Quelle saltuarie telefonate con Greg erano, come detto, l’unica nota gradevole del mio secondo anno a Glasgow. Non c’era dunque da sorprendersi se mi ero attaccato al lavoro da Leonard e a quella vecchia mansardina come un naufrago a un tronco d’albero. Come magazzino, Leonard usava un piccolo sottotetto, in cima a delle strette scale di legno che salivano da dietro una porta scura sul fondo del locale. La porta del sottotetto, in cima alle scalette di legno, era sulla sinistra. Sulla destra c’era un’altra porta, che però non mi era mai capitato di aprire.

Lo avevo fatto un giorno di metà dicembre, dopo aver preso dal magazzino una scatola di liquori e lattine per il carico del frigorifero. Avevo trascinato fuori la scatola e, mentre mi chinavo per raccoglierla, mi era caduto per l’ennesima volta l’occhio sulla porta di legno bianco dall’altra parte del pianerottolo. Ero piuttosto di corsa quando salivo a fare il carico e il timore di farmi sgridare da Leonard mi aveva sempre impedito di fermarmi a curiosare. Quel giorno però Leonard, dopo avermi mandato su, aveva imprecato e poi gridato che andava un attimo dall’elettricista. Mi ero dunque voltato e avevo osservato qualche istante la misteriosa porta chiusa. Mi ero guardato intorno, come se potesse vedermi qualcuno, poi mi ero avvicinato e avevo messo la mano sulla maniglia. La porta si era aperta scricchiolando e forzando appena. Oltre la soglia, si apriva una seconda mansarda: completamente vuota, il pavimento di legno scuro e ruvido, qualche macchia di umido sui muri. Eppure pareva tutto sommato in buone condizioni e in fondo alla stanza si trovava un piccolo camino in mattoni. Da un lucernario sul tetto filtravano le scritte colorate del locale di fronte. Ero rimasto un paio di minuti in mezzo alla stanza e mi ero d’un tratto immaginato lì dentro a studiare e lavorare, a lume di candela se necessario, vicino a un bel fuoco acceso. Quando poco più tardi Leonard era rientrato, io stavo ancora sistemando il carico nel frigo. Era andato nel ripostiglio, aveva armeggiato con qualcosa ed era tornato con un piccolo cacciavite in mano. Si era dunque messo non molto distante a disfare la presa del frullatore.

«Ho visto la mansarda al piano di sopra» avevo detto dopo un po’, mentre appoggiavo una bottiglia di acqua tonica su un ripiano.

«Mmm» aveva risposto Leonard tentando con fatica di forzare una vite che teneva insieme la presa elettrica.

«Di chi è?»

«È mia, di chi deve essere?»

«E non ci fai niente?»

«All’inizio avevo pensato...» si era interrotto un attimo e aveva strizzato tutta la faccia nello sforzo di allentare la vite, che dopo un paio di secondi aveva fatto un croc e si era mossa. Leonard aveva finito di estrarre la vite, aveva quindi aperto la presa e ci aveva guardato bene dentro, poi mi aveva gettato un’occhiata. «... avevo pensato di metterci l’ufficio, ma faceva troppo freddo e l’ho lasciata lì com’era.»

«E non hai intenzione di farci niente?»

«Mah, non lo so. Per ora no.»

Leonard aveva finito di sistemare la presa e io avevo finito di sistemare il carico e la serata aveva poi ripreso come al solito.

Non ci avevo più fatto cenno, ma l’immagine di quella benedetta mansardina aveva continuato a tormentarmi senza sosta, e ogni giorno che tornavo a dormire nello studentato mi veniva da vomitare. Detestavo ormai tutto e tutti: i miei coinquilini, quel viavai di studenti, gli ammiccamenti, gli sguardi di intesa, il freddo, la luce sempre di taglio e le diciotto ore al giorno di buio, le macchine che procedevano nella direzione sbagliata, il Kibble Palace e il grigiore e tutta Glasgow. L’unica salvezza mi pareva il riparo di quella piccola mansarda sopra il Leonard’s Lodge. Quando la settimana successiva ero arrivato al locale, non ero nemmeno riuscito ad aspettare di aver posato la giacca.

