale. La sua caratteristica più divertente è che ognuno, a qualunque età e con qualunque titolo di studio, può pagare e frequentare da esterno un corso del programma accademico. Se desidera, può anche provare a cimentarsi nelle tesine finali, obbligatorie ovviamente per chi frequenta l’intero corso di studi. Per Amanda era un periodo un po’ loffio di lavoro e improvvisamente si era divertita all’idea di andare qualche ora a settimana a ricevere un’infarinatura sulle principali correnti religiose del mondo. Era stato anche merito, o colpa, dell’Undici Settembre. Nel corso degli anni il dubbio su cosa ci fosse di tanto diverso tra lei e quelle persone che si erano lanciate contro il World Trade Center e in Pennsylvania e sul Pentagono aveva preso a macinarle dentro ed era d’un tratto stata molto intrigata dall’idea di saperne qualcosa in più. Quando la sera della seconda lezione mi ero ritrovato all’uscita della facoltà, sulla Quinta Avenue, mi ero imbambolato qualche istante a vedere sfilare le auto. Non avevo voglia di tornare subito a casa e mi ero domandato chi potevo chiamare in zona per farmi ospitare a cena.
«È stato molto affascinante» avevo sentito dire alla mia destra.
Poco distante da me, il busto appena piegato per scorgermi meglio il viso, c’era Amanda che mi accennava un sorriso. Già durante quelle due lezioni l’avevo notata seduta tra gli altri, e tentavo sempre di guardarla il meno possibile. Adesso era lì che mi fissava e si aspettava una risposta, e mi sentivo molto in imbarazzo.
«Grazie» ero riuscito a mugugnare.
Mi aveva spudoratamente chiesto se mi andava di bere qualcosa e ce ne eravamo andati in un bar qualsiasi dei paraggi. Ero ormai uno stimato ricercatore, che da tempo aveva smesso di stupirsi dei più formidabili meccanismi dell’universo, eppure sì: stare lì in compagnia di quella donna dal volto tanto magnetico mi riempiva di sbigottimento. La voce sembrava tremarmi e continuavano a scapparmi delle risatine da deficiente che non mi erano mai appartenute. Amanda intanto aveva tutta l’aria di volermi adescare: era mai possibile però che una donna tanto bella – e, come ho detto, in maniera tanto originale – volesse davvero adescare un individuo sgraziato e noioso come me? La cosa mi rendeva goffo e sospettoso. Dopo il secondo bicchiere mi aveva domandato come mai non la guardassi negli occhi. Avevo alzato lo sguardo e lo avevo finalmente piantato solido nel suo. D’un tratto erano crollate tutte le difese e mi ero sentito come un ragazzino.
«Perché ho paura di non riuscire più a staccarteli di dosso.»
«Ciao» mi abbracciò stretto all’aeroporto quando uscii dalla porta scorrevole insieme agli altri passeggeri.
«Ciao» risposi.
Sul taxi non ci dicemmo granché. Mi chiese come era andato il viaggio, le dissi bene. Mentre la macchina rallentava alla coda per il casello, mi guardò e mi passò una mano sulla guancia. Io abbozzai qualcosa che assomigliasse il più possibile a un sorriso e tornai a guardare fuori.
Anche rientrare in città non scatenò grandi emozioni. In precedenza, quando i grattacieli di Manhattan apparivano in lontananza e ancor più mentre mi avvicinavo al ponte e lo superavo, una scarica di elettricità prendeva a percorrermi le arterie e ricordavo ogni volta perché avessi deciso di abitare in quel posto. Non c’è modo migliore di comprendere l’attaccamento o la repulsione che si ha per un luogo, che l’abbandonarlo e tornarci: il grado di malessere o eccitazione che ci assale al rientro è la misura della nostra affezione. Riaffacciarsi sulla sagoma di New York era sempre stato molto simile a scolarsi d’un fiato mezza bottiglia di vino.
L’autista nero del taxi chiese conferma dell’indirizzo. Amanda mi domandò se preferivo andare da me. Alzai le spalle e feci segno di no, che era lo stesso.
Era così, tutto lo stesso. Non sentivo niente: niente mentre scendevo con la mia valigia dal taxi, niente mentre salivo in casa di Amanda, e niente quando più tardi andammo a mangiarci un boccone da Vito’s, il nostro ristorante preferito. Niente mentre ci facevamo due passi per Alphabet City, e mentre tornavamo a casa e ci sciacquavamo e ci mettevamo a letto e mentre lei mi si accoccolava accanto e mentre ci addormentavamo, e niente la mattina dopo quando ci svegliammo nello stesso letto. Niente. Niente quando due giorni più tardi ripassai dal mio bilocale, niente quando riaprii le finestre e rividi i miei fogli e i miei appunti e i miei calcoli sulla lavagna. Niente quando ripassai dall’università e salutai qualche collega e parlai con qualche studente che voleva informazioni sui miei corsi o su come partecipare a uno dei miei gruppi di ricerca. Niente quando Amanda mi propose di andare a farci un giro per gli Stati Uniti e niente quando accettai. Niente quando volammo a Chicago e quando arrivammo a casa di Fred, forse l’unico compagno di studi davvero divertente che mi fosse mai capitato, e infatti anche l’unico con cui ero rimasto veramente amico. Niente quando Fred mi portò in giro per la facoltà e un suo collega, dopo esserci presentati, sgranò gli occhi e domandò «quello Jacopo Ferri?» e niente dopo che Fred gli disse di sì e niente dopo che il suo collega mi disse che era un mio ammiratore e che aveva trovato un mio articolo su “Physical Review D” di due anni prima illuminante. Niente quando io e Amanda affittammo una Toyota e niente mentre lei guidava per ore in mezzo a campi di granturco – io non ho mai preso la patente – e mentre come nei film facevamo l’amore in uno squallido motel del Midwest e mentre mettevo una mano su una gigantesca sequoia e mentre pensavo che fosse la creatura più imponente che avessi mai toccato. Niente anche quando rientrammo a New York e Amanda riprese a lavorare e io ripresi ad andare all’università e niente nemmeno il giorno in cui ricominciarono i corsi e io affrontai la mia consueta introduzione sulla complessa questione dell’energia oscura.
