Forse era per merito – o per colpa – di tutta l’eccitazione per quella rinnovata libertà, e per lo scoppiettio del fuoco e per la luce delle lampade a petrolio sul legno tarlato del tavolino, che l’idea di passare alla facoltà di Fisica aveva preso a insinuarsi dentro di me. Ma se ci ripenso adesso, guardando il quadro completo, era più qualcosa che aveva a che fare con la produttività, nel suo senso peraltro più industriale. La sostanziale leggerezza con cui comprendevo numeri e funzioni aveva preso, senza che me ne accorgessi, a esasperarmi. In realtà i timidi abbozzi di quella futura evoluzione erano apparsi molto tempo prima. Ero alle medie, e una mattina, mentre la professoressa Scarpelli ci spiegava il meccanismo delle potenze, mi era venuto da alzare la mano e chiedere a cosa servisse. Già un paio di volte nei mesi precedenti mi era sfuggita la stessa domanda. La professoressa Scarpelli, che aveva sempre trovato per me solo parole di straordinario elogio, se non addirittura di affetto, aveva sbuffato.
«Jacopo, se mi chiedi ancora una volta a cosa serve ti sbatto fuori e ti metto un quattro.»
A differenza di qualche mio compagno, non ero abituato a scambi tanto rudi con un professore – con nessuno a dire la verità – e la violenza di quella risposta doveva aver fatto deflagrare dentro di me un piccolo trauma. Il mio cervello ancora poco elastico doveva aver automaticamente incastrato l’“a cosa serve?” nella casella delle cose da non chiedere, soprattutto a una professoressa di matematica, e sostanzialmente non ci avevo più pensato. Non era stato difficile: la matematica mi divertiva e mi veniva bene, a che pro domandarne l’utilità? Se non altro serviva a non fare innervosire professori e genitori, che non era affatto poco. E mi faceva passare dei piacevoli quarti d’ora. E finita la scuola mi aveva portato in un altro Paese a vincere soldi e borse di studio e scoprire Frank Zappa e i Talking Heads. Eppure mi volava sempre sopra la testa l’ombra scura dell’enigmistica. Sì, adesso non tutto mi veniva automatico come una volta, e in qualche occasione avevo pure io percepito una vaga frustrazione: era però alla fine della fiera la stessa frustrazione che proveremmo davanti a un complesso rebus che non riusciamo a risolvere. Una volta disciolto, è solo la chiave per enigmi più ambiziosi. Ma intanto lassù, come un avvoltoio, continuava a ossessionarmi la stessa fatale domanda: a cosa serve?
Ormai consapevole del rischio e con il cuore che mi accelerava nel petto, avevo ancora una volta provato a riportarla a un mio professore. Questa volta però l’avevo posta in maniera meno arrogante, con nella voce un’impercettibile coda di malinconia.
Ero seduto su una panchina dei giardini botanici, accanto al professor Jones. Ci eravamo incontrati per caso. Di tanto in tanto, mentre dallo studentato camminavo verso l’università o il Leonard’s Lodge, mi piaceva passare dal parco e affacciarmi nelle serre. Amavo particolarmente il Tropical Hut. Era una piccola sezione circolare, con una vasca in cemento al centro, molto calda e umida. C’erano felci che colavano da tutte le parti e piccoli acquari con alghe e minuscoli pesciolini. Nella vasca centrale, del diametro di due o tre metri, dei buffi pescigatto con la bocca all’insù stavano a pelo dell’acqua a succhiare dalla superficie. Non c’era quasi mai nessuno e il silenzio e le gocce appese alle foglie e il leggero sfrigolare dell’acqua mi facevano sentire per qualche minuto come un avventuriero in una foresta del Sudamerica. Qualche volta mi divertivo anche ad andare nella sezione delle piante grasse: lì invece l’aria era molto secca, e si sentiva odore di polvere.
Mentre riprendevo uno dei vialetti per tornare sulla strada avevo scorto il professor Jones seduto su una panchina, davanti al grande prato con in fondo il Kibble Palace. Guardava un punto lontano davanti a sé, le mani intrecciate e appoggiate sulle gambe, fermo come una statua. Il grosso naso era più rosso del solito e il ciuffo di capelli gli si muoveva impercettibilmente nella brezza.
«Professor Jones» avevo detto avvicinandomi e inclinando un po’ la testa.
Il professore aveva alzato gli occhi e per un attimo mi aveva rivolto lo sguardo distante di un neonato, poi aveva alzato le sopracciglia e sembrava essersi riacceso.