«Senti, Leonard, ci ho pensato parecchio, e mi chiedevo se saresti disposto ad affittarmi la mansardina.»

Leonard stava passando uno straccio sui bassi tavolini davanti ai divani. Si era bloccato e si era voltato a guardarmi.

«Affittarti che?»

«La mansarda.»

Lui era rimasto fermo a fissarmi senza dire niente e dopo qualche secondo avevo avvertito un leggero disagio risalirmi la schiena. Mi sentivo piuttosto goffo, ma non sapevo bene dove guardare e cosa fare.

«Vabbè, ho capito, lascia perdere» avevo detto dopo qualche altro secondo, con un’innegabile punta di stizza. In realtà non avevo nessuna voglia di lasciar perdere, ma non sapevo come trarmi da quella situazione scomoda. Ero andato fino alla porta dello sgabuzzino, l’avevo aperta, avevo attaccato al solito appendino la giacca e la sciarpa color prugna e un paio di maglioni, ero andato dietro il bancone e mi ero accovacciato in terra per vedere cosa mancava per il carico. Leonard nel frattempo si era rimesso a passare il panno sul ripiano dei tavolini.

«E che ci vorresti fare?»

Mi ero alzato lentamente, con il cuore che prendeva a rimbombarmi nel petto, e per un attimo mi era parso di sentire da qualche parte i fiati di un’orchestra.

«Non lo so. Stare lì, credo. Studiare, passarci del tempo, farmi i fatti miei.»

«E non puoi stare a casa tua?»

«Casa mia fa schifo, Leonard. Vivo con un coglione palestrato, uno sciita che ci impedisce di fare qualunque cosa e uno sfigato irlandese la cui massima aspirazione sarebbe girare film porno.»

«Film porno?»

«Sì, vorrebbe farsi chiunque ma non se lo fila nessuno. Ho provato a presentargli la compagna brufolosa di un mio amico che prima o poi si sono fatti tutti, ma dice che è uno sfigato pure lei.»

Leonard aveva abbozzato una risata e aveva continuato a passare lo straccio prima sui due tavolini che restavano, poi sul vecchio juke-box rotto e su tutte le superfici lucide. Lo faceva ogni giovedì. Le bottiglie dietro il banco, invece, le spolverava il martedì.

Io, dopo averlo guardato qualche momento passare lo straccio in giro e aspettando inutilmente un suo cenno, ero risparito sotto il banco, avevo finito di controllare cosa mancava per il carico, avevo raccolto il solito scatolone dallo sgabuzzino e mi ero avviato al piano di sopra a raccogliere succhi e bottiglie. Prima di tornare giù, avevo riaperto un attimo la porta della mansarda, tanto per gettarci un’altra occhiata. Pareva ancora più pulita e accogliente di quando ci ero entrato la settimana prima e avevo quasi l’impressione di poter distinguere laggiù la mia sagoma, davanti al fuoco acceso, con un libro in mano, steso in terra su dei cuscini. Un raggio di luna piena mi illuminava parte del volto.

Quando ero risceso, Leonard stava battendo e rimodellando i cuscini dei divani. Lo straccio gli stava appeso a una spalla come i baristi dei film. Io mi ero di nuovo avviato dietro il banco e avevo preso a tirare fuori le bottiglie.

«E per il freddo come fai?» Era d’un tratto comparso anche lui dietro il banco e mi aveva spaventato.

«Gesù» avevo detto sospirando, poi avevo ripreso un attimo fiato. «Ho parlato con Larry, il proprietario del pub qui di fronte. Gli ho chiesto dove prende la legna per il loro camino. Dice che un tipo gliela porta tutti i mercoledì mattina da fuori città. Gli ho chiesto se ne potevo prendere un po’ anche io e mi ha detto che secondo lui non ci sono problemi. In realtà mi ha anche detto che potremmo prenderla insieme e magari ce la fa pure pagare un po’ meno, o se non altro mi farebbe il suo stesso prezzo.»

