Il gigantesco tassista con il turbante mi scaricò davanti all’ingresso di vetro del palazzo. Riflessi verde acqua filtravano dall’interno e tingevano parte del marciapiede. La fotocellula fece scorrere le ante di vetro oscurato della porta e fui investito da un’intensa luce bianca. Alla sinistra dell’ingresso, dietro un banco di lacca nera lucidato a specchio, un signore quadrato e con la testa rasata, in abito nero, accennò il ricordo di un sorriso e mi disse buonasera. Misi mano alla tasca per tirare fuori la carta d’identità e poggiandola sul bancone dissi che ero lì per il signor Mariani. Una minuscola traccia della mia impronta digitale rimase impressa sulla lacca nera del banco e mentre il quadrato portiere inseriva i miei dati nel computer non potei fare a meno di tirare avanti un polsino con la punta delle dita per cercare di lucidarla via.
«Molto bene» disse il portiere rendendomi il documento e indicando con l’altra mano alla mia destra. «Ascensore numero due, codice uno tre sei. Bentornato, signor Ferri.»
Gli ascensori arrivavano direttamente nelle suite, e a ogni ospite, una volta inseriti i dati nel cervellone, veniva dato un codice personale. Nessuno, in una peraltro impossibile assenza del portiere, era così in grado di andare agli ascensori e salire direttamente al piano desiderato. In questo modo, oltretutto, le entrate e le uscite degli ospiti erano registrate singolarmente dai terminali. Era un’altra delle piccole deliziose caratteristiche del Gold Club, l’esclusivissima società internazionale che – per una quota annuale che la maggior parte dei comuni mortali non accumulava nemmeno in una vita – ti metteva a disposizione in tutte le principali città del mondo suite, macchine con autista, un ampio numero di ore su velivoli privati, un maggiordomo dedicato ventiquattr’ore su ventiquattro in ogni località e un’assistente personale telefonica che seguiva ogni tuo spostamento ed era costantemente al corrente di orari, gusti, preferenze, vizi e fissazioni. Il tutto, ovviamente, nella più glaciale ed ermetica riservatezza. Greg grandi fissazioni non ne aveva, ma una sera a cena mi aveva raccontato con evidente divertimento di come un suo amico lituano, un certo Sergej, ogni volta che saliva in una delle macchine del Gold Club, trovasse un espresso ristretto e un sigaro toscano acceso, residui di un suo felicissimo periodo romano, a vent’anni, poco dopo essere riuscito a fuggire dall’Unione Sovietica. Pare che per Sergej la miscela dei ricordi romani e dell’opulenza che nel frattempo in un modo o in un altro era riuscito a raggiungere creasse un cortocircuito che lo trascinava sempre in un meraviglioso stato tronfio e nostalgico.
Avevo chiesto un giorno a Greg il perché di tutta la riservatezza e dei misteri del Club.
«Diciamo che parecchi dei soci rischiano spesso l’ira dei loro concorrenti, e anche di parecchi governi.»
«Ah» avevo detto, poi gli avevo chiesto cosa diavolo se ne facesse lui di tutte quelle pantomime. Mi aveva guardato con rimprovero.
«Ho un pacco di soldi e nessun parente. Lascia che mi tolga i miei piccoli sfizi.»
Non avevo idea del piano a cui mi stava portando l’ascensore, ma a giudicare da quanto ci metteva di certo non era il secondo.
Le porte si aprirono su una gigantesca stanza a vetri. Davanti troneggiava il monolite dell’AT&T e dietro i grattacieli del Financial District brillavano nella notte come navi all’ancora. Sulla sinistra della stanza, dalla base di quella che sembrava un’enorme cornice di alluminio, usciva un’uniforme lama di fuoco gialla e azzurra.
«Ciao, Secco.»
Mi voltai sulla destra. Greg era seduto a un tavolo nero nell’angolo della vetrata, il ciuffo biondo appena illuminato dall’unica luce accesa del ripiano. Finì di digitare qualcosa sulla tastiera di un computer, poi si allungò sullo schienale e mi fissò. Attraversai lentamente la stanza e mi avvicinai alla vetrata. Se avessi sofferto di vertigini mi sarei senz’altro sentito a disagio. Dalle casse di un impianto che non vedevo arrivava un pezzo per pianoforte di Haydn.
«Vuoi qualcosa da bere?»
Continuai per un attimo a guardare fuori e alzai le spalle. Greg sollevò il ricevitore dell’apparecchio appoggiato sul ripiano.
«Due vodka martini, grazie» disse dopo un attimo, poi agganciò e si riallungò sulla sedia. Dopo qualche secondo si alzò, percorse lentamente buona parte della stanza e andò a sedersi alle mie spalle, su uno dei due divani di pelle nera che si fronteggiavano di traverso al camino.
«Allora? Se sei venuto per guardare il panorama potevi restartene in quel tuo cesso di bilocale. Me lo dicevi e ti spedivo una cartolina.»
Lasciai passare qualche secondo, poi mi voltai. Non sapevo bene che fare e da dove cominciare. Greg se ne stava lì seduto con quella sua solita mezza piega di sorriso che mi aveva sempre divertito e che invece adesso mi tirava i nervi come la chiavetta di una chitarra. Mi diressi al divano e arrivai vicino a Greg. Lui alzò le sopracciglia e mi guardò di sotto in su da dietro la montatura nera degli occhiali. Fu un attimo. Mi lanciai contro di lui e mirai il pugno destro direttamente al volto. Greg fu però più rapido del previsto e riuscì scattando sulla sinistra a evitare quasi del tutto il colpo. Io persi l’equilibrio e caddi in avanti. Il pugno andò a incastrarsi tra il cuscino e il bracciolo del divano, e mi piegò il polso in maniera innaturale.
«Aaah!» urlai come un ragazzino.