«Oh, signor Ferri. Anche lei qui?»
«Sì, ci passo a volte mentre vado in facoltà.»
Avevo appoggiato lo zaino accanto a una delle gambe della panchina e mi ero messo a sedere anch’io. Guardavamo tutti e due il pratone e il Kibble Palace, lui appoggiato allo schienale e io con i gomiti sulle ginocchia. Il professore mi aveva chiesto come stesse andando quel mio secondo anno.
«Mah, andava meglio l’anno scorso.»
Con la coda dell’occhio avevo visto la testa del professore voltarsi leggermente verso di me.
«Come mai?»
«Così» avevo detto. Poi gli avevo raccontato un po’ di Mathías e di Krista e del nuovo studentato. Gli avevo anche detto che per fortuna avevo trovato lavoro in un locale due o tre sere la settimana e anche una mansardina in cui poter passare il tempo libero, che se non altro mi distraevano un po’.
«E il corso?»
«Eh, e il corso?»
Mi ero messo un attimo a giocare con un’unghia sbeccata, poi l’avevo detto:
«È che qualche volta mi domando a cosa serva.»
Dentro di me, nascosto appena sotto la superficie, c’era un altro volto che stava contraendo tutti i muscoli e strizzando bocca e occhi, come se aspettasse un gran botto. Invece non era successo niente, e dopo qualche secondo mi ero voltato e avevo visto che il professor Jones stava semplicemente lì fermo, a fissarmi con uno sguardo nostalgico e grave.
«Lo so» aveva detto dopo un po’, tirandosi in avanti e appoggiando anche lui i gomiti sulle ginocchia. «La matematica alla lunga non è confortante come sembra.»
Non ero sicuro di capire del tutto cosa intendesse, ma, forte dell’inattesa reazione malinconica del professore, avevo deciso di azzardare e spingermi un po’ più in là e vedere che succedeva.
«Vorrei avere la sensazione che quello che studio un giorno potrebbe avere qualche utilità. Servire a qualcosa. Sapere che non ho fatto tutto questo solo per risolvere enigmi e perché mi veniva bene. Non so come spiegare... studiare qualcosa che entri nel mondo, lo pieghi. Che entri nella vita della gente.»
«Per esempio?»
«Che ne so, per esempio la fisica, l’astronomia... non lo so. Studiare qualcosa, qualcosa di concreto.»
Il professore si era riappoggiato allo schienale e si era preso qualche altro secondo fissandomi da dietro.
«Potresti provare.»
Avevo voltato la testa e lo avevo guardato.
«Cioè?»
«Potrei parlare con qualche professore, sentire se ti fa seguire un corso, vedere se ti piace.»
«E la borsa di studio?»
«Ho detto provare. E se poi ti piace davvero, una soluzione si trova. Potresti laurearti in Fisica matematica, o in ogni caso se cambiassi dipartimento, mantenendo il tuo standard, potremmo tranquillamente proseguire con la borsa di studio. Non sarebbe la prima volta. Qualche anno fa un ragazzo indiano fece l’opposto, passò dalla fisica alla matematica pura. Si vede che a lui il mondo non interessava granché.»
«Era bravo?»
«Fenomenale. Molto strano, però. Credo che adesso sia tornato in India. Era andato a Chicago dopo essere stato qui, ma pare che le lezioni avessero iniziato a spaventarlo e avesse alla fine avuto una crisi. Un altro ragazzo mezzo indiano che studiava con lui dice che è andato a trovarlo e che non esce mai: sta tutto il giorno in camera a leggere e risolvere equazioni su pile e pile di quaderni.»
«Gesù.»
«Sì, strana storia.»
Il professore si era poi guardato l’orologio e aveva detto che doveva andare, ma che avrebbe parlato della mia questione con qualcuno e mi avrebbe fatto sapere.
Un paio di giorni più tardi il professor Jones mi era venuto a cercare in una delle classi.
«Ho parlato con il professor Marker» mi aveva detto dalla porta. «Vai domattina un po’ prima della lezione. Questi sono l’orario e l’aula. Al dipartimento di Fisica, ovviamente.»
Il professore mi aveva dunque allungato un foglietto e fatto l’occhiolino.
«In bocca al lupo» aveva aggiunto. Forse era una mia impressione, ma non era mai parso così allegro. Sembrava pure un po’ ringiovanito.
La parola, dunque, è produttività. Era parente di questa parola l’elettrizzante sentimento che mi aveva invaso fin dal primo istante in cui, la mattina successiva, mi ero avviato alla ricerca della stanza indicatami dal professore.