Leonard aveva sorriso appena.

«E quando gliel’avresti domandata a Larry, questa cosa?»

«Che ne so, due o tre giorni fa.»

Leonard aveva scosso la testa sorridendo.

«Ti costerà almeno metà di quello che guadagni.»

«Non c’è problema.»

«E dovrai venire a darmi una mano anche il martedì.»

«Non c’è problema.»

«E ci potrai stare solo quando ci sono anche io. Non voglio casini.»

«Non c’è problema.»

«E dovrai venire tutti i giorni a pulire il locale e i cessi.»

«Non esagerare, Leonard, non sono così disperato.»

Leonard si era fatto una risata, poi mi aveva dato un colpetto in faccia con lo straccio piegato in due ed era tornato a sistemare i divani.

Avevo dunque la mansardina. Non mi pareva vero. Il sabato successivo ci avevo passato tutta la mattina e il pomeriggio con il secchio e gli stracci per tentare di levare tutta la polvere e dare all’ambiente una parvenza di dignità. Il lucernario era mezzo incrostato, e per un attimo, nel tentativo di aprirlo, mi era venuto il dubbio di poterlo rompere. Poi per fortuna si era mosso e, mentre una raffica di gelo irrompeva dal vetro spalancato, mi era sembrato di sentire la stanza che riprendeva a respirare. Il pavimento di legno era scollato e curvato in più punti, ma, una volta pulito, i profondi solchi scuri delle venature parevano le rughe che avrei desiderato portare in volto da vecchio. Avevo anche pensato di comprare della vernice e ridare una passata ai muri, ma tutto sommato per il momento quelle due o tre macchie di umido non mi dispiacevano. Verso metà pomeriggio ero dovuto scendere a riscaldarmi mani e corpo con una grossa tazza di tè bollente. Ero tutto intabanato nella mia giacchetta e nei miei strati e portavo calzato in testa un grosso cappello di lana da pescatore.