«Ma che cazzo fai?» mi urlò sopra Greg.
Poi sentii un’incudine piombarmi sul fianco destro e l’aria che abbandonava ogni angolo dei miei polmoni e un dolore sordo al costato. Per un attimo, mentre cadevo su un fianco e tentavo di gridare, ebbi il dubbio di morire soffocato. Restai piegato in terra lì vicino al divano, senza capire se tenermi il polso o il torace. Dopo quella che sembrò un’eternità, riuscii a trovare il fiato per produrre un rantolo e mi accucciai sulle ginocchia. Il dolore al costato si stava attenuando e diffondendo, mentre il polso continuava a pulsarmi e gridare vendetta come un animale inferocito.
«Ma sei deficiente?»
Greg era lì in piedi dietro il divano con in volto un’espressione che non gli avevo mai visto: un misto di rabbia e sorpresa e paura di cui in tutta onestà non credevo fosse capace. Si passava una mano sullo zigomo e se la guardava.
«Mi hai colpito! Ma che cazzo ti prende?»
Io volevo dire qualcosa, una qualunque cosa che cancellasse il goffo tentativo di menare il mio più vecchio amico.
«Cristo di un dio! Perché cazzo mi hai colpito?»
Con non poca fatica mi spinsi indietro, fino al bordo del divano opposto. Mi piegai di nuovo in avanti. Il polso continuava a strillare dal dolore e mi domandai se non me lo fossi rotto.
«Lo sai perché» riuscii infine a mormorare, prima di tirare due colpi di tosse e strizzare la faccia per il dolore.
«Merda!» gridò Greg. «Lo so? LO SO? No, puttana la miseria troia: no che non lo so! Cristo, dovrei chiamare il portiere e farti sbattere fuori a calci nel culo!»
Gli gettai un’occhiata, poi riabbassai la testa e provai lentamente a muovere il polso: continuava a fare un male cane ma, pur con qualche sinistro scricchiolio, sembrava muoversi correttamente.
«Lascia perdere, ridotto così non è che sia tanto pericoloso.»
Lui era agitato, più agitato di quanto lo avessi mai visto, e solo questo mi parve lì per lì un risultato accettabile.
«Merda!» disse di nuovo Greg, ma più piano, dando uno scatto da una parte con la testa. Si toccò di nuovo lo zigomo e si guardò la mano.
«Non ti ho nemmeno preso.»
«Invece sì, puttana la miseria. Di striscio ma mi hai preso. Se mi prendevi bene mi staccavi la testa. Ma che cazzo hai?»
Continuai per qualche secondo a muovermi leggermente il polso e gli gettai un paio di veloci occhiate.
«So tutto, Greg» dissi piano dopo un po’.
«Tutto che?»
«Sono riuscito a risalire al vecchio presidente della fondazione Cirri. Ho parlato con lui e con Lucio e con parecchi altri. Ho passato tre giorni davanti al computer e al telefono, dormendo quattro ore a notte. Ho ricostruito tutto.»
Alzai finalmente la testa e fissai Greg dritto negli occhi. Anche lui mi fissava, ma non diceva niente. Dopo qualche istante un lieve campanello risuonò nella stanza. Greg fece passare un paio di secondi, sempre fissandomi.
«’Fanculo» sbuffò poi, prima di andare verso uno stretto bancone che usciva come una penisola dalla parete opposta alle vetrate. Ci girò intorno, aprì sul muro un doppio sportello a ghigliottina e tirò fuori un vassoio con sopra due calici a cono. Mentre Greg tornava verso il divano, io mi alzai e tornai verso le vetrate. Provai a muovere il busto e le costole: anche quelle dolevano parecchio, ma sicuramente non c’era niente di rotto.
«Dovrei battertelo in testa» disse Greg appoggiando bruscamente il vassoio sul ripiano di vetro del tavolo. Poi si mise a sedere, raccolse uno dei calici e prese un sorso gettandomi un’ultima occhiata furente. Dopo qualche istante però diede un profondo sospiro e abbozzò una risata. «E c’era bisogno di colpirmi?»
Mi voltai.
«Non lo so, dimmelo te: c’era bisogno di colpirti?»
Greg bevve di nuovo.
«Secco, che vuoi che ti dica?»
«Perché l’hai fatto, tutto qui.»
«Onestamente non capisco cos’hai da essere tanto incazzato.»
«Ah no? Non lo capisci?»
«No, non lo capisco. Ti ho dato tutto quello che hai. Dovresti ringraziarmi e brindare, non venire qui a tentare di menarmi e startene lì come una checca indurita.»
Ecco infine cos’era che mi aveva ossessionato e logorato lentamente da quella famosa maledetta telefonata, il giorno prima del funerale di Biagio, cos’era che, dal momento in cui avevo attaccato il telefono grigio dei miei genitori, aveva iniziato a scavarmi dentro come una termite.
Ho fatto già abbastanza per Biagio finché potevo, adesso sono fatti suoi.
Eccola ancora la frase: eppure, senza che me ne accorgessi, fino a quella sinistra risata di poche notti prima, non era stata questa la frase che per settimane mi aveva tolto fiato e idee. Era però una frase talmente simile da sembrare esattamente la stessa. Appena la semplice sostituzione di una parola: “Ho fatto già abbastanza per voi finché potevo”. Non era quello che Greg aveva detto, ma era quello che mi era rimbalzato in testa fino a darmi la nausea, impedendomi di percepire alcuna altra sensazione. Come se una parte di me già sapesse e volesse informare l’altra senza riuscirci. Fino a quella notte, a casa di Amanda, quando la risata di Greg me l’aveva sbattuta davanti più forte del solito. Mi ero svegliato di soprassalto, con il cuore che batteva all’impazzata e le gocce di sudore che mi grondavano sul collo e sulla fronte. Per voi? Che significava per voi? Che aveva fatto Greg per noi? Che aveva fatto Greg per me?
