I ruoli si erano definiti presto. Greg, da buon finanziatore, chiedeva conto dei lavori e quando serviva scuciva i soldi. Biagio dava una mano a Paolino a recuperare in giro i pezzi da sostituire. Prendeva quando poteva l’Ape di suo babbo e andava a Posta o giù a valle da qualche sfasciacarrozze a raccattare manicotti, leve, fasce o spinotti. Di tanto in tanto mi capitava di accompagnarlo. Mi sedevo nel cassone dell’Apino e guardavo la campagna sfilare. Ci sarebbe stata bene della musica, qualche assolo di sassofono, magari uno dei dischi di Frank Sinatra che amava ascoltare mio babbo.
Greg aveva deciso che della banda io ero quello con più gusto, così ero stato automaticamente eletto carrozziere. Mi sarei dunque occupato della riverniciatura e della scrostatura delle varie parti della moto. Il primo pezzo che avevo portato a Marino era il serbatoio. Era in discrete condizioni, ma la vernice rossa si era opacizzata e in un paio di punti si erano gonfiate delle bolle di ruggine.
Marino era perfettamente rotondo. Quando ero più piccolo, ogni anno, alla festa del patrono, si divertiva ad avermi in coppia per la tombola. Lo ricordavo fermo sui gradoni della chiesa, già brillo e arrossato dal vino: a ogni numero che avevamo mi faceva bucare la schedina con uno stuzzicadenti e rideva. Diceva che portavo fortuna. Una volta avevamo pure fatto tombola, e ci era toccato un intero prosciutto. La sera, invece che con la porchetta, avevamo deciso di pasteggiare con quello, e Marino di nascosto mi aveva pure fatto tirare un paio di belle gozzate da un fiasco di rosso.
Quando ero apparso all’ingresso del capannone, Marino dava forte di gomito su una 128 mezza coperta di toppe marroncine. Era tutto impolverato e indossava una mascherina.
«Oh, Jacopino, che ci fai con quell’affare?» mi aveva salutato, senza quasi distrarsi dal suo lavoro.
«Lo devo ridipingere.»
Marino mi aveva gettato uno sguardo, poi era tornato un momento a dare di gomito sulla 128. Si era quindi tirato dritto, aveva calato la mascherina e si era avvicinato. Con la tuta blu indosso sembrava ancora più rotondo del solito: una palla blu con una testa appiccicata sopra.
«E questo di chi è?»
«Nostro.»
«No, di che moto, intendo.»
«Una vecchia Gilera.»
«Sì, lo vedo, ma dove l’avete presa?»
«L’abbiamo trovata da Gregorio, nelle serre. Oh, Marino, mi raccomando, non lo dire a nessuno, è un segreto.»
Marino aveva un attimo alzato lo sguardo e mi aveva fissato, poi era tornato a osservare il serbatoio.
«Mi sa che era del vecchio fattore» aveva detto Marino con un tono caldo e uno sguardo che non ricordavo di avergli mai visto.
«Che fattore?»
«Non eri manco nato» aveva sorriso lui prendendomi di mano il serbatoio.
«Dici che la rivuole?»
«Dubito.»
«Sicuro?»
«Abbastanza: è morto.»
Marino aveva girato il serbatoio e aveva studiato il fondo.
«Va sabbiato. Bisogna vedere poi se è in buone condizioni e casomai ridipingerlo. Sennò ne va preso un altro.»
«E la scritta?»
«Sarebbe meglio trovarne una nuova. Poi ci diamo sopra del lucido. Il resto come è messo?»
«Il resto di che?»
«Di mia nonna. Della moto, coglione.»
«Ah. Mah, parecchia ruggine, ma direi benino.»
«Toccherà sabbiare anche il resto.»
Non avevo idea di cosa volesse dire sabbiare, ma tutta quella rinnovata intimità con Marino mi riempiva di allegria e non avevo voglia di rovinarla.
«Vuoi farlo te?» aveva detto infine.
«Fare che?»
«Il lavoro. Sabbiare eccetera.»
«Che ne so.»
«Magari ti diverti.»
Così mi ero ritrovato un paio di giorni dopo, il pomeriggio tardi, sul retro del capannone di Marino, con un tubo in mano che sparava sabbia a pressione sul serbatoio della nostra moto. La facilità con cui la vernice veniva via era elettrizzante. Era come un velo di matita morbida sotto una gomma da cancellare. Sarei potuto andare avanti per ore, avrei voluto sabbiare tutto il paese, e quando dopo appena mezz’ora avevo già finito ero visibilmente deluso.
«È venuto bene» aveva detto Marino raccogliendo da terra il serbatoio e girandolo da una parte all’altra. «La ruggine per fortuna era solo in superficie.»
«Ti sabbio qualcos’altro?»
«No, grazie, non importa.»
«Un colpettino alla Renault?»
«No, ragazzo, grazie.»
«Magari quei vecchi ferri laggiù?»
«Jacopo, vai a casa. Domani troviamo il punto di rosso per la vernice.»
Tutto aveva preso una piega inattesa un sabato pomeriggio. Eravamo arrivati in bottega da Paolino e lo avevamo trovato in terra, la schiena appoggiata all’ingresso, a fissare la moto. Pur di non mostrare la moto a nessuno, avevamo deciso di lavorare sempre all’interno, e nel paio di occasioni in cui Paolino – in preda a perforanti mal di testa causati dai gas e i vapori delle benzine – era stato costretto a mettersi fuori, l’avevamo nascosta con cura sotto un vecchio lenzuolo.
Ci eravamo avvicinati senza dire niente e avevamo preso anche noi a guardare la moto in silenzio. Non c’era rimasto ormai altro che il telaio, le ruote appoggiate di fianco e intorno decine di dadi e bulloni. L’uovo lucido del motore se ne stava da solo da una parte su tre fogli ripiegati di giornale. Pareva un cuore di alluminio. Senza saper bene che fare, eravamo rimasti anche noi in silenzio per qualche minuto.
Greg aveva poi dato un’occhiata a tutti e alzato il mento.
«E quindi?»
Paolino aveva per un attimo continuato a guardare la moto, poi si era passato il dorso di una mano sulla bocca.
«Che ci vogliamo fare?» aveva domandato.
Io, Biagio e Greg ci eravamo guardati senza capire bene.
«Che vuol dire “che ci vogliamo fare”?»
Paolino aveva alzato la testa, con però lo sguardo distante.
«Con questa, che ci vogliamo fare?»
Avevo fissato Greg e Biagio e tutti e tre avevamo alzato di nuovo il mento e abbassato gli angoli della bocca.
«Paolino, non so se capisco bene» avevo azzardato.
«Ora noi risistemiamo la moto» aveva cominciato lui. «Se abbiamo fortuna e troviamo tutti i pezzi riusciamo anche a farla partire e camminare. E poi?»
«Ecchenesò, Paolino, poi ci facciamo un giro.»
«Ma dove vuoi andarci? Non ha nemmeno la targa. La porti fuori da San Filippo e il primo carabiniere che ti vede come minimo te la fa richiudere in garage, se non te la sequestra.»
«Eh, e quindi?»
«E quindi facciamola camminare davvero.»
Avevo di nuovo guardato gli altri due senza capire. Paolino sembrava diverso, tutta la sua durezza trasformata in un’inedita materia molle e trasognante.
«Trucchiamola, cambiamola, maggioriamola. Trasformiamo quest’ammasso di ferri in un mostro da corsa. Tanto, illegale per illegale...»
D’un tratto i nostri occhi erano calati su quel telaio svuotato e quei pezzi arrugginiti. Fin dal primo istante non ci eravamo posti in nessun modo il problema di cosa avremmo fatto della moto. L’idea non ci aveva nemmeno sfiorati. Era la nostra moto, e ci bastava. Il fatto che fosse una moto era pure marginale: era semplicemente qualcosa di nostro, qualcosa di solo nostro, il primo elettrizzante passo nel magico mondo dell’emancipazione, e il fatto che si trattasse di un mezzo meccanico a due ruote o una slitta o qualsiasi altro oggetto aveva ben poca importanza. Eppure adesso ci appariva d’un tratto per ciò che realmente era: una motocicletta, un meccanismo piuttosto complesso con un compito ben preciso.
Chissà, forse in un luogo recondito della nostra coscienza ci eravamo segretamente detti che una volta risistemata avremmo scorrazzato per i vialetti di breccino del parco di Greg. Ma quella moto non era nata per il breccino: nei tempi ormai lontani in cui erano state stese le sue linee, i progettisti non avevano pensato a ciottoli e terra, ma al manto ruvido dell’asfalto. Nel frattempo però erano passati anni, anni in cui la moto era rimasta in quella rimessa a prendere la polvere, mentre il mondo e la tecnica procedevano e progredivano. Ecco dunque che la visione di Paolino ci appariva d’un tratto davanti agli occhi in tutta la sua splendida grandezza: rendere quella vecchia moto ancora meglio di quello che era, farle superare in un balzo gli anni che la separavano da noi o, se non tutti, perlomeno un buon numero. Ci era parsa subito un’idea eccezionale. Io, Greg e Biagio avevamo improvvisamente sorriso e, pur senza confessarcelo, avevamo tutti e tre capito per la prima volta che dietro la pelle dura e la massa e i silenzi di Paolino c’era una persona capace di guardare il mondo.
«E quindi, che si fa?»
«E quindi bisogna ripensare tutto da capo.»
«Cioè?»
«Bisogna maggiorare le gomme, il motore, i freni, il carburatore. Bisogna alleggerirla, buttare i pezzi inutili, aprire lo scarico... bisogna fare un sacco di cose.»
Paolino parlava con una carica che non gli avevamo mai visto, e per qualche secondo mi era parso di sentire tutt’intorno particelle che vibravano a frequenze più alte.
«E ci saranno da spendere molti più quattrini» aveva aggiunto alla fine Paolino, senza però la solita arroganza, calando leggermente con il tono di voce.
Ci eravamo dunque girati verso Greg, con il terribile dubbio che l’intera visione potesse sgretolarsi improvvisamente davanti ai nostri occhi.
«Non c’è problema» aveva detto ancora Greg.
Paolino non era riuscito a trattenere un sorriso e per la prima volta, pur senza alzarsi da terra, ci aveva stretto la mano uno a uno.
Paolino e Biagio avevano preso a vagare per tutti gli sfasci della bassa, alla ricerca di pezzi che potessero fare comodo. La moto era stata completamente smontata. Le ruote e i fari e i freni e tutto lo scarico erano finiti in uno scatolone a prendere la polvere, il motore aperto e sventrato. Per un attimo Paolino si era domandato se non fosse una buona idea cercare un motore nuovo da adattare, ma non era riuscito a trovarlo, e tra l’altro era innamorato della frizione a secco, che diceva essere una rarità. Aveva dunque rialesato e lucidato bene il cilindro e da un misterioso tipo di Viterbo si era fatto fare un pistone a doppia fascia nuovo di zecca. Era riuscito a recuperare e adattare un carburatore 36 Dell’Orto e da un suo amico si era fatto rimodellare e alleggerire la biella. Una volta sabbiato, avevamo fatto rinforzare il telaio da Sergio, il fabbro, con quattro piastre, e ci eravamo fatti saldare due nuovi bracci per il forcellone posteriore, su cui, al posto degli stretti cerchi della Gilera, Paolino era riuscito a riadattare quelli di una Ducati Mark 3.
Aprire infine quel pacco con i timbri postali svedesi era stato come girare la chiave nel lucchetto di un forziere. Attraverso un ennesimo contatto, Paolino era riuscito a farsi spedire dalla Öhlins – e questa volta per un attimo la cifra aveva fatto tentennare pure Greg – due ammortizzatori posteriori e un intero forcellone anteriore compreso di piastre. Erano tutti dorati, le molle gialle canarino, e nella penombra della sera pareva davvero di trovarci davanti a un tesoro. Gli occhi di Paolino brillavano come quelli di un tossico davanti all’eroina e mentre ci diceva che con quegli ammortizzatori quattro anni prima Eddie Lawson aveva vinto il campionato cinquecento su strada, a noi ci pareva già di essere in mezzo a corone di alloro e gente in tuta di pelle.
Ormai Biagio metteva le mani sulla moto come se fosse sua e io avevo iniziato a sentirmi inutile e geloso. La nuova versione della moto aveva ridotto di parecchio i pezzi della carrozzeria, e già da un po’ io e Marino avevamo finito di sabbiare e dipingere quello che restava. Per quanto la fase di verniciatura avesse richiesto più tempo del previsto – continuavano a formarsi gocce che faticavo a mandare via e Marino si era intestardito a non aiutarmi –, tutta la faccenda si era risolta piuttosto in breve. Peraltro l’entusiasmo con cui avevo riportato i pezzi brillanti e rinnovati era stato celebrato da una discreta indifferenza.
Passavo lì in bottega da Paolino e trovavo sia lui che Biagio piegati e sporchi sulla moto, a parlare – come se lo avessero sempre fatto – di cose che io non conoscevo e che impiegavano troppo a spiegarmi. Oppure, e pareva ancora più frustrante, in perfetto silenzio, ognuno al lavoro per conto suo eppure perfettamente coordinati: una mano di Paolino che compariva e una chiave che Biagio calava, poi al momento giusto un dado e una pinza, poi magari un semplice “vai” e Biagio che teneva fermo un manicotto e Paolino che stringeva un bullone.
Avevo provato all’inizio a chiedere cosa fosse questo o quel pezzo e se volessero una mano, ma ogni volta mi dicevano che non c’era bisogno e le spiegazioni tra un lavoro e l’altro erano sempre vaghe. Finiva quindi che restavo lì da una parte a guardarli lavorare, seduto su una Vespa o un trabiccolo qualunque.
Era stato in quei giorni che era venuta fuori la storia della Sandra. Quando Greg si era affacciato all’ingresso della bottega, Biagio e Paolino erano ad armeggiare su qualche pezzo al banco da lavoro, sotto la luce, e io me ne stavo da solo a giocherellare con un brandello di camera d’aria.
«Allora, la Sandra?» aveva domandato Greg.
Io lo avevo guardato annoiato e senza capire.
«La che?»
«La cosa, lì, la moto.»
«Ah, boh. Stanno aggeggiando qualcosa sul motore. Paolino ha preso un pezzo nuovo.»
Greg li aveva guardati un minuto lavorare.
«Vabbè» aveva detto poi senza nemmeno entrare. «Ci si vede.»
Gli altri non si erano manco voltati, e la cosa sembrava essere passata senza che nessuno ci facesse caso. Poi però pian piano avevamo iniziato tutti a chiamarla Sandra, e ogni volta per qualche motivo ci veniva da sorridere.
Un pomeriggio mi era di nuovo caduto l’occhio sulla foto di Randy Mamola appesa in fondo alla bottega. Era sdraiato sul cordolo di una curva, il ginocchio in terra e la testa piegata dalla parte opposta, a cavallo della sua Yamaha bianca e rossa coperta di scritte, con davanti la toppa gialla e il numero 3. La vedevo tutti i giorni, quella foto, e passavo sempre ad altro come se niente fosse. Quella volta però mi era capitato di guardarla in maniera diversa: preso dalla noia e da ridicole ambizioni, avevo pensato che quella moto poteva essere la nostra, sdraiata e lanciata a sfidare le leggi della fisica. E avevo d’un tratto capito che c’era qualcosa a cui stupidamente non avevamo pensato.
Me ne ero così andato verso il capannone di Marino. Era incastrato in una Uno incidentata, a smontare qualcosa sotto il piantone dello sterzo, con una luce attaccata al volante. Dopo qualche secondo aveva girato leggermente la testa e mi aveva gettato uno sguardo.
«Oh, ragazzo, allora?» aveva detto rimettendosi al lavoro.
«Bisogna rivestire la moto.»
Marino si era fermato e mi aveva mostrato il volto aggrottato.
«Bisogna fare che?»
«Rivestire la moto.»
«Rivestire?»
«Sì, rivestire.»
Marino si era riabbassato sotto il volante.
«Ragazzo, non so di cosa stai parlando.»
«Hai presente le moto da corsa?»
«Eh.»
«Tutta quella roba che le riveste.»
«Le carene?» aveva domandato Marino continuando ad armeggiare.
«Eh, le carene.»
«E allora?»
«Come si fa a farle?»
Marino aveva abbozzato una risata.
«Diosanto, ragazzo, è un casino. Sono in plastica, ci vogliono gli stampi.» Aveva tirato fuori un braccio. «Passami le pinze che sono sul sedile.»
Sul sedile nero della Uno c’erano delle lunghe pinze a becco con il manico blu. Le avevo raccolte e messe nella mano grassoccia di Marino. Lo avevo guardato e ascoltato traccheggiare qualche secondo sotto il piantone dello sterzo, poi se ne era venuto fuori con in mano una grossa fascetta di metallo e si era messo a sedere sul bordo della macchina.
«Potresti provare con la vetroresina.»
«La vetroresina?»
«Sì, magari se vuoi te ne procuro un po’ quando scendo al colorificio, loro ce la dovrebbero avere.»
«E che ci faccio con la vetroresina?»
«Ci fai quello che vuoi, ma non è tanto facile. È una resina bicomponente in cui inzuppi e modelli dei fogli di lana di vetro. Poi la lasci seccare e diventa molto dura e resistente. Un paio di anni fa ci ho rivestito la vasca incrinata, qui dietro il capannone.»
Marino si era alzato con un sospiro dal bordo della Uno, aveva caracollato fino all’incudine posata sul banco da lavoro e, dopo averci appoggiato sopra la grossa fascetta, aveva raccolto un martello e le aveva dato due bei colpi. Poi si era fermato.
«Bisogna capire però come farci delle carene.»
Un paio di giorni più tardi, raccolte tutte le misure utili della moto, io e Marino ci eravamo ritrovati davanti a quei grandi barattoli di resina e indurente e a quei fogli bianchi di lana di vetro e avevamo iniziato a porci il problema di come modellare una base resistente su cui appoggiare e far seccare le pezze impregnate.
«La rete da polli» aveva azzardato dopo un po’ Marino.
«La rete da polli?»
«Eh, la rete da polli.»
«E che ci fai, con la rete da polli?»
«La modelli e ci metti sopra la vetroresina. Dovrebbe funzionare.»
Per un attimo avevo guardato Marino per capire se era pazzo o un genio. Mi ero fatto prestare il Sì, ero corso dal Testucci e mi ero fatto dare due metri di rete da polli. In breve, guardando le foto di un paio di moto da corsa e tentando di seguire le misure che avevo preso della nostra, ero riuscito a dare una vaga forma alla rete. Marino mi aveva prestato una tuta da lavoro e un tavolo e una mascherina, e le tre o quattro volte successive che avevo trovato il tempo di andare da lui avevo iniziato a coprire la rete con le pezze di lana di vetro imbevute di resina. All’inizio ci eravamo convinti di rivestire tutta la moto, proprio come quelle vere, poi però ci era parso un peccato coprire l’uovo lucido del motore e ci eravamo limitati a un bel cupolino rotondo, che riparasse dal vento e desse l’idea di una moto da gara, ma che non la mascherasse troppo. Ero riuscito a fare una discreta base e una volta davanti ai pezzi grezzi ci eravamo di nuovo ritrovati a osservare il risultato e domandarci come andare avanti.
«L’unica è stuccare e lisciare tutto.»
«Cioè?»
Marino era andato a prendere un grosso barattolo di metallo, lo aveva aperto, con una spatola ne aveva messa una parte su un pezzo di legno, ci aveva aggiunto da un tubetto un’unghia di pasta rossa e aveva mescolato, girando e rigirando la pasta su se stessa fin quando il rosso non era completamente sparito, integrandosi alla tinta marrone dello stucco. Aveva quindi raccolto il cupolino e ci aveva spalmato sopra, stendendola il meglio possibile, una bella dose di pasta. La spatola sobbalzava sulle irregolarità della vetroresina, ma ne riempiva una buona parte.
«Sarà un lavoraccio» aveva detto Marino. «Dovrai stuccare tutto e scartarlo bene, ristuccare e riscartarlo, fino a quando non sarà tutto uniforme.»
Era stato effettivamente un lavoraccio. Passavo ore a strusciare la carta a vetro su quel benedetto cupolino senza vederne mai la fine. Ogni volta mi pareva di esserci, poi, appena sciacquavo la superficie, continuavano ad apparire decine di frustranti irregolarità. Nel frattempo, di quando in quando, anche per ripagarlo del tempo che gli rubavo e degli strumenti che mi prestava – per non parlare della quantità di stucco che usavo e per cui non mi avrebbe mai chiesto una lira –, davo una mano a Marino con qualche lavoretto alla carrozzeria. Finiva che anche lì mi ritrovavo a stuccare: avevo preso ormai un tale garbo e il cupolino era talmente difficile, che le superfici piane delle auto erano una boccata d’aria fresca. Non era esattamente ciò che io o i miei avevamo immaginato per il mio futuro: ma male che andasse mi sarei potuto mettere a fare il carrozziere, e tutto sommato non mi pareva una brutta fine.
Per raffinare il lavoro, Marino mi aveva dato degli spessi pezzi di legno curvo, su cui adagiare la carta a vetro e passarla in maniera uniforme. Quando infine mi ero ritrovato davanti a quelle forme lisce e levigate, con i muscoli del braccio che ancora mi vibravano sotto la pelle, avevo provato un’inconfondibile momento di esaltazione: parevano le curve più eleganti su cui avessi mai puntato gli occhi, e per chissà quanto tempo non avrei più provato la stessa travolgente soddisfazione.
Con tutto il lavoro e lo stucco e la rete da polli che avevamo impiegato, il cupolino era però di gran lunga troppo spesso e pesante. L’avevo usato quindi come modello. Lo avevo spalmato di grasso e ricoperto di un nuovo doppio strato di vetroresina. Una volta seccato, avevo staccato le due superfici e usato il nuovo guscio come stampo per fare il cupolino vero e proprio.
Il lavoro mi aveva rapito per giorni come un sortilegio. Me ne stavo tutte le ore che potevo lì al banco che Marino mi aveva messo a disposizione, in un angolo della carrozzeria, con la mascherina sul viso e indosso la sua tuta blu a crescenza. Le resine e le particelle volatili di lana di vetro e i solventi mi iniettavano gli occhi di sangue. La sera, quando me li controllavo allo specchio, erano gonfi e sporgenti, con sciami di fulmini rossi che si irradiavano dalle pupille. La testa mi pulsava, respiravo male, la notte spesso mi svegliavo con la gola secca e dolorante e non riuscivo a riprendere sonno nemmeno con due tazze di latte e miele. Eppure, ogni sera, Marino mi spingeva via per obbligarmi ad andare a casa: ero delirante, delirante e compulsivo, ma a mio modo felice, e sembrava che ogni rimedio al mondo si trovasse nella materia vischiosa delle resine e nella capacità della lana di vetro di avvolgere le forme e indurirsi e resistere agli urti. Se solo un qualche dio me ne avesse data l’opportunità, avrei coperto la Terra di vetroresina.
Anche Francesca aveva d’un tratto preso a guardarmi in modo strano. Se devo pensare alla parola che descrive meglio la mia storia con Francesca, è scontato. Era scontato che fosse la mia ragazza, scontato che durante la gita a Firenze di un anno prima, camminando lungo l’Arno, le chiedessi di metterci insieme, scontato che lei attraverso una sua amica più tardi mi facesse dire semplicemente «va bene», scontato che tutto il paese pensasse che un giorno ci saremmo sposati e avremmo messo su famiglia e che avremmo vissuto per sempre felici e contenti. Era scontato che il sabato pomeriggio ci trovassimo a casa di uno o dell’altra e che invece durante la settimana avessimo da studiare e che i nostri genitori si stimassero e vedessero la nostra storia di gran buon occhio. Il fatto che da un momento all’altro girassi con gli occhi iniettati di sangue e preferissi la compagnia delle resine epossidiche alla sua era forse in effetti un po’ meno scontato.
Quando alla fine mi ero ritrovato il cupolino davanti agli occhi non pensavo nemmeno che fosse vero. Per un attimo erano sparite tutte le ore che ci avevo passato sopra e gli occhi infuocati e le braccia doloranti: sembrava che un corriere lo avesse appena depositato lì da parte di qualche ditta di ricambi. Marino mi mollava pacche sulle spalle e mi diceva che gli stavo rubando il lavoro. Avevamo infine deciso di dipingerlo di rosso, con un tondo argento in mezzo e un pezzo di plastica trasparente a fare da minuscolo parabrezza.
Quando lo avevo portato a bottega da Paolino, per appoggiarlo sulla moto e trovare i punti per assicurarlo, gli altri non volevano crederci. Soprattutto non volevano credere che l’avessi fatto io. Paolino improvvisamente mi aveva guardato con quella che aveva tutta l’aria di essere una bella dose di rispetto e Greg anni dopo mi avrebbe confessato che era stato il primo momento in cui gli era venuto il netto dubbio che forse nella vita avrei davvero potuto combinare qualcosa in grado di stupirlo.
Nel frattempo loro avevano rimontato buona parte della moto, e Sergio aveva forgiato uno scarico a tromboncino, che Paolino giurava avrebbe fatto un gran baccano e soprattutto avrebbe fatto volare la Sandra come un missile.
Avevamo acceso la Sandra per la prima volta davanti alla bottega di Paolino, al tramonto, coperta dal telo per non farla vedere a nessuno. Aveva impiegato una trentina di pedalate a mettersi in moto. Paolino continuava ad aggiustare l’aria e il minimo, e per qualche istante eravamo stati silenziosamente invasi dal terrore che tutto potesse svanire in una bolla di sapone. Poi, dopo un colpo di tosse, all’ennesima pedalata, la Sandra aveva tirato un urlo e si era accesa. Senza staccare la mano dal gas, Paolino aveva gridato e alzato l’altro braccio al cielo. Sembrava di sentire i latrati delle bestie nella foresta, i primi ruggiti di un animale, e mentre ce ne stavamo lì, circondati da quelle grida, in mezzo alla nebbia di una gran fumata bianca, non riuscivamo a smettere di ridere e abbracciarci.