Il dipartimento di Matematica si trovava sulla strada che dalle scalette dietro Ashton Lane portava verso University Avenue e il Main Building. Era una squallida grigia costruzione in pietra ghiaiosa, subito accanto al Boyd Orr Building. Era tutto ciò che ti aspetteresti da un dipartimento di Matematica: preciso, semplice e noioso. La struttura lineare non aveva niente del fascino centenario delle costruzioni più antiche dell’università, né tantomeno alcun accenno dell’audacia del dipartimento di Medicina. Era un semplice banale blocco di cemento posato lì da una parte con apparente noncuranza. Gli interni non erano da meno: maniglioni antipanico e poltroncine imbottite e gran tavoli di formica. Sobrietà. “Qui regnano i numeri” sembrava dire ogni angolo del palazzo, “il resto è fuffa.”
Niente a che vedere con il dipartimento di Fisica. Quella mattina, per trovarlo, invece di entrare dal Botany Gate, ero passato dall’accesso delle auto, poco più sotto. Una stretta stradina si insinuava tra vecchie costruzioni e palazzi più recenti da cui uscivano grosse e brillanti condutture di aerazione. Pareva di essere all’entrata di una fabbrica, e se drizzavo le orecchie mi sembrava quasi di poter sentire lo sferragliare delle catene di montaggio. Non che il Kelvin Building, il dipartimento di Fisica, fosse dall’esterno molto più intrigante di quello di Matematica, eppure – mentre mi addentravo al suo interno e cercavo la scala giusta per salire al terzo piano e trovare l’aula – da dietro qualche porta ero riuscito a scorgere strani macchinari e fili elettrici e tubi di metallo. Superati un paio di corridoi molto simili alla mia facoltà, dietro una massiccia porta si erano aperte delle larghe scale di legno, che per la prima volta mi parevano raccontare le storie di tutti quelli che nel corso dei decenni o dei secoli le avevano percorse. Anche gli studenti parevano diversi. Ogni individuo che ti capitava di incontrare per i corridoi della facoltà di Matematica sembrava cupo e triste: gente con cui ti sarebbe venuto sonno ancor prima di sentirla finire una frase. Lì invece quei due o tre studenti che avevo incrociato avevano un’aria piuttosto allegra, portavano camicie e pettinature stravaganti e l’inclinazione del corpo dava in tutto e per tutto a pensare che stessero andando a fare qualcosa di eccitante. Fare qualcosa. Eccole, le parole magiche. I tubi, i macchinari, i legni centenari... tutto stava lì a disegnare un mondo in cui non ci si alambiccava il cervello per niente, ma si faceva qualcosa, si produceva, si entrava in qualche modo nella realtà con mani e piedi.
L’aula numero dodici del terzo piano era una stanza piuttosto scura piena di poltroncine imbottite. Il professor Marker era in verità una piacente professoressa di massimo cinquant’anni dai vaporosi capelli scuri, piena di collane e anelli e braccialetti. Stava scartabellando caoticamente dei fogli, e quando mi ero avvicinato e le avevo detto chi ero e che mi mandava il professor Jones, lei lì per lì pareva non aver capito. Mi guardava fisso senza dire niente, come se fossi trasparente e osservasse un punto non ben precisato alle mie spalle.
«Come?»
«Mi chiamo Jacopo Ferri, mi manda il professor Jones, dal dipartimento di Matematica.»
«Ah, sì, va bene, si metta pure seduto» aveva detto semplicemente la professoressa, poi si era rimessa a frugare tra le sue carte. Una decina di minuti più tardi, quando l’aula sembrava riempita, la professoressa aveva ammazzettato finalmente i suoi fogli, si era guardata in giro, aveva raccolto dei vistosi occhiali rossi, li aveva calzati e aveva fissato la classe aspettando che tutti si chetassero.
«Buongiorno» aveva detto.
La classe aveva risposto più o meno all’unisono.
«Allora, come sono andati gli esercizi?»
Nella classe era passato un brusio e qualche risata.
«Vabbè, dopo vedremo.»
La professoressa si era presa una pausa e aveva dato un lungo sguardo in giro, prima alle ultime file, poi pian piano fino alle prime. Quando era arrivata a me, che nel dubbio mi ero messo proprio lì davanti, si era fermata. Per qualche secondo non mi aveva staccato gli occhi di dosso e avevo iniziato a sentire un certo imbarazzo.
«E lei chi è?»