Ossessionato da quell’ombra e con la terrorizzante sensazione di perdere il controllo e di impazzire, ero dunque uscito e andato fino al mio appartamento. Mi ero attaccato a internet e avevo percorso tutte le strade utili e chiamato a qualunque ora chiunque mi venisse in mente, sperando che ogni mio dubbio fosse spazzato via e svanisse tutto in un passeggero delirio e potessi finalmente tornare alle mie lezioni e ai miei libri e alla mia storia con Amanda e a tutto quello che fino a prima dell’estate chiamavo “la mia vita”. Ma nessuno mi aveva tolto i dubbi, anzi li avevano confermati, e d’un tratto quello che avevo vissuto fino a pochi mesi prima, di mio sembrava avere ben poco.
Greg aveva fatto asfaltare la Stradaccia, Greg aveva fatto dire a Lucio che venisse a vedere Biagio che guidava, Greg aveva in qualche modo infilato quella maledetta cartolina nel mio libro e mi aveva fatto invitare alla selezione per la borsa di studio attraverso la fondazione di cui suo padre era stato uno dei maggiori finanziatori. Ed era stato Greg a permettere che a Paolino fossero accordati i finanziamenti per aprire la concessionaria e ingrandirsi. D’un tratto, attraverso quei semplici interventi, su ogni singolo frammento della nostra vita si allungava la raggelante, esile ombra di Greg, con la sua mano in tasca e la piega sinistra del suo sorriso a filo delle labbra.
«E chi ti ha detto che lo volevo? Chi ti ha detto che chiunque di noi lo voleva?»
Greg affettò una risata.
«Non puoi essere serio.»
«Certo che sono serio. Parecchio serio.»
«Cos’è, volevi restartene a San Filippo?» domandò lui passandosi una mano sulla bocca.
«Magari sì, che ne sai? Dovevi chiedercelo.»
«Chiedervi cosa?»
«Per esempio a Biagio se voleva che Torcini venisse contattato. O a me se volevo che tu intercedessi per una borsa di studio.»
«E che sarebbe cambiato? Avreste detto no grazie?»
«Che ne sai? Forse sì. Ora certo non lo può dire nessuno.»
«Ma di che cazzo stai parlando, Secco? Avreste rinunciato all’occasione più importante della vostra vita?»
«È proprio questo il punto: non era l’occasione della nostra vita, era un’occasione tua.»
Sì, nessuno se lo era mai confessato, ma come ho già detto sono sicuro che più o meno consapevolmente, dal momento in cui i nostri occhi erano calati sul manto nero della Stradaccia, la nostra vita si era segretamente aperta a un mondo più vasto. All’improvviso erano iniziate ad accadere cose bizzarre e sorprendenti, su cui preferivamo non farci troppe domande, ma che ugualmente ci riempivano di uno stravagante ed elettrico entusiasmo. Trovavamo motociclette dimenticate nei capannoni e le strade si coprivano misteriosamente di asfalto, andavamo forte in moto e la gente ci offriva di correre e delle cartoline comparse nei nostri libri ci trasportavano in grandi università all’estero. Chi si sarebbe preso la briga di dire di no a tutto questo? Qualcosa di più grande di noi ci trascinava – forse nostro malgrado – fuori dal paese dove eravamo cresciuti e dove fino a quel momento eravamo stati felici: eppure chi eravamo noi per opporci? Se però tutte queste forze misteriose non erano altro che fili sottilissimi e invisibili nelle mani di un uomo limitato e miope come tutti noi, le cose cambiavano. Se Greg ce lo avesse domandato, se Greg un giorno mi fosse arrivato davanti e mi avesse detto: “Senti, Jacopo, la nostra famiglia è socia di una fondazione che tra le altre attività seleziona candidati per importanti borse di studio. Ti va se faccio il tuo nome?”. Ecco, come avrei reagito? Mi sarei comunque fatto avanti o la parte più integra e pura di me avrebbe detto: “Grazie, ma non voglio aiuti da nessuno”? E poi, in tal caso, che ne sarebbe stato di me? Che ne sarebbe stato di tutti noi? E Biagio, sarebbe davvero andato a provare una moto sapendo che uno degli sponsor era il suo migliore amico? Lo ricordavo bene, quel senso di inadeguatezza, il giorno in cui eravamo andati al Mugello, quella domanda che ci ronzava in testa a entrambi, e soprattutto a lui: “Ma che ci siamo venuti a fare?”. Figuriamoci se avessimo oltretutto sospettato che eravamo lì per amicizia.
«Vabbè, Jacopo, fammi un favore, questa conversazione non ha senso: prenditi un tranquillante e vai a dormire, poi magari ne riparliamo con calma e ricordiamo i bei vecchi tempi. Adesso sono stanco e mi hai dato un pugno e stai iniziando a farmi davvero girare il cazzo.»
«Non ho bisogno di nessun tranquillante.»
«Ti si sta scaldando il drink.»
«Chissenefrega del drink.»
«Peccato, è un buon drink. Non sono facili da fare.»
«Chi ti ha detto che volevamo andarcene?»
«Dài, Secco, falla finita. Volevi davvero restare in quel buco tutta la vita?»
«Che ne so? E soprattutto che ne sapevi te?»
«Diosanto, ma che ti succede? Dov’è quella persona lucida e disincantata con cui fino all’ultima volta che ci siamo sentiti mi divertivo a stare al telefono? La chiami, per favore? Con te non si riesce a parlare. Cos’è, preferivi andare a studiare Matematica a Roma e fare il ricercatore in un Paese allo sbando e senza una lira come il nostro? Oppure certo: forse preferivi andare a insegnare al meraviglioso liceo Fermi di Posta!»