La mattina successiva, a Barras, avevo comprato da un bric-à-brac un po’ di mobili. Il mercatino di Barras era, per me, come l’avventura in un nuovo continente. È corretto qui specificare che quando parlo di Glasgow ne parlo sostanzialmente a sproposito. Glasgow è una città piuttosto vasta e complessa, la cui tortuosa storia si snoda dai celti fino alle più recenti rivolte operaie. La granitica identità scozzese e il recente abbandono della grande industria, soprattutto navale, hanno lasciato una sorta di bizzarra palude cittadina in cui riesce a crescere una straordinaria varietà di aggregazioni e forme di vita. C’era chi dunque, di quando in quando, raccontava di luoghi come l’East End, Ibrox, Maryhill... luoghi dove peraltro accadevano cose apparentemente straordinarie: accoltellamenti, risse tra bande, rapine. Carlo, un mio compagno di facoltà, interrogato un giorno all’uscita da una lezione di algebra sul perché avesse un occhio nero e gli spessi occhiali da vista rabberciati con del nastro, aveva raccontato a me, al professor McKenzie e ad altri due compagni, di essere finito nell’East End in mezzo a una parata degli Orange con indosso un giubbotto verde. L’arancione è il colore dei protestanti britannici, il verde quello dei cattolici celtici: non mi intendo molto di calcio, ma mi sono fatto l’idea che sarebbe un po’ come andare in curva Sud all’Olimpico con indosso una maglia della Lazio. Pare che dei poliziotti avessero visto d’un tratto Carlo che vagava da solo in mezzo alla strada con aria apparentemente sfrontata. Lo avevano osservato fermarsi all’improvviso e fissare inebetito la folla che già lo stava puntando. Carlo ci aveva raccontato di aver visto quell’informe massa di enormi uomini vestiti di arancione e di essersi come bloccato. Si era poi sentito strattonare forte da una parte e sbattere a terra. Si era sentito pestare da quelle che gli sembravano decine di mani e rivoltare e piegare in maniera innaturale le braccia dietro la schiena. Provava a guardarsi intorno, ma tutto quello che ricordava erano abiti scuri e grida incomprensibili in scozzese e l’asfalto che gli schiacciava la faccia. Era stato preso e ammanettato e anche un po’ menato dai poliziotti in tenuta da sommossa, che dopo averlo rialzato lo avevano sbattuto dentro una camionetta. Carlo, stralunato e terrorizzato, continuava a chiedere cosa fosse accaduto e cosa ci facesse in quella camionetta e perché lo avessero picchiato e arrestato. Nel delirio invocava anche la presenza dell’ambasciatore italiano e, dando dei grandi scatti da autistico con la testa – lo faceva di tanto in tanto anche a lezione –, continuava a ripetere che era inaccettabile, inaccettabile, inaccettabile... Un giovane poliziotto, forse l’unico che avesse intuito come stavano effettivamente le cose, gli aveva riportato gli occhiali rotti chiedendogli scusa. Ci era voluto non poco tempo e non poche grida per chiarire che Carlo non era un violento neoceltico in preda a deliri eroici, convinto di affrontare da solo una sfilata degli Orange, ma semplicemente uno sprovveduto studente italiano che tutt’al più meritava dello scherno e un po’ di compassione. Finita dunque la manifestazione, i poliziotti lo avevano fatto scendere dalla camionetta e dopo avergli detto di rivoltare il giubbotto verde gli avevano spiegato come tornare verso l’università. Carlo si era avviato spaurito per una delle larghe squallide strade dell’East End, con il giubbotto al contrario e un occhio mezzo nero e sul naso gli spessi occhiali retti da una sola stanghetta, guardandosi continuamente intorno come se stesse entrando in una casa disabitata. I tre poliziotti rimasti dovevano averlo osservato allontanarsi, poi si erano sicuramente dati di gomito ridacchiando e si erano di nuovo avvicinati. Uno era sceso e aveva detto a Carlo di risalire.

«Ancora?» aveva detto Carlo sul punto di scoppiare a piangere.

«Ti portiamo a casa.»

Carlo era dunque rimontato sul retro della camionetta e, per la prima e ultima volta, aveva condiviso un brandello di vita con un vero delinquente: il tragitto in cellulare. Quando i poliziotti lo avevano rimollato davanti al Main Gate dell’università gli avevano domandato sorridendo se da lì sapeva tornare a casa.

«Sì, grazie» aveva detto.

«Prego» aveva risposto il poliziotto alla guida. «E stai lontano dall’East End. Anzi, cerca di stare lontano da tutto ciò che non è il campus dell’università.»

Finito il racconto, ci eravamo tutti fatti una risata, e gli avevamo detto che non era un brutto consiglio.

«Forse è arrivato anche il momento di buttare quel giubbotto verde» aveva aggiunto il professor McKenzie mentre scuotendo la testa e sorridendo finiva di rimettere dei quaderni e dei libri nella sua cartella di pelle.

«Ma è un regalo di mia mamma.»

«Appunto.»