Niente fino a quella notte. Dormivo da Amanda. La sera prima eravamo stati a cena da James e Clara, due suoi amici, e mentre tornavo dal bagno avevo sentito Clara chiedere ad Amanda come andasse e lei rispondere che era faticoso, che non reagivo a nessuno stimolo e che lei non sapeva più che fare. Per un attimo mi domandai se le cose non stessero logorandosi e se non ci saremmo pian piano separati, come peraltro mi era sempre successo. Per inciso, anche in quel momento non sentii niente. Pure con Trisha le cose erano andate a finire così: avevamo semplicemente smesso di capirci e da un momento all’altro la morbidezza della sua pelle non era più stata determinante. Mi ero anche detto – a differenza di lei – che forse quel mondo là al di fuori di noi non era poi così male, e un giorno lei aveva semplicemente ripreso a dormire a casa sua, riniziando a detestare me come buona parte dell’umanità.
A letto, Amanda provò a strusciarmisi un po’ addosso, ma senza sortire grande effetto. Più tardi, in mezzo alla notte, l’eco di una risata molto sinistra mi cacciò d’un tratto dal sonno. Mi tirai a sedere sul letto, cercando di calmarmi e rallentare il battito cardiaco. Mi asciugai la fronte con il dorso della mano e tentai di fare un lungo respiro. Andai fino in cucina a bere un bicchiere d’acqua, poi in bagno. Mi sciacquai il viso e mi guardai a lungo allo specchio. Il cuore continuava a battermi come una grancassa e lo stomaco si stava girando su se stesso. Quella maledetta risata continuava a rintronarmi nella testa. Sapevo bene a chi apparteneva. Pensai di rimettermi a letto e provare a dormire, ma sentivo che non ci sarei riuscito. Tornai dunque in camera e lentamente, cercando di fare meno rumore possibile, presi a vestirmi. Mentre già mi stavo allacciando le scarpe, Amanda si voltò con la fronte aggrottata.
«Che fai?»
«Non riesco a dormire» bisbigliai. «Vado da me. Tu rimettiti giù.»
«Da te? Ma che ore sono?»
«Non lo so» bisbigliai ancora. «Saranno le tre. Rimettiti giù.»
Lei invece si tirò ancora più su e si voltò per bene.
«Le tre? Ma che ci vai a fare da te alle tre?»
Io alzai le spalle.
«Tanto non riesco a dormire. Mi è venuta un’idea, voglio vedere se funziona.»
In realtà nei tre anni che avevamo passato insieme, avevo dimostrato ad Amanda che non ero molto tipo da quel genere di sortite. Ne avevamo pure parlato una volta: le buone idee, le avevo detto, arrivano lavorando, e quelle che ti vengono mentre fai la spesa impari con l’esperienza che spesso sono bufale. Anche quelle che ti bussano nel sonno: per cui tanto vale dormire. Da qualche mese però erano evidentemente saltati tutti gli schemi, e Amanda per fortuna preferì non domandare oltre. Mi diede un bacio e si rimise giù e mi domandò se ci saremmo visti l’indomani.
«Certo» le dissi.
Non ci vedemmo. Né il giorno dopo né quello successivo né quello dopo ancora. Continuai a dire ad Amanda che finalmente avevo trovato la soluzione al problema che da mesi tormentava il mio lavoro e che dovevo per forza portarlo a termine. Il terzo giorno, all’ennesimo attacco della segreteria, domandò cosa doveva fare.
All’università mi diedi malato. Passai tre giorni filati davanti al computer, a navigare ore e ore su internet per cercare risposte in grado di chiarire il dubbio che d’un tratto aveva preso a logorarmi e che in realtà – senza capirlo – mi stava logorando ormai da settimane, impedendomi di sentire alcunché. Scovai con ogni sistema indirizzi e numeri di telefono e chiamai chiunque pensassi mi potesse aiutare, a qualunque ora. Scordavo di mangiare e dormivo a sprazzi.
Quando alle sette di sera del terzo giorno digitai i caratteri dell’ultima breve mail e schiacciai invio, un senso di calore e torpore mi si abbatté addosso come un tronco d’albero. Era la risposta a una mail di Greg di quattro giorni prima, in cui mi chiedeva se ero in città e se mi andava di incrociarci. Feci poi quasi fatica ad alzarmi dalla sedia della scrivania. Mi trascinai in camera, mi sfilai i pantaloni, e forse prima ancora di toccare il cuscino caddi fino al giorno dopo nel sonno più profondo che avessi mai provato.