«Che ne sai? Forse sì.»
«Mavaffanculo, Secco. Ti ecciti per i concerti di Ozawa all’Opera di Boston, ti interroghi sul comportamento dell’energia oscura e sviluppi idee credibili sul destino dell’universo.»
«Teorie, Greg, modelli matematici. Capisco che hai poca familiarità con certe espressioni, ma non sono altro che questo.»
«Ragazzo, non alzare la cresta: sto già trattenendo la forte tentazione di chiamare il portiere polacco al pianterreno e farti menare e buttare fuori a calci. Fossi in te non tirerei troppo la corda.»
«Non sviluppo nessuna idea credibile, solo azzardi matematici. Che peraltro da un po’ di tempo a questa parte si divertono tutti a risbattermi in faccia.»
“Physical Review D”, dopo qualche botta e risposta, aveva rifiutato la pubblicazione di entrambi i miei ultimi articoli presentati, cosa che non era mai accaduta in precedenza, e che di certo non aveva contribuito a sollevarmi da quello che ormai appariva sempre più come l’inizio del mio precoce declino. Il mio ultimo articolo pubblicato metteva in discussione la Teoria dell’Universo Inflazionario sostenendo che il Big Bang non era il luogo in cui si erano formati tempo e spazio, ma semplicemente uno dei tempi e degli spazi. In collaborazione con Yuko Atori, una mia amica e collega giapponese, attraverso l’analisi di sette anni di dati provenienti dalla sonda spaziale WMAP, eravamo riusciti a stabilire che nella radiazione cosmica di fondo, il segnale percepibile più antico del nostro universo, si trovano delle sensibili e uniformi variazioni di temperatura simili a delle onde sferiche, la cui origine ritenevamo fosse da attribuire a increspature gravitazionali date da collisioni di buchi neri precedenti al Big Bang. Questo era compatibile con il quadro di un universo che un giorno avrebbe ripreso a comprimersi, aumentando la propria densità fino a tornare a un nuovo punto di densità infinita e a un conseguente nuovo Big Bang.
L’articolo era stato accolto con un certo sospetto e molti miei colleghi avevano mosso diverse obiezioni rispetto all’attendibilità della teoria, soprattutto per le fluttuazioni troppo marginali della temperatura della radiazione cosmica di fondo. Oscar Libowitz aveva fatto un passo in più: aveva scritto su “Science” un articolo decisamente tagliente in cui smontava sia me sia la mia teoria. Si diceva dispiaciuto che una scienziata seria come Yuko Atori perdesse tempo con questi deliri e con persone che ormai sembravano da tempo annaspare nel paese delle meraviglie. Per distruggere la mia teoria Libowitz aveva ironicamente accennato al fatto che, con un po’ di ingegno e fantasia – caratteristiche che evidentemente non mi mancavano – si poteva vedere nella radiazione cosmica di fondo ciò che si voleva. L’articolo era inoltre illustrato da un’immagine del CMB – una specie di planisfero macchiato di striature termiche blu e verdi, solo qualche sporadico accenno di giallo e rosso – con tratteggiata sopra, seguendo delle ombre blu scuro, la scritta Dio Esiste. Due giorni dopo la pubblicazione del suo pezzo, sceso in una delle squallide piccole aule della Pupin Hall di Columbia per una lezione, avevo trovato attaccata alla lavagna un’altra mappa della radiazione cosmica di fondo, con sopra scritto Ti vogliamo bene lo stesso, prof.
«Molto spiritosi» avevo ammesso abbozzando malvolentieri una risata.
Oscar Libowitz era in realtà la persona a cui dopo di me, due anni prima, era stato offerto di dirigere la sezione di Astrofisica del neonato Kavli Institute di Dallas. Una sera, davanti a una birra, avevo saputo da un comune conoscente che Libowitz era sempre stato imbarazzato dal fatto che la proposta gli fosse stata fatta dopo un ricercatore di dieci anni più giovane di lui, ma ovviamente con me – nelle poche circostanze in cui ci eravamo incontrati – aveva mantenuto tutta la sua rinomata formalità. Un giorno però, dopo un mio intervento all’università di Dallas a cui aveva deciso di presenziare, ci eravamo trovati da soli in ascensore.
«Un po’ leggerino il suo intervento, professor Ferri» aveva detto non appena si erano chiuse le porte dell’ascensore, continuando come se niente fosse a fissare i numeri della pulsantiera che decrescevano verso il pianterreno. Di solito, in pubblico, ci chiamavamo amichevolmente per nome.
Mi ero voltato e lo avevo guardato. Sembrava più piccolo del solito, la pelle screpolata da qualche leggero fastidio psicosomatico. Aveva sulle labbra un’impercettibile sfumatura di sorriso. Pur di non scendere insieme a lui, avevo premuto il tasto del secondo piano. Quando le porte si erano aperte, già fuori dell’ascensore, avevo messo una mano sulla fotocellula e lo avevo guardato dritto negli occhi, anch’io con un gelido sorriso.
«Professor Libowitz, masticare ogni giorno il boccone sputato da qualcun altro deve averle inasprito la bocca» avevo detto, poi me ne ero andato con un bel buona giornata e un gran sorriso cucito in volto. Mentre perdevo qualche minuto vagando per il secondo piano dell’università di Dallas, mi ero convinto che poche cose al mondo concedevano la stessa soddisfazione di una stoccata ben messa. Un mio amico, in un suo libro, avrebbe un giorno scritto: “mai sottovalutare lo stramaledetto rancore dei nani”.