E come questa, in quattro anni di università, di storie ne avevo sentite parecchie. Per quanto mi riguardava avevano tutte lo stesso sapore esotico di battaglie notturne nei dintorni di Baghdad e discese del Fiume Giallo. Non ero mai stato né nell’East End, né a Ibrox, né in nessun altro quartiere della città che non fosse il centro o Hillhead, la zona dell’università. Spingermi fino in fondo a Queen Margaret Drive e andare a cena da quel paio di amici che abitavano in zona – non più di dieci minuti a piedi – aveva già per me il sapore del viaggio. In ogni città dove ho abitato, in un tempo sorprendentemente breve, sono stato in grado di gettare la mia ristretta ma molto solida rete di luoghi dove trovare le fondamentali necessità e sentirmi a casa, e in buona sostanza ne sono sempre evaso il meno possibile. Da qualche tempo, questo mio radicato rifiuto della novità è un altro dei fastidiosi elementi che scaricano su di me ceste di insinuanti e affilati punti interrogativi, ma in precedenza non era mai stato un gran problema. Solleticato da diverse discussioni, avevo tentato di farmi qualche domanda, ma alla fine avevo deciso con una certa serenità che non aveva affatto l’aria del nodo irrisolto o della fobia: assomigliava più a banale disinteresse. Ho abitato in parecchi luoghi, e ne ho sempre vissuta solo una piccola parte. E allora, che male c’è? Comprendo bene il fascino dei paesaggi nuovi, capisco che possa riempire di eccitazione, e rispetto chiunque decida di dedicare a queste attività un sacco di tempo e denaro, se non i momenti migliori della propria vita. Ma se a me non viene in mente, che ci devo fare? Di tanto in tanto, nel corso degli anni, questa cosa mi ha trascinato in inutili polemiche. Qualcuno sorride, qualcun altro lascia perdere, altri ancora si innervosiscono. Non capiscono come sia possibile che non ami viaggiare: questo di solito il sottotesto più o meno esplicito del discorso.

«Che ne so» ho imparato a rispondere. «Non amo nemmeno le melanzane, ma non mi sono mai trovato a doverne discutere.»

Avevo scoperto che questa frase riusciva spesso a mettere a tacere anche i più cocciuti.

Il giorno in cui Mathías, l’anno prima, mi aveva proposto di fare un giro a Barras, mi era parso di andare chissà dove. Era una fredda domenica mattina e me ne stavo bello tranquillo a leggere sotto le coperte.

«Dài, alzati, andiamo a Barras» aveva detto Mathías, entrando come al solito senza bussare.

«Dove?»

«A Barras. Ma possibile che quando entro non ti becco mai a farti una sega?»

«E dov’è Barras?»

«In nessun posto: qui a Glasgow, subito dopo il centro. È un mercato.»

«Un mercato?»

«Sai, quelle cose dove la gente ha dei banchi e mette in vendita degli oggetti sperando che qualcuno glieli compri.»

«E che ci andiamo a fare, a un mercato?»

«Che ne so, a vedere. Non rompere le palle, muoviti.»

«Non lo so, Mathías, fa freddo, sto leggendo. In bagno ho aperto la finestra per fare entrare un po’ d’aria e non mi si staccava più la mano dalla maniglia.»

«Vestiti. È fico, Barras, sembra di essere in un altro mondo, vedi un pezzo di Scozia vera.»

Ecco, il punto forse è sostanzialmente questo: i luoghi veri. Sembra sempre che i nostri siano meno veri degli altri. Sembra che ognuno abiti delle isole plasticose e sintetiche, delle specie di scenografie, e che quelle vicino a noi siano ogni volta più autentiche. Non per chi ci vive, però: per loro quelle autentiche sono le nostre, il che rende tutto piuttosto ridicolo e paradossale. Fino a non molto tempo fa, non mi ero mai posto il problema che la mia vita potesse non essere autentica, e a dire il vero era una questione che quando mi veniva presentata trattavo con un certo sarcasmo.

Prima di uscire, Mathías aveva bussato alla porta di Ricardo e gli aveva detto che andavamo a Barras: non aveva ricevuto risposta.