Mi ero domandato se ci fosse qualche inghippo, e avevo impiegato un istante a rispondere.
«Mi chiamo Jacopo Ferri, mi manda il professor Jones» avevo poi detto a bassa voce e sporgendomi leggermente in avanti.
«Come? Voce, ragazzo.»
Sentivo gli occhi di tutta la classe puntati su di me, e per un attimo avrei voluto bestemmiare e uscire di corsa.
«Mi chiamo Jacopo Ferri. Mi ha mandato qui il professor Jones.»
Alla professoressa Marker era parso d’un tratto spalancarsi il volto.
«Ma certo, il professor Jones... il nostro dubbioso matematico. Ragazzi» aveva detto poi rivolta al resto della classe, «il nostro amico qui davanti è uno studente del dipartimento di Matematica con le idee apparentemente un po’ confuse. Il mio amico Jones mi ha chiesto se poteva seguire il nostro corso e vedere come andava.» Avevo sentito sbucare alle mie spalle qualche chiacchiericcio e qualche altra risatina. «Ho detto al professor Jones che era forse un po’ ambizioso partire da un corso sulla Relatività, ma pare che il nostro amico qui in prima fila sia piuttosto brillante, quindi staremo a vedere.»
Ecco, ci mancava solo farmi passare per un secchione. Sarebbe stato meglio rimanere nella silenziosa sobrietà del dipartimento di Matematica.
«Ho però bisogno di un volontario che gli dia una mano e lo segua un po’.»
Lo sguardo della professoressa aveva iniziato a vagare alle mie spalle, ma, a parte qualche nuovo brusio, nessuno doveva aver dato segni di vita.
«Ragazzi, non ci posso credere» aveva allargato le braccia la professoressa, «siamo ancora a questo punto? Siete all’università, ve ne siete accorti?»
Ancora del brusio, ma evidentemente nessun braccio alzato.
«Vabbè, tu, laggiù.»
Rumore di teste e corpi che si girano.
«Sì, tu.»
Qualche risata.
«Non ricordo come ti chiami.»
«Trisha» aveva recitato una flebile e inespressiva voce in fondo all’aula.
Mi era parso il momento giusto per girarmi pure io. Nell’angolo sulla sinistra, una ragazza piuttosto minuta e con un buffo naso a bottoncino se ne stava seduta di sbieco sulla sedia. Indossava un largo cappello di lana con una piccola tesa e non si era ancora tolta il cappotto.
«Trisha. Gli dai una mano tu? Studiate insieme, magari, e se ha qualche difficoltà lo indirizzi.»
Trisha aveva spinto il mento in avanti e fatto spallucce senza dire niente.
«Molto bene. Grazie, Trisha.»
Lei si era limitata ad annuire e a forzare la bocca in una sottilissima e vaga linea di sorriso, poi si era messa a scarabocchiare qualcosa su un quaderno. Aveva infine alzato gli occhi verso di me. Avevo provato a sorridere e agitare una mano per salutarla, ma lei mi aveva risposto con quello stesso finto sorriso e si era rimessa subito a guardare il suo quaderno. Dalla classe erano arrivate altre risatine. Trisha si era voltata verso qualcuno e gli aveva mostrato il dito medio.
Fuori dall’aula, mentre gli altri studenti ci passavano a fianco continuando a ridacchiare, avevo stretto goffamente la mano a Trisha e l’avevo di nuovo ringraziata e le avevo chiesto come volesse fare.
«Io da te non ci vengo, e in biblioteca non studio.»
«Ah. Allora verrò io da te. Tu quando puoi?»
Trisha aveva alzato le spalle, ma alla fine eravamo riusciti a darci un barlume di appuntamento.
Abitava in un piccolo appartamento con due altre ragazze che detestava, ma l’affitto era piuttosto basso e la sistemazione era in effetti carina. Quando una delle sue coinquiline mi aveva visto entrare e sparire in camera con Trisha, era andata di corsa alla porta dell’altra e le aveva detto qualcosa a voce bassa, ridendo.
«Lasciale perdere» aveva detto Trisha una volta dentro.
Teneva anche in casa quel buffo grande cappello di lana con la stretta visiera, e indossava diversi strati di indumenti, uno sopra l’altro. Si era messa a una piccola scrivania e mi aveva detto di sedere pure dove volevo. In realtà non c’era tanto posto e alla fine avevo deciso di mettermi in terra. Era stato così, con la schiena appoggiata al letto di Trisha e i piedi puntati ai fianchi della sua scrivania, che ero entrato una volta per tutte nel magico mondo della fisica.