Non c’era dunque da meravigliarsi troppo del soddisfatto sarcasmo con cui Libowitz aveva stroncato l’articolo mio e di Yuko. Eppure, purtroppo, una parte di me non aveva potuto fare a meno di sentirsi abbattuta e di annusare ovunque l’odore acido del fallimento. L’altra non faceva che sorridere e ripetere “te l’avevo detto”. Sì, in realtà lo sapevo che prima o poi quella mia ossessione mi avrebbe torto le gambe. Lo sapevo fin da quando quello spettro si era insinuato tra i miei pensieri. Da un certo momento in poi ero stato ossessionato dall’idea di poter trovare delle concrete e credibili teorie che prevedessero il destino dell’universo. In realtà la mia piccola fama e autorevolezza dipendeva dai miei lunghi studi proprio sulla radiazione cosmica di fondo, più precisamente sulle sue anisotropie, le sue irregolarità. Eppure la mia fissazione era sempre stata per i confini dell’universo. Non volevo del tutto accettarlo, ma era così. Spingersi fino all’origine vera e propria, però, per via del principio di indeterminazione e compagnia, non era ovviamente possibile. Dunque l’interesse si era spostato sul futuro. Ogni mio studio sembrava tuttavia confermare l’idea di quello che veniva comunemente definito Big Chill, una sorta di generale morte cosmica. L’universo non sembrava avere alcuna intenzione, come avevo sperato in un primo tempo di riuscire a dimostrare, di rallentare o addirittura fermare la propria espansione – figuriamoci prendere a contrarsi – e, per quanto poco armonico mi potesse apparire, tutto sembrava in effetti destinato ad allontanarsi e disgregarsi fino a scomparire. Il problema però stava proprio nella parola armonia: non riuscivo ad accettare che la straordinaria eleganza con cui mi ero abituato a considerare l’universo fosse destinata a qualcosa di così freddo e squallido come un generico abbandono. L’emotività aveva per così dire varcato i confini fino ad allora solidi delle mie ricerche. Lo studio quindi sulle CCW – cyclic cosmic waves, onde cicliche cosmiche – aveva significato per me l’assemblamento di tutto ciò che avevo costruito e studiato in una credibile teoria che finalmente potesse salvare l’elegante idea di un universo ciclico in continua espansione e contrazione, come gli incartamenti di un’infinita e gustosissima serie di caramelle. Poteva peraltro, ben facilmente, essere uno solo degli universi possibili. Di caramelle, insomma, ce ne potevano essere quante se ne volevano: e l’Universo, quello ancora più ampio, il padre di tutti gli universi, ecco che tornava a essere un luogo dolce e colorato. Perciò una parte di me, nel redigere con Yuko l’articolo, si era convinta per mesi di essere finalmente davanti al progetto della vita, quello per cui saremmo stati ricordati, l’avvenimento cardine nella storia della cosmologia contemporanea. L’altra parte di me – purtroppo la più seria e rigorosa – sapeva che era solo il goffo tentativo di piegare la matematica e la fisica e i dati di WMAP a un’ingenua sensazione priva di concreti e seri riscontri. Dai miei colleghi più lucidi era quindi stata presa per ciò che effettivamente era: una teoria interessante ma sostanzialmente debole.
«E allora?» mi disse Greg lì seduto sul suo divano nero di pelle, con il calice in mano. «Nessuno sa del mondo più di voi. Sei stato proprio tu a dirmelo, una volta, in preda a una delle tue ridicole estasi da ricercatore: “non esiste branca della scienza o della filosofia che abbia mai indagato tanto in profondo l’universo”. Così mi dicesti.»
«E a cosa pensi che serva?»
«Che ne so, dimmelo tu» disse prima di finire il suo drink e appoggiare il calice.
«A un bel niente, ecco a cosa serve.»
«Falla finita, stai delirando. Vai a casa e riguardati.»
«Niente. Non serve a niente. E vuoi sapere perché?»
«Illuminami.»
«Perché procedere negli studi scientifici significa soltanto procedere verso la consapevolezza dei nostri limiti.»
Greg alzò le sopracciglia.
«Proprio così» continuai. «All’inizio sembra tutto bello: leggi gravitazionali, curvatura dello spaziotempo, neutrini, gluoni... tutto sembra stare lì a colorare un universo che non smette mai di stupirti. Poi, mentre te ne stai piegato su un tavolo a risolvere equazioni con l’occhio fisso in quel caleidoscopio, ti rendi conto che passano gli anni e l’unica cosa che hai davvero imparato è che l’essere umano non riuscirà mai a capirci una beneamata mazza di ciò che lo circonda, e soprattutto che l’intera razza umana e questo intero pianeta per cui tutti si affannano e preoccupano scomparirà in quello che per l’universo non è più della frazione infinitesimale di uno sbadiglio. Diventa tutto insignificante, Greg. Non conta più niente. E il bello è che non te ne accorgi. È un logorio lento e inconsapevole: secondo dopo secondo, ogni nuova rivelazione sull’universo rabbuia un altro brandello delle tue giornate, fino a quando non riesci a stupirti più di niente. Che può esserci di stupefacente al cospetto di collisioni intergalattiche, buchi neri, radiazioni fossili e supernovae? Tutto ciò che ci circonda diventa semplicemente un cumulo di particelle vibranti che in uno schiocco di dita si dissolverà o contrarrà nel vuoto da cui è venuto.»
Greg era sempre lì fermo che mi fissava e sorrideva. Anche io lo fissai, mordendomi appena l’interno del labbro. Per un attimo la musica svanì e mi parve quasi di poter sentire il respiro di entrambi.
«Amanda vuole dei figli.»
Greg non disse niente.
«Le daresti torto? Sono tre anni che ci frequentiamo e non sono manco riuscito a proporle di prendere una casa insieme. Figuriamoci avere dei figli.»
«Perché?»
«Come “perché”? Come faccio a mettere al mondo delle creature, farle faticare come tocca a tutti faticare, molto probabilmente soffrire, e poi appena avranno un po’ di cervello per farmi qualche domanda dirgli: sai, ho scherzato, tutto questo non serve a niente, qualunque cosa costruirai e per cui ti dannerai verrà spazzata via come il contenuto di un posacenere al vento.»