Ero già stato qualche volta in centro e mi ero abbastanza abituato ai palazzoni squadrati in pietra e alle luci e a tutte quelle vetrine. Dalla fine di Argyle però, dove si trovava l’antica torre che pareva il campanile di una chiesa ormai distrutta, iniziava d’un tratto un paesaggio completamente nuovo: costruzioni basse e in qualche caso fatiscenti, sopraelevate di ferro e bulloni, obesi in tute da ginnastica sdrucite, venditori ambulanti, friggitorie. Sembrava, a distanza di appena pochi passi, di entrare in una di quelle zone losche di periferia di cui mi avevano mille volte parlato e in cui non avevo mai sentito l’urgenza di addentrarmi. Mathías era la felicità in persona. Continuava a guardarsi intorno e indicarmi dettagli apparentemente insignificanti che a me parevano piuttosto squallidi e che invece a lui parevano straordinari: le dita mozzate di una vecchia, la stampella rabberciata di un ragazzo, un gruppetto di tre uomini dai volti arrossati e le pance gonfie, due ragazzi vestiti di nero e semplicemente in maglietta, delle scarpe rotte...

«Non la senti, la vita?» domandava Mathías eccitato come un bambino.

Il mercatino di Barras era il concentrato di tutto questo, la sua espressione più intensa e cristallizzata. Un sinistro individuo con una vistosa cicatrice a traverso di un occhio, in piedi dietro un banchetto pieno di magliette e mutande e pantaloni, urlava parole incomprensibili accompagnato da un ragazzino che pareva la sua fotocopia in scala; un altro tipo grasso e con tre denti in bocca gridava anche lui dal suo banchetto di dischi e cassette usati; un vecchio smilzo lì vicino rideva e si strofinava le mani; gruppetti di anziani arrossati e con la barba incolta cantilenavano filastrocche sulla fortuna con in mano ventagli di biglietti della lotteria. Odore di catrame e incensi e marciume, il taglio rossastro della luce, l’impressione di essere in un bizzarro luogo delle favole alla fine del mondo. Alla destra e alla sinistra del vialetto principale c’erano tre capannoni pieni anch’essi di banchi e bric-à-brac. Trapani usati, servizi da tè, vinili, bambole, libri, videocassette, pistole e fucili giocattolo, macchine da scrivere rotte, citofoni, elmetti e cappelli militari, appendini, sedie, poltrone sfondate, biciclette probabilmente rubate, timoni di legno, pagliacci di stoffa, vecchi telefoni, eliche, binocoli, tende, soprammobili e chincaglierie di ogni genere.

Quando ci ero tornato per conto mio, una signora grassa e con i capelli appiccicati sulla fronte mi aveva venduto per la metà del prezzo iniziale un vecchio tavolino tarlato e due sedie traballanti e due lampade a petrolio, una in alluminio e una in ottone, poi mi aveva fatto i complimenti e mi aveva detto che ero un osso duro. Le avevo chiesto se aveva per caso anche un materasso.

La signora ci aveva pensato su, poi aveva scosso la testa.

«No, mi dispiace, non ce l’ho un materasso.» Si era dunque voltata verso il retro del suo banco. «Oh, ce l’abbiamo un materasso per questo ragazzo?»

Non vedevo da dove provenisse, ma una voce che pareva quella di una moto scarburata aveva detto qualcosa che non ero riuscito a capire. Anche con la signora all’inizio avevo fatto fatica a intendermi, ma poi ne eravamo venuti a capo.

Lei si era di nuovo voltata verso di me e aveva scosso la testa, però dopo un attimo si era bloccata e, facendomi un cenno, era uscita da dietro il banco e mi aveva detto di seguirla. Portava un’orrenda tuta pelosa rosa e il sedere ci ballava dentro come un cassone di paglia su una strada sterrata. Eravamo passati davanti a un altro paio di venditori e ci eravamo avviati fuori dal capannone. La signora si era dunque messa a chiamare qualcuno a gran voce. Un enorme individuo vestito di verde militare e con la testa rasata si era voltato e aveva detto di aspettare un momento. Stava battendo forte l’indice sul petto di un tipo più smilzo, che sobbalzava leggermente a ogni colpo. Il tipo smilzo non sembrava molto contento che gli si battesse l’indice sul petto, ma dopo poco se ne era andato senza dire niente. Quello con la testa rasata si era dunque voltato verso la mia signora e le aveva sorriso e si erano stretti la mano, poi la signora mi aveva indicato e aveva detto qualcosa. Era inutile che anche solo mi azzardassi a tentare di capirli. Il tipo grande e grosso aveva quindi preso a squadrarmi. Aveva ai lati della bocca due lunghe cicatrici che gli salivano verso gli orecchi. L’anno prima Mathías, tutto contento, mi aveva spiegato che li chiamavano Glasgow Smile ed erano i segni di una pinta di birra sbattuta in bocca mentre uno finiva di bere. Graziose usanze scozzesi. Quel volto e quel sorriso sbilenco che mi fissavano non erano affatto un bello spettacolo. Poi il tipo si era rivolto direttamente a me.

«Mi dispiace, non capisco» avevo risposto, cercando aiuto dalla mia signora. Lei per fortuna mi aveva soccorso con una frase che non avevo capito. Il tipo aveva alzato le spalle e ci aveva fatto cenno di seguirlo. Aveva girato intorno al capannone fino davanti a un furgoncino rugginoso. Dentro c’erano vari pezzi da arredamento: tavolini, sedie, una poltrona, un lampadario di cristallo, una cesta piena di posate forse d’argento. E, incastrati sul fianco, due materassi. Il tipo era salito sul furgone e, con una straordinaria facilità, reggendo l’altro, ne aveva tirato giù uno. Era un discreto materasso da una piazza e mezza, apparentemente in buona forma. Quando ci avevo avvicinato la faccia per sentirne l’odore, il grosso tipo si era sparato una risata con la signora. Aveva detto qualcosa anche a me e aveva tirato su con il naso passandosi un dito sotto le narici, ma avevo pensato semplicemente di starmene in silenzio e sorridere. Avevo dunque chiesto alla signora quanto costasse il materasso. Alla fine, con qualche difficoltà e devo ammettere un mio certo coraggio, eravamo arrivati a una cifra. Avevo domandato se era possibile portare i miei acquisti su a Hillhead. La signora e il tipo ne avevano un po’ discusso e alla fine ci eravamo messi d’accordo che me li avrebbe portati lui martedì mattina direttamente al locale.

Quando Leonard aveva visto quell’enorme losco individuo salire nel suo bar e su per le scale per darmi una mano a portare la roba, non era stato molto contento. Prima di andarsene, il grosso tipo mi aveva stretto la mano e mi aveva detto di nuovo qualcosa che non avevo capito.

«Che ha detto?» avevo chiesto a Leonard quando era uscito.

«Di passare a trovarlo a Barras. Ma chi è?»

«Un mio nuovo amico» avevo detto a Leonard strizzandogli l’occhio. «È un bravo ragazzo.»

Da un negozietto in zona avevo comprato due cuscini e delle lenzuola e qualche coperta, e quando il pomeriggio del giorno dopo avevo per la prima volta acceso il fuoco nella mansardina, dopo aver recuperato quella mattina stessa la legna, prima di andare all’università, mi sentivo come se ormai non potesse accadermi più niente. Il mondo, finalmente, sarebbe pure potuto scomparire: io avevo il mio rifugio, e mentre il caldo del camino mi permetteva di mollare da una parte le coperte e levarmi un paio di maglioni, mi pareva onestamente il rifugio più bello del mondo.

Passavo lì ogni pomeriggio e ogni sera, e la sala del Leonard’s Lodge era diventata un po’ come l’ingresso e il salotto di casa mia. Leonard aveva scoperto che gli faceva parecchio comodo avermi lì, e in breve – invece dei giorni fissi – avevamo deciso che mi avrebbe chiamato quando c’era bisogno. Non doveva fare altro che salire le scale e venirmi a bussare. Per parte mia, gli avevo garantito che se qualche sera avessi dovuto studiare più del solito e non avessi potuto dargli una mano, glielo avrei detto in anticipo. In cambio, per metà della paga pattuita all’inizio, avevo la mia mansarda. Avrei lavorato anche gratis.