Mentre un vortice di terrore mi bloccava cuore e polmoni, mi ero tirato d’istinto le coperte fin sopra la testa. Il fiato riscaldava le lenzuola e mi toglieva l’ossigeno. Ancora quei colpi sinistri, e il cuore che lentamente riprendeva a battere. Dopo qualche secondo avevo abbassato appena le coperte e provato a guardare. Una sagoma scura era rannicchiata fuori dalla finestra. Mi ero di nuovo rintanato sotto le coperte e avevo tentato di convincermi che stavo ancora dormendo e che era solo un incubo. Tra un attimo mi sarei calmato e avrei finito di svegliarmi: la sagoma sarebbe sparita e mi sarei fatto una risata e mi sarei riaddormentato e il giorno dopo avrei potuto raccontare qualcosa ai miei amici.

Ma la sagoma era sempre lì, e dava ancora dei colpetti contro il vetro e mi salutava e faceva segno di avvicinarmi. Con le coperte ancora fin sopra il naso avevo strizzato gli occhi e tentato di vedere meglio, poi avevo lasciato cadere la testa sul cuscino e imprecato. L’avevo subito rialzata e guardato ancora una volta. Mi ero per un attimo abbandonato a riprendere fiato e ascoltare il cuore che riacquistava pian piano il suo ritmo. Avevo scostato in un colpo le lenzuola, mi ero fermato un istante a sedere sul bordo del letto e, lanciate un altro paio di occhiate al vetro, mi ero avvicinato alla finestra. Avevo aperto piano un’anta, fermando l’altra e tentando di non far rumore.

Fuori, appollaiato sulla tettoia che spioveva da sotto il cornicione e copriva l’entrata posteriore della cucina, c’era Biagio. Masticava un lungo legnetto e mi guardava come se niente fosse.

«Ma sei imbecille?»

«Vestiti, devi vedere una cosa.»

«Che ore sono?»

«Non lo so. Vestiti.»

Avevo di nuovo guardato sotto e intorno. La luce della luna scintillava a piccoli lampi sul prato davanti a casa.

«Come hai fatto a salire?»

Biagio aveva dato un colpetto indietro con la testa, alla sua sinistra. Oltre la tettoia su cui era appollaiato, lungo l’angolo del muro principale della casa, scendeva una vecchia grondaia di rame annerito, che mi parve di vedere allora per la prima volta.

«Vabbè, mi metto qualcosa. Te intanto vai al capanno dietro casa, c’è la scala a pioli di Enzo: io per la grondaia non ci scendo.»

Biagio si era voltato e aveva sorriso.

«Che finocchio.»

Una volta sceso dalla scala e attraversato più in silenzio possibile il giardino, ci eravamo avviati giù sulla sinistra, verso l’uscita del paese.

Era una di quelle notti di fine maggio in cui l’aria ancora frizzante inizia a prendere gli odori dell’estate. Avevo provato a chiedere a Biagio dove stessimo andando, ma lui aveva semplicemente detto di aspettare e non preoccuparmi. Arrivati in fondo alla strada avevamo svoltato sulla destra, e all’altezza delle vecchie scuole Biagio aveva imboccato le scalette in pietra che portavano ai lavatoi. Io non ci avevo mai visto nessuno, ma il babbo diceva che se le ricordava le donne che lavavano i panni, canticchiando e sbattendo le pezze sui muretti delle vasche. Noi da piccoli ci facevamo di tanto in tanto il bagno, e d’estate, quando venivano invase dai girini, ci pescavamo le rane con le teste delle margherite.

Biagio per qualche motivo di notte se ne andava sempre in giro per conto suo. La prima volta che sua mamma lo aveva scoperto aveva nove anni. Si era svegliata in mezzo alla notte e mentre andava in cucina a prendersi un bicchiere d’acqua aveva socchiuso la porta della stanza dei ragazzi per dare un’occhiata. Il fratello di Biagio, Graziano, dormiva come un animale tramortito. Di Biagio però nessuna traccia: il letto, disfatto, giaceva vuoto ai piedi dell’altro. La Betta aveva attraversato in un solo passo il minuscolo corridoio e si era affacciata in bagno, poi di nuovo in cucina. Era rientrata dunque nella camera dei figli e aveva scosso Graziano. Lui aveva russato e si era voltato dall’altra parte.

«Graziano!» lo aveva scosso più forte.

Da quel sacco di carne abbattuta si era alzato finalmente un grugnito.

«Biagio. Dov’è?»

Graziano aveva alzato la grossa testa quadrata e aveva osservato ai suoi piedi il letto vuoto.

«E che ne so?» aveva biascicato.

«Non l’hai visto?»

«No.»

«Sei sicuro?»

Graziano si era voltato guardando sua madre con furore e, tirato un altro grugnito, si era rimesso a dormire.

La Betta aveva raccolto le chiavi in cucina, era uscita e aveva controllato prima nell’aia, poi su e giù per qualche centinaio di metri sulla strada e infine dietro casa, verso le cascine, chiamando piano il nome del figlio. Avevano risposto solo qualche battere d’ali nel pollaio e un cane in lontananza. Prima di rientrare, la Betta aveva bussato alla finestra di sua sorella, nella casa di fronte, e le aveva chiesto se avesse per qualche ragione visto Biagio. Anche lei nulla.

«Vedrai che adesso torna» aveva detto la sorella mentre già richiudeva la finestra e rispariva dentro.

La Betta era quindi tornata in casa e si era messa in cucina con una tazza di latte caldo. Ai primissimi bagliori dell’alba, quando già si era convinta che sarebbe andata col marito dal Maresciallo, aveva visto Biagio risbucare dalla finestra della cucina, bloccata dall’esterno con un pezzo di cartoncino. Biagio aveva fatto un balzo e aveva appoggiato la pancia al bordo della finestra, ma una volta vista sua mamma si era gelato. Erano rimasti fermi così per qualche secondo a fissarsi: lui domandandosi cosa fosse meglio fare, se entrare o riuscire, lei tentando con tutte le sue forze di trattenere le lacrime. Era stato un attimo: la Betta era scattata in piedi e Biagio, con un istante di ritardo e sgranando gli occhi, aveva provato a gettarsi fuori, ma senza successo. La grande mole della Betta non le aveva impedito di guizzare come una lepre e in un lampo aveva già afferrato Biagio per il maglione. Appena era atterrato sul pavimento della cucina, la Betta aveva iniziato a coprirgli la testa con una gragnola di ceffoni. Biagio si era riparato con le mani come poteva e, piegato in due, si era pian piano avviato verso il letto. Le grosse mani della Betta, dure come legni, riuscivano comunque a farsi strada e mollare dei colpi secchi sul cranio che nel silenzio dell’alba dovevano suonare come bastonate. Me le ricordo bene, quelle mani: erano toste come pezze di cuoio e la Betta non penava molto ad alzarle. Un giorno ci aveva beccati a tirare i raudi nel pollaio dietro casa. Mi pare ancora di sentirle, quelle palettate secche dietro la testa, mentre ci gridava che così le galline non facevano più le uova.

Biagio alla fine era riuscito a conquistare il letto e la Betta si era fermata sulla porta.

«Ne riparliamo a colazione» aveva detto prima di chiudere.

Un paio di ore più tardi, mentre la Betta scaldava il latte e il caffè sul fuoco, Biagio era andato a sedersi al tavolino in formica rosa della cucina.

«Dov’eri?» aveva domandato la Betta senza nemmeno voltarsi.

«In giro.»

«In giro dove?»

«Così, in giro.»

La Betta si era voltata con in mano il pentolino di latte caldo e lo aveva sbattuto davanti a Biagio, su una griglietta di legno sbruciacchiata.

«Se ci riprovi ti chiudo in casa fino a vent’anni.»

Nei cinque o sei mesi seguenti Biagio era stato beccato un altro paio di volte ed erano volate altre gragnole di ceffoni e altre minacce. E tutte le volte, quando la mamma o il babbo gli chiedevano dove andasse, lui diceva semplicemente «così, in giro». Avevano anche provato a sprangare porte e finestre, ma il risultato, la mattina, era stato di trovare Biagio pallido come un cencio, abbattuto, e con due profonde fosse nere sotto gli occhi. Gli era pure venuta la febbre. Alla fine i suoi si erano arresi al fatto che tutte le mattine Biagio se ne tornava bello tranquillo nel suo letto e che ovunque fosse, quell’in giro, non doveva poi fare tanto male. Così avevano semplicemente deciso di ritardare l’ansia di due o tre ore, fino all’alba, e iniziare in caso a preoccuparsi allora. Non era mai accaduto.

Anch’io all’epoca provavo spesso a domandarmi dove fosse quell’in giro in cui Biagio amava andare, e mi piaceva colorare quel luogo di tinte eroiche e avventurose. Adesso non posso fare a meno di immaginarmelo semplicemente così, in giro, a guardare d’inverno qualche mucchio di neve e d’estate ad ascoltare i grilli nei campi. E mi domando se alla fine della storia non avesse mai chiesto altro che quello.

Biagio mi aveva guidato attraverso la colza del Sardo e oltre lo Scavone e su di nuovo per l’uliveto del babbo di Ninno. E tutte le volte che gli chiedevo dove diavolo stessimo andando lui mi diceva semplicemente di stare zitto e seguirlo. Poi d’un tratto ci eravamo trovati sul bordo di quel grande campo in cui l’estate prima andavamo a rubare i semi di girasole, sotto al balzo.

«Chiudi gli occhi» aveva d’un tratto detto Biagio.

«E poi?»

«E poi mi segui.»

«Ma sei scemo?»

«Non rompere, ti guido io. Chiudi gli occhi.»

Lo avevo fissato un momento e mi era venuto da sospirare.

«Che palle.»

Biagio mi si era messo dietro, mi aveva afferrato la cintura e aveva preso a guidarmi come un burattino. Se chiudo gli occhi sento ancora l’odore della notte, da lontano il verso di una civetta, e le spighe che mi carezzano i pantaloni.

«Aspetta» aveva detto Biagio dopo un po’, fermandosi.

«Che c’è?»

«Il balzo.»

«Apro gli occhi?»

«No.»

«Dài, Biagio, e come faccio?»

«Salgo e ti tiro su.»

Mi sarei voluto lamentare, dire che era notte e avevo sonno e non avevo alcuna voglia di starmene a occhi chiusi in mezzo alla campagna. Faceva pure piuttosto freddo. I piedi di Biagio erano scivolati sul breccino, poi mi era parso di sentirlo sistemarsi meglio.

«Dammi la mano» aveva detto Biagio da poco più in alto.

«Dove?»

«Qui.»

Avevo alzato la mano destra nel vuoto come un cieco, poi d’un tratto Biagio mi aveva afferrato. Mentre iniziavo a salire avevo sentito andare anche lui su di qualche passo, i legnetti e le frasche che si piegavano sotto i suoi piedi.

«Ecco, ora si spiana» aveva detto Biagio mentre sfioravo l’altra mano in terra per darmi equilibrio e sfilavo il piede destro da sotto una radice.

D’un tratto la mano libera non aveva più trovato terra da toccare e il piede destro era atterrato sul piano, forse erba. C’era uno strano odore amaro di catrame che si mischiava male al profumo fresco della campagna e che al momento non volevo riconoscere, ma che a ripensarci era inconfondibile.

«Ci sei?» aveva domandato Biagio.

Avevo sistemato bene i piedi, come per prepararmi a un’improvvisa corrente d’aria.

«Sì. Credo di sì.»

«Vai allora, apri gli occhi.»

Tutta quella messinscena mi faceva improvvisamente sorridere, e li avevo aperti lentamente. Ero rimasto fermo impalato, la testa e gli occhi che se ne andavano prima sulla sinistra, poi lontano sulla destra.

«Gesù.»

Biagio guardava anche lui a destra e a sinistra e annuiva sorridendo.

Eravamo in piedi sulla banchina d’erbacce della Stradaccia. La Stradaccia, come l’avevamo rinominata diversi anni prima, era un troncone di più di tre chilometri dell’antica strada che univa San Filippo a Posta, girando e curvando intorno a proprietà e avvallamenti e collinette. La strada aveva funzionato per più di duecento anni, prima che il sindaco e l’assessore venissero folgorati dall’ambizione delle grandi imprese e decidessero di raddrizzare la provinciale e aprire vie di scorrimento, rotonde e corsie di accelerazione. Dell’antica tortuosa strada che univa i due paesi, teatro – si narrava – di sanguinose battaglie che stringi stringi assomigliavano più a risse da taverna, non erano sopravvissuti che tre tronconi, separati da un lato dalla variante della provinciale e dall’altro da una nuova grande strada sempre deserta che costeggiava Posta e portava poi a valle.

La parte dell’antica strada che dava verso San Filippo era diventata l’accesso ormai semiprivato di un nuovo complesso di villette, in cui peraltro era finito a stare anche Mauro, il figlio del macellaio: l’indirizzo era, appunto, via Strada Vecchia. Mauro non aveva apprezzato molto la nuova sistemazione ed era sparito da un momento all’altro, un giorno di fine marzo. I ragazzi raccontavano di lui da qualche parte in Sudamerica, o in giro per gli oceani su un mercantile, ma i vecchi dicevano semplicemente che era un frutto marcio e la primavera l’aveva rimpiazzato. Con cosa poi fosse stato rimpiazzato, i vecchi erano sempre vaghi.

Dalla parte di Posta, la vecchia strada era semplicemente diventata un troncone qualunque che da una rotonda portava verso il cinema e il centro del paese. L’assessore era stato molto contento di quella rotonda e, preso dall’euforia, nel discorso inaugurale, aveva usato parole che lì per lì, mentre ascoltavo tenendo la mano del babbo, sembravano nascondere chissà quali meraviglie: Europa, Progresso, Terzo millennio. Pare che l’idea fosse stata effettivamente sua, e gli fosse venuta dopo una vacanza in Francia con la moglie, appena prima di scoprire che lei se la faceva con un rappresentante romano di detersivi. Il tentativo di riscatto del povero assessore era stata la brillante idea della rotonda, che per questo sarebbe per sempre stata chiamata Il Corno.

In mezzo era rimasto quel troncone di più di tre chilometri di strada bianca ormai inutile, in balia di rovi e sterpaglie e bloccata da una parte e dall’altra dalle barriere delle nuove strade. Da più piccoli capitava che ci andassimo in bicicletta, o a provare il motorino di qualche fratello maggiore, ma pian piano le frasche avevano tolto metà del divertimento, e i graffi dei pruni e le buche non valevano più le manciate di metri di strada libera. Fu in quei tempi che prendemmo a chiamarla la Stradaccia. Prima, per appena qualche settimana, rapiti da ingenui desideri di un mondo più brillante, avevamo provato a chiamarla la Pista, ma il titolo le stava appiccicato male, e qualche acquazzone, oltre ad aprire nuove buche, se l’era portato via.

E adesso era lì che mi correva davanti come un serpente indiano, tutta nera e pulita, ricoperta e rivestita e tirata a lucido: da chi e perché sarebbe a lungo rimasto un mistero, che peraltro avrebbe segretamente incrinato l’affettato cinismo di ognuno di noi.

Avevo scosso la testa e mi ero accucciato fino a terra. La luna quasi piena riempiva l’asfalto di milioni di brillantini. Avevo passato la mano sulla superficie: mi pareva di sentire i ruggiti dei motori, e le gomme che si agganciavano come artigli al manto ruvido. Avevo raccolto una manciata di polvere nera dal bordo: sembrava caduta dritta dal cielo, ed essere fatta della stessa materia della notte.

Biagio era sempre lì in piedi che mi guardava sorridendo.

«Ma quando è successo?»

«Non lo so. Ero qui la settimana scorsa ed era tutto come prima.»

«Gesù» avevo detto di nuovo guardando quel serpente nero che spariva nella campagna.

Mentre poco dopo tornavamo a casa, in silenzio e con le mani nelle tasche, parevamo due alpinisti di ritorno al campobase. Forse in fin dei conti ciò che separa gli uomini capaci di imprese sorprendenti da chiunque altro è un semplice attimo: l’attimo in cui – consapevolmente o meno – senti l’odore dell’universo e capisci che tutto è possibile. Che cavalchi le onde, comprenda le leggi elettromagnetiche o innalzi un grattacielo, ogni uomo presto o tardi è travolto dall’impercettibile e devastante intuizione che i confini del suo corpo e del mondo non sono solidi come aveva sempre immaginato. Mi domando se il mio momento non fu quello: l’istante in cui il palmo della mia mano sfiorò il mistero dell’asfalto fresco della Stradaccia.