Greg continuò a guardarmi per qualche secondo.
«E quindi la tua nuova grande illuminazione è che forse se restavi al paese andava tutto meglio?»
«Che ne so, forse sì. Almeno non sapevo.»
«Ah sì? Volevi la tua bella mogliettina, scopare alla missionaria, andare a messa la domenica e cogliere le more d’estate con i tuoi pargoletti?»
«Che c’è di male?»
«Volevi una vita come i tuoi genitori?»
«I miei genitori sono persone serene.»
«Secco, scusami se te lo dico, ma i tuoi genitori sono le persone più pallose che abbia mai conosciuto. Quando passavo da casa tua, anche solo per dieci minuti, poi ci mettevo due giorni a levarmi la noia di dosso.»
Mi scappò un sorriso, poi dopo un attimo tornai serio e abbassai la testa.
«Dubito di tutto, Greg.»
«Che vorrebbe dire?»
«Quello che ho detto. Da un po’ di tempo non c’è niente di cui non dubiti, appare tutto indistinto e sfumato.»
«Be’, evviva.»
«Ma evviva che?»
«Dubiti, vivi, sei finalmente un uomo.»
«Ma di cosa stai parlando? È tutto appannato, che ha questo grigiore della vita?»
«Secondo te perché siamo qui, Secco?»
«Oddio, e che ne so del perché siamo qui? Non so più nemmeno se mi piace o meno il caffè.»
«Qui, in questa città, intendo.»
«In questa città?»
«Eh.»
Fissai Greg qualche istante, sentendomi scivolare in un terrificante assurdo crinale dove si prendevano a fare discorsi sconnessi.
«Il peccato originale, Secco.»
«Il peccato originale? Che c’entra il peccato originale?»
«Perché secondo te chiamano questa città la Grande Mela?»
«Non lo so.»
«Nemmeno io, ma mi sono sempre divertito a pensare che è il più grande monumento dedicato al frutto proibito, alla irrefrenabile tendenza dell’uomo a innalzarsi al di sopra di se stesso.»
Non riuscii di nuovo a trattenere un sorriso.
«Sei pronto a una nuova conversione?»
«Falla finita» disse Greg con stizza. «E mettila come ti pare, ma a un certo punto nella storia di questa strana evoluzione della scimmia è accaduto qualcosa. E chissenefrega di tutte le sue scoperte, sono figlie dalla prima all’ultima dello scherzo biologico del pollice opponibile. Ce lo siamo già detti, una volta: per allenare il nostro cervello la natura non poteva trovare un attrezzo più efficace di questo benedetto dito storto. Ma il vero inspiegabile miracolo è un altro: quell’animale a un certo punto ha iniziato a farsi delle domande. Si è ritagliato fuori dal mondo che lo circondava e si è preso la libertà di dubitare. Questo siamo: il dubbio.»
Lo guardai qualche istante.
«Be’, per come siamo messi forse era meglio se non ce le facevamo, tutte queste domande.»
Greg forzò una risata.
«Ma dài: proprio uno come te, che passa le giornate a farsi le domande più ambiziose che l’essere umano si sia mai posto. Ma perché credi che ogni volta che esci da quella benedetta fermata della metro sulla Cinquantanovesima ti prende quel brivido?»
Lo guardai senza dire niente.
«Perché ti senti a casa, Secco. Perché è quella la musica per le tue orecchie.»
Abbassai lo sguardo e feci un profondo respiro.
«Non lo so.»
Greg mi fissò qualche secondo.
«Eppoi che vuoi? Grazie a me hai visto il mondo, hai provato la voragine del desiderio. Hai imparato a soffrire.»
Oh sì, gli dei sapevano se avevo imparato cosa fosse il desiderio. Lame nel petto e organi che collassavano su se stessi. Tenaglie roventi mi avevano stretto anima e genitali fino a farli sanguinare, e tutto per merito della più insospettabile delle creature.
Era tutto cominciato una qualunque sera di fine aprile. Mi trovavo a cena con Fausto, un mio conoscente, inviato della Rai lì a New York. La prima parola che mi viene in mente per definirlo è banale. Erano banali le sue scarpe italiane piene di vistose cuciture, il suo appartamento a Midtown pieno di specchi, le sue barzellette spinte e soprattutto la sua passione per le ragazzine e i sotterfugi. Sì, il modo con cui ridacchiando, per la strada, strusciandosi le mani pelose, mi indicava una ragazzina di appena dodici anni e mi diceva «cosa le farei...» non lo rendeva necessariamente riprovevole come lui forse sperava, lo rendeva più che altro poco originale. Fausto però per qualche ragione mi aveva preso in simpatia. Non so se erano state le brillanti risposte che secondo lui avevo dato durante l’intervista con cui ci eravamo conosciuti, oppure se era stato il giorno in cui mi aveva chiesto di sostituire un suo amico in una partita di pallone a Central Park e aveva scoperto che ero un discreto centrocampista. Fatto stava che si era convinto che ero una persona che valeva la pena portarsi dietro. La sua insistenza mi rendeva qualche volta difficile defilarmi, ed era tra l’altro un periodo in cui stavo malvolentieri in casa. Bisognava però ammettere che Fausto era sempre pieno di programmi e inviti piuttosto attraenti, così finivo dopo qualche preghiera per farmi trascinare in giro.
Era stato in fondo a una di queste bizzarre serate che mi ero ritrovato sul sedile posteriore di un taxi, aggrovigliato al corpo di una ragazza di origini sudamericane. Diceva di chiamarsi Tara, e ci eravamo conosciuti non molte ore prima da Novecento, il ristorante su West Broadway dove lavorava. Fausto, con non poca astuzia e diverse menzogne – che ero in precoce corsa per il premio Nobel, che lui mi stava intervistando a questo proposito, che avrebbero quella sera dato una festa in mio onore a TriBeCa e più tardi che la supposta festa era saltata all’ultimo momento per un incidente –, era riuscito a trascinare Tara e una delle ragazze che lavoravano con lei in un segretissimo locale nascosto negli scantinati del Mercer Hotel, sempre lì a SoHo. Un’inarrestabile catena di bottiglie di vodka e l’eccitazione delle ragazze per un paio di star del cinema avevano fatto il resto.
Poco dopo, in piedi sul marciapiede, Fausto aveva proposto di andare tutti da lui.
Avevo tentato di recuperare un barlume di lucidità. Mi ero immaginato la scena di noi nel salotto da pappone di Fausto, probabilmente con un’altra bottiglia di qualcosa a girare, e presto con un insopportabile accenno d’alba.
«Mah» avevo detto, «io mi sa che salto.» Poi avevo guardato Tara e le avevo chiesto se mi accompagnava.
Lei era scoppiata a ridere.
«Certo, signore, che l’accompagno.»
Già sul taxi facevamo fatica a starci lontano e ci accapigliavamo una sull’altro, infilandoci le mani dappertutto. Pensavo di esplodere. Arrivati davanti a casa avevo buttato troppi soldi sul piattino di plexiglas del divisorio, detto tenga pure il resto ed eravamo volati giù dalla macchina. Tara era inciampata e caduta ginocchioni in terra. L’avevo sollevata ridendo e aiutata a fare i pochi gradini che ci separavano dall’entrata.
«Qui ci sta la proprietaria di casa» avevo bisbigliato una volta dentro, mettendomi un dito davanti alla bocca.
«Ah sì?» aveva detto Tara, poi mentre mi voltavo a dare un giro di chiave al portone, lei era salita di qualche gradino per le scale che portavano al piano di sopra. Aveva dunque voltato appena la testa e, mentre mi gettava uno scivoloso sorriso, aveva afferrato i lembi della gonna, se l’era tirata fin sopra i fianchi e aveva spinto in fuori il sedere scodinzolando. Il filo nero di un perizoma le spariva tra due natiche tonde e sode come peschenoci.
«Gesù» avevo detto. Mi ero poi avvicinato lentamente, e come se le gambe mi cedessero ero crollato su uno dei gradini e le avevo affondato il viso nel sedere. Lei aveva di nuovo scodinzolato, come per far entrare meglio il volto. Le avevo messo le mani sulle natiche e le avevo aperte bene e ci avevo passato in mezzo il naso e la lingua. Mi ero poi tirato indietro e, sentendo l’ossigeno che mi abbandonava i polmoni, avevo sollevato il filo del perizoma con un indice e l’avevo spostato da una parte. Avevo riaffondato la bocca e la lingua nella piega delle natiche e tra le labbra umide, poi – mentre mi si scatenava dentro qualcosa di agghiacciante e sconosciuto – mi ero alzato, mi ero sbottonato i pantaloni e salendo di due gradini ero affondato dentro di lei. Tara aveva appoggiato le mani su un altro scalino ed emesso un gridolino e preso ad ansimare. Avevo afferrato il filo del perizoma con entrambe le mani e l’avevo lacerato. Mentre la prendevo, le aprivo le natiche più che potevo e, serrando i denti fino a farmi male, fissavo quella stellina scura che pareva stare lì a invitarmi e farmi l’occhiolino. Presi a massaggiarla con il pollice, poi sempre più forte, fino a farci sparire dentro una falange. Sentivo montare dentro di me qualcosa che non avevo mai sentito, qualcosa di animale, che mi combatteva dentro e mi gonfiava la gola nell’accenno di un ringhio. Le avevo sputato tra le natiche e avevo affondato il pollice ancora più dentro.
«No atrás» aveva detto improvvisamente lei in spagnolo, continuando però ad ansimare e muoversi.
Non le avevo dato ascolto e le avevo infilato dentro anche il secondo pollice.
«No» aveva sospirato di nuovo lei, senza smettere di gemere.
Sentivo quel feroce animale continuare a gonfiarmi la gola. Non aveva niente della brama che avevo a suo tempo sentito per il sesso morbido di Trisha e per la sua pelle, né tantomeno del sublimato erotismo che avevo creduto di provare per Anna, la mia compagna di dottorato a Baltimora di cui avevo deciso di invaghirmi e di cui mi ero così presto annoiato. Era qualcosa di diverso e sconvolgente. Qualcosa di precedente: precedente a me e all’uomo. Era come se mi fossi trovato spezzato malamente in due: una parte di me era tornata alle sue pulsioni più primordiali, l’altra era la più raffinata avanguardia dell’evoluzione. Ed entrambe lottavano e ringhiavano per portare a termine ciò che avevano cominciato: mi ero levato da dentro di lei, ero salito con i piedi di un altro gradino, le avevo sputato di nuovo dietro ed estraendo i pollici e aprendole bene le natiche ero entrato.
«No» aveva mugolato ancora lei, poco convinta. Avevo preso a scivolarle dentro e fuori, prima piano, poi con più violenza, mentre quel costante soffocato ringhio continuava a vibrarmi in gola. Lei gemeva sempre più forte, e le scale prendevano a scricchiolare. Sentivo i muscoli delle gambe e della schiena che mi dolevano e quando aveva accennato a gridare, avevo provato a tapparle la bocca con una mano: me l’aveva morsa e mentre stavo per venire e mentre ritiravo la mano e mentre le prendevo con forza i capelli e mentre le davo una gran pacca sul culo, lei aveva girato la testa da una parte e gridato con voce squittente:
«¡Ay, corazón, qué rico!»
Era stata dunque questa sgraziata e ridicola espressione di piacere ad avviare la mia breve e dinoccolata storia con Tara. Tutto era andato bene fino a un mesetto più tardi. Ci eravamo visti un’altra manciata di volte, sempre per conto nostro. Andavamo a mangiarci un boccone fuori, magari guardarci un film, poi ci fermavamo in un bar da qualche parte, ci riempivamo di vodka come la prima sera e tornavamo a casa. Una volta la vodka ce l’eravamo portata direttamente a letto, ed era finita che ci avevamo poi sostanzialmente dormito dentro.
Tara mi parlava spesso delle sue origini in parte venezuelane e dei suoi genitori new age che prima che lei nascesse si erano trasferiti in una comunità hippie in California. Quando raccontava di questi suoi anni le spuntavano gli occhi brillanti di una ragazzina e diceva che erano stati i più felici della sua vita. Le avevo chiesto una volta cosa fosse stato a farla andare via, ma lei aveva balbettato qualcosa a proposito di un incidente e aveva cambiato discorso. Parlava anche spesso del suo nome, Tara, e diceva che apparteneva a una dea indiana, la madre di tutte le dee e la fonte di luce dei buddha. Ripensandoci adesso, non posso fare a meno di rendermi conto che quando parlava di quei suoi anni nella comunità e del suo nome ci fosse qualcosa di lievemente eccessivo e forzato, ma lì per lì avevo liquidato la questione senza farci troppo caso.
Per il resto sembrava piuttosto irretita da me e mi chiamava “il mio genietto”. Faceva una leggera fatica a distinguere tra astrologia e cosmologia, e spesso si confondeva chiedendomi delucidazioni su qualche segno zodiacale. Io sorridevo: una parte di me si domandava cosa diavolo ci stessi a fare con una così, ma mi dicevo che quel sedere e quella bocca erano una risposta più che valida a ogni domanda. Credo che a trarla in inganno fosse stata la parola previsioni: per semplificare le cose le avevo detto che studiavo il comportamento delle stelle e che facevo previsioni sul destino dell’universo, così di tanto in tanto, sfogliando una rivista, mi leggeva un oroscopo e mi chiedeva molto seriamente se ero d’accordo. Il fatto che io fossi un autorevole studioso le aveva fatto riscoprire per gli oroscopi un profondo interesse.
Tutto era quindi andato avanti così: la presuntuosa coscienza della mia superiorità intellettuale mi faceva chetare qualunque dubbio sul perché lei si ostinasse a frequentarmi e sventolarmi quel culo davanti agli occhi, e avevo l’inconsapevole illusione che tutta quella storia fosse bizzarra ma a suo modo solida. Fino a quella sera. Avevamo fissato come al solito di mangiare un boccone da qualche parte, e poi vedere. Era il suo giorno libero e mi aveva detto di chiamarla al telefonino verso le sette per metterci d’accordo. Alle sette non aveva risposto, e nemmeno alle sette e dieci e alle sette e diciassette e alle sette e trentadue e alle sette e cinquanta e alle otto e zerodue. Dopo quattro squilli scattava la segreteria e al terzo tentativo le avevo lasciato un messaggio in cui la salutavo e le dicevo che erano le sette passate e che aspettavo notizie e che ero a casa e che mi chiamasse. Non avevo mai sentito l’urgenza di prendermi un cellulare e per farmi trovare usavo una segreteria telefonica bianca dell’AT&T, che quando era vuota riportava un semplice e fino a quel momento anonimo zero, rosso e luminoso. Quando c’erano dei messaggi il numero lampeggiava. Dopo un ennesimo tentativo, alle otto e ventitré, mentre un ratto prendeva a rodermi lo stomaco facendomi sentire debole e nauseato, avevo deciso che era meglio uscire, se non altro per mangiare qualcosa. Rientrando avevo corso su per le scale, convinto di trovare nella segreteria il messaggio di Tara e poter finalmente ascoltare le sue scuse e incontrarci e superare quell’improvviso terrorizzante disorientamento. Ma quel dannato zero se ne stava lì tranquillo come se niente fosse. Avevo alzato la cornetta e sentito se c’era linea. Avevo composto ancora il numero di Tara, ma di nuovo non aveva risposto. Sentendomi stupido e ridicolo e invaso da un innegabile senso di panico, le avevo lasciato un altro messaggio, dicendole irrigidito che ero sempre a casa e che la stavo aspettando e che si facesse viva.
Verso le dieci avevo chiamato Fausto.
«Senti» gli avevo detto dopo esserci salutati, «hai mica notizie di Tara?»
«Di chi?»
«Tara.»
«Tara?»
«Dài, Fausto, la ragazza di Novecento con cui siamo andati in quel locale.»
«Ah, figurati... bella fica. La vedi ancora?»
«Sì, ci dovevamo incontrare stasera.»
«T’ha dato buca, eh?»
«Avrà avuto qualche problema. Magari sentivi ancora la sua amica...»
«Macché, chi l’ha più vista dopo quella sera. Manco ho il suo numero.»
«Vabbè, grazie lo stesso.»
«Ti sento giù. Esci, ti porto a mignotte.»
«No, grazie Fausto, magari un’altra volta. Domani devo alzarmi presto.»
Mentre le immagini di Tara in giro per New York con qualche sua amica e qualche uomo iniziavano a invadermi i pensieri, avevo provato a calmarmi guardando un vecchio film con Marilyn e Cary Grant, ma non era servito a granché. Mi ero dunque buttato a letto tentando di leggere. Avevo dormito a spizzichi e bocconi, un’oretta alla volta, senza mai riuscire a impedirmi di andare in soggiorno a controllare nel buio quel maledetto zero rosso, sperando ogni volta che lei avesse chiamato mentre dormivo dicendo che c’