Ogni volta che chiedevo a Trisha qualche delucidazione, lei reagiva con accenni di malcelato fastidio, ma era molto chiara nelle sue spiegazioni, e per quanto sembrasse sempre sforzarsi per trovare le energie necessarie, alla fine riusciva a farmi capire ciò che voleva.
Quel primo giorno, alla mia quinta domanda, Trisha aveva sospirato e si era bloccata qualche secondo.
«Vabbè, facciamo così» aveva detto voltandosi verso una libreria sopra il suo tavolo. «Prenditi questo... e questo... e visto che ci siamo anche questo.» Mi aveva mollato in mano uno dopo l’altro tre grossi tomi. «Guardateli, poi se vuoi riprendiamo a studiare insieme. Sennò qui non ne veniamo a capo.»
«Ah» avevo detto, poi ero rimasto un attimo imbambolato senza sapere bene che fare.
«Vai» aveva detto Trisha rimettendosi al lavoro senza nemmeno guardarmi. «Ci rivediamo a lezione.»
In una settimana, dormendo massimo quattro ore a notte e restando il più possibile nella mansardina con le cuffie negli orecchi per non sentire l’eventuale baccano del locale, mentre mandavo avanti i miei corsi di Matematica, mi ero ristudiato tutto il groviglio della fisica moderna che da Galileo e Newton, attraverso Maxwell e compagni, aveva portato fino alle Trasformazioni di Lorentz e alla nascita della Relatività ristretta.
Era stata una delle settimane di studio più intense della mia vita, e forse quella che più di ogni altra mi avrebbe stravolto l’esistenza. Alcune delle funzioni matematiche che incontravo facevano molta fatica a chiarirsi, ma non appena accadeva venivo sbattuto in angoli oscuri dell’universo, circondato da onde elettromagnetiche, corpi celesti e minuscole particelle che mi vorticavano intorno come ballerine fino a farmi girare la testa. Finalmente, dietro a quelle lettere e a quei numeri, si nascondevano storie sul mondo, qualcosa che potevo osservare, o se non altro provare a immaginare, e più di una volta, preso dall’esplosione di qualche brano musicale e da un’improvvisa estasi, mi ero ritrovato sdraiato sul mio materasso a braccia aperte, con la chiara sensazione di percepire dentro di me, e ovunque intorno, le sfrigolanti vibrazioni dei campi magnetici.
La settimana successiva, a lezione, dopo avermi salutato malvolentieri, Trisha era stata piuttosto sorpresa dal fatto che le rendessi già i libri e la ringraziassi.
«Già fatto? Sei sicuro?»
Non riusciva a trattenere una chiara punta di scetticismo.
«Sì, sono sicuro. Ci vediamo domani da te?»
Lei aveva annuito perplessa e detto come vuoi, poi si era rimessa a scarabocchiare sul suo quaderno.
Il giorno dopo, aveva provato a tendermi qualche tranello. Mi spiegava questa o quella sfumatura dell’esperimento di Michelson-Morley, dando per scontati passaggi piuttosto complessi che se non avessi davvero studiato non avrei potuto cogliere, e il fatto che seguissi tutto in maniera apparentemente disinvolta doveva averla piuttosto sorpresa.
L’improvviso accenno di considerazione veniva manifestato con piccoli segnali: il breve ma spontaneo saluto quando mi vedeva a lezione, il bacio veloce che si faceva dare quando mi apriva la porta di casa, il semplice gesto di liberare l’angolo del letto su cui mi sarei potuto sistemare. Celebrava il rispetto nei miei confronti ammettendo la mia esistenza, che in fin dei conti era già un bel risultato.
Un giorno, mentre ce ne stavamo lì da lei, ognuno riverso sul proprio libro a risolvere uno degli esercizi assegnati dalla professoressa Marker (erano i rarissimi momenti in cui mi potevo togliere la soddisfazione di spiegare io qualcosa a Trisha), nella stanza accanto una delle coinquiline e qualche sua amica ascoltavano musica da discoteca a tutto volume e si strillavano discorsi incomprensibili. Dopo un po’ Trisha si era alzata di scatto, era andata di là e l’avevo sentita dire qualcosa.
«Cosa?» aveva urlato una delle ragazze.
Trisha aveva di nuovo parlato allo stesso volume di voce. La ragazza aveva abbassato la musica e chiesto di nuovo a Trisha cosa volesse.
«Potreste fare più piano, per piacere?»
Anche senza vederla, sentivo nella sua voce la fatica di restare calma. Per il poco che la conoscevo, sono sicuro che parlasse guardando un punto qualunque nel pavimento o, casomai, gettando solo brevi occhiate.
«Ah, certo, scusa» aveva ridacchiato l’altra.
Quando Trisha era rientrata, la ragazza aveva rialzato la musica. Era indiscutibilmente un volume più basso di prima, ma sempre piuttosto fastidioso. Trisha si era messa di nuovo al tavolo, aveva appoggiato i gomiti sul ripiano, si era presa il volto tra le mani e per la prima volta da quando la conoscevo aveva accennato una confessione.
«Dio, quanto le odio.»
L’avevo guardata qualche secondo. Da dietro, con quel suo grosso cappello e il maglione colorato, pareva un bizzarro extraterrestre.
«Se vuoi possiamo andare da me.»
«Sì, a giocare a carte con il tuo amico musulmano» aveva detto lei riscuotendosi e tornando quella di sempre e riprendendo con un sospiro il filo dell’esercizio. Un giorno, ridendo, le avevo raccontato di Hamal e di quando qualche settimana prima avevo tentato di insegnargli a giocare a scopa (avevo anche dovuto spiegarle cos’era la scopa). Era andato tutto piuttosto bene e, mentre per ravvivare un po’ il gioco gli stavo mostrando il meccanismo della napula, lui mi aveva guardato con gli occhi sgranati e mi aveva chiesto che ore erano.
«Le quattro e venti.»
Hamal aveva sospirato come se gli stesse morendo qualcuno ed era scappato in camera, aveva tirato fuori lo stoino e dopo averlo rivolto a sudest si era messo a fare le sue preghiere.
«Cazzo però, Hamal, nemmeno una partita a scopa riusciamo a finire!» avevo detto, in italiano per non rischiare crisi diplomatiche. Era stata la prima volta che sul volto di Trisha era comparso un vero accenno di sorriso.
«No, ho una mansardina tutta per conto mio.»
Trisha si era voltata di tre quarti.
«Una mansardina? E dove?»
«Sopra il Leonard’s Lodge, il locale dove lavoro. È piccola e non ci sono né luce né riscaldamento, ma c’è un buon camino che scalda abbastanza e ho qualche lume a petrolio.»
«E perché non l’hai detto subito?»
«Avevi detto che da me non ci venivi.»
Trisha mi aveva guardato un attimo con rimprovero, poi aveva racimolato libri e quaderni, li aveva messi nella sua borsa e si era alzata infilandosi il cappotto.
«Quindi, andiamo o no?»
Il fatto che salissi nella mansardina con qualcuno – e che questo qualcuno fosse pure una donna – mi riempiva di imbarazzo, e quando ero entrato da Leonard ero volato direttamente verso la porta in fondo al locale.
«Ciao. Vado su» avevo detto di fretta.
Leonard ci aveva visti sfilare sorridendo. Per fortuna la riservatezza di Trisha mi riparava da altri possibili intoppi e, mentre passavamo, aveva scambiato con Leonard un semplice cenno.
Era la prima volta che portavo qualcuno lì dentro, ed ero piuttosto agitato. D’un tratto la mansarda mi pareva sciatta e squallida, e più fredda del solito. Avrei desiderato possedere qualche altro mobile, anche solo un altro paio di sedie, qualunque cosa le desse una parvenza vagamente più domestica. Mi ero avviato subito verso il focolare e avevo preso a caricarlo.
«Ora è freddo» avevo detto, «ma vedrai che se stiamo qui vicino si riscalda presto.»
Avevo quindi dato fuoco a un fiammifero e acceso le due lampade a petrolio. Ne avevo lasciata una sul tavolino e avevo appoggiato l’altra vicino al letto. Mentre il fuoco iniziava a scoppiettare avevo avvicinato il tavolino al focolare.
«Se vuoi ti puoi sedere qui. Io mi metto lì sul letto, ormai ci ho preso l’abitudine.»
Avevo provato a sorridere. Mi sentivo un gran coglione: tutto preso e imbarazzato dalla propria casetta. Eppure non riuscivo a farci niente, e non trovavo il sistema per levarmi di dosso quell’aria goffa. Trisha si stava guardando intorno e per qualche motivo si era avvicinata al tetto, giù dove si abbassava fin quasi all’altezza della testa, vicino al lucernario. Fissava intensamente una delle travi e dopo un po’ ci aveva passato sopra l’indice.
«Non è granché» avevo detto.
«No, mi piace.»
Una nota diversa della sua voce, un timbro appena più caldo, mi aveva convinto che fosse sincera. Si era poi avvicinata al fuoco, si era scaldata un po’ le mani e dopo qualche minuto si era tolta il cappotto e aveva messo le sue cose sul tavolino.
Aveva anche lei iniziato a passare lì diverso tempo. La volta successiva ci eravamo incontrati per caso fuori dal Botany Gate. Ci eravamo salutati con la solita punta di imbarazzo, poi mentre me ne andavo Trisha mi aveva richiamato e mi aveva detto che nel pomeriggio le sue coinquiline facevano non sapeva bene cosa e mi aveva chiesto se poteva venire a studiare da me.
Così era andata a finire che spesso arrivava anche senza avermi avvertito, e la cosa sorprendentemente non mi aveva mai infastidito. Dopo le prime volte, Trisha aveva iniziato a guardare con una certa invidia la mia sistemazione sul letto. Aveva cominciato con dei piccoli colpi d’occhio, poi un giorno mi aveva chiesto se non preferissi stare io al tavolino. In realtà alla fine ci avevo preso un certo gusto ad allungarmi sul materasso, e avevo anche trovato un incastro di cuscini e coperte che mi teneva nella posizione ideale.
«Va bene» avevo detto.
Quel giorno, un mesetto più tardi, un glaciale freddo artico faceva fatica a restare fuori dal lucernario. Avevamo evidentemente entrambi poca voglia di studiare e trovavamo ogni scusa per distrarci. Mentre riattizzavo il fuoco, Trisha mi chiese com’era la vita nel mio paese.
«Mah, che ne so? Vita di campagna: d’estate un sacco di grilli e d’inverno un sacco di alberi spogli» dissi buttando sul fuoco un altro ciocco di legno.
«Dev’essere bello.»
«Boh, sì, immagino di sì.»
Trisha mi fissò qualche secondo e io mi fermai davanti al focolare a guardare le fiamme che giravano intorno al ciocco nuovo e prendevano pian piano a imbrunirlo.
«E la ragazza ce l’hai?»
«Ce l’avevo.»
«Non state più insieme?»
«No.»
«Perché?»
Alzai le spalle.
«Per nessun motivo particolare.»
Poi ci pensai un attimo, ripresi il vecchio forchettone da bistecca che Leonard mi aveva dato per fare da attizzatoio e diedi un colpo alla legna. Una nuvola di scintille rossastre si alzò e scomparve nella canna fumaria.
«A essere sincero, non so nemmeno se c’era un motivo particolare per stare insieme.»
«Quando vi siete lasciati?»
«Non mi ricordo. L’ultimo anno di liceo, credo, poco prima degli esami.»
«E lo avete mai fatto?»
Gettai un’occhiata a Trisha per essere sicuro di aver capito bene.
«Certo» sorrisi.
Diedi un altro colpo ai legni con il forchettone e osservai ancora una volta la nuvola di scintille salire verso la canna.
«Se vuoi te la faccio vedere.»
Mi voltai. Aveva le labbra piegate in un inedito sorriso che pareva portare anche una traccia di imbarazzo. Sentii il cuore accelerare leggermente e un afflusso di saliva riempirmi la bocca e la gola. Lei mi fissò qualche secondo, credo per decidere se farlo davvero o se ridere e lanciarmi un cuscino e dirmi che scherzava. Poi tirò su la schiena e si mise seduta di traverso al materasso. Abbassò dei lunghi calzettoni colorati, sganciò la gonna e la sfilò dondolandosi leggermente, poi ne sganciò e sfilò una seconda, viola. Mise quindi i pollici nell’elastico delle calzamaglie nere e con un solo gesto, dando un colpetto di reni, le fece scivolare fino alle caviglie e oltre i piedi. Aveva qualcosa di vagamente malinconico, nel farlo, come se avesse perso una scommessa, e per un attimo – prima che fosse troppo tardi – mi venne voglia di dirle di smettere. Sul fondo delle calzamaglie, una volta sfilate e gettate da parte, intravidi anche le mutandine. Riunì i ginocchi e ci appoggiò le mani sopra, poi si voltò e mi guardò con un’aria intimidita che forse non le avrei più visto. Una buona parte di lei si stava senz’altro ribellando e domandando cosa diavolo stesse facendo.
«Vado?»
Ancora non riuscivo del tutto a credere che stesse accadendo davvero.
«Aspetta un attimo.»
Spinsi il lume sull’angolo del tavolo più vicino a Trisha e ruotai leggermente la rotella per allungare lo stoppino e fare più luce, poi girai bene la sedia a favore del materasso e mi misi bello composto, cercando – per semplificarle le cose – di raccattare tutto il formale distacco che riuscivo a trovare.
«Vai.»
Trisha sospirò un momento, ruotò sulle natiche tenendovi i talloni bene attaccati e riadagiò la schiena e i gomiti sui cuscini. Aprì quindi prima una gamba e poi l’altra. Per un attimo, mentre lo faceva, mi saettò nella testa il dubbio di come mi sarei comportato una volta trovatomi lì davanti alle sue gambe aperte. Mi aveva divertito la sfrontatezza con cui Trisha mi aveva lanciato la sua offerta, e altrettanto il medico distacco con cui l’avevo raccolta. E poi? Tra un attimo saremmo stati lì, io seduto come un imbecille su una sedia sbilenca e lei a gambe aperte e mezza vestita, e non avremmo saputo come venirne fuori.
E intanto era apparsa. Restai impalato come un blocco di marmo, senza fiato, mentre un’onda di calma e calore mi invadeva lo stomaco e il petto.
«Gesù» dissi.
Non aveva niente di quella cosa stravagante e alle volte disgustosa che avevo visto in qualche giornaletto o nelle mutande della Marta o che Francesca malvolentieri mi aveva fatto sbirciare due o tre volte più da vicino mentre ci imbarcavamo nell’operazione goffa e freddina che ci ostinavamo a chiamare amore. Questa era una cosa nuova, morbida e rotonda, viva, che pareva guardarti dritto negli occhi e sorriderti. Qualcosa che aveva a che fare più con l’universo che con il mondo.
Mi allungai un po’ in avanti e avvicinai leggermente la sedia. Trisha alzò appena le sopracciglia e sorrise e parve d’un tratto convincersi che non aveva fatto la cosa sbagliata. Continuavo a fissarla, piegando leggermente la testa da una parte all’altra. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, era come un potente magnete, l’inizio e la fine del mondo, e d’un tratto fui risucchiato per la prima volta dall’unico vero dramma di ogni uomo: come può un qualunque brandello di carne umana stravolgerti in quel modo l’esistenza?
Gettai a Trisha un’occhiata, immagino tra l’ingenuo e il disperato.
«Posso?»
Lei sorrise e annuì. Dalla sedia lasciai cadere i ginocchi direttamente sul bordo del materasso e pian piano, con lo sguardo risucchiato e inebetito, allungai la mano. Non credevo di aver mai sfiorato niente di più morbido, mi pareva quasi di sentirla respirare nella mia mano, e mentre chiedevo ancora il permesso e mentre Trisha rideva e mentre diceva sì e mentre ci sfregavo il naso e la bocca e mentre sentivo il solletico sulle labbra e mentre la baciavo e la annusavo e la aprivo e la leccavo e mentre volevo sprofondarci dentro e mentre Trisha lasciava cadere indietro la testa e sospirava, pensavo che era la cosa più incredibile che mi fosse mai capitata e che non avrei più potuto farne a meno e che senza sarei morto e che ne sarei stato schiavo per tutta la vita e che ero spaventato e che volevo vivere e morire dentro di lei.
Trisha prese a sbottonarsi il primo dei maglioni che portava indosso. La aiutai, e finito di sbottonarlo si tirò su per sfilare anche gli altri. Per la prima volta da quando l’avevo incontrata, si tolse il largo cappello di lana. Afferrò la piccola visiera e se lo tirò semplicemente indietro, liberando una gran massa di capelli ondulati e tinti di rosso prugna, che improvvisamente le diedero un’inattesa aria adulta e sofisticata. Sorrisi e sentii un’altra ondata di eccitazione tagliarmi il respiro. Finalmente ci baciammo: anche la sua bocca era molto morbida, e anche il suo seno, e i suoi fianchi e tutta la sua pelle. Era tutta straordinariamente morbida: l’essere più morbido che mi sarebbe mai capitato di incontrare.
Quando poco più tardi ci ritrovammo nudi sotto le coperte a guardare uno accanto all’altra e mezzi abbracciati le travi del soffitto, le chiesi come mai.
«Come mai cosa?»
«Come mai tieni sempre nascosti i capelli in quel cappello.»
Lei si prese un momento, e con la mano che mi aveva girato intorno al collo giocherellò con la mia guancia e i peli della mia barbetta.
«Non so, immagino che i miei capelli non sono cosa che debba riguardare gli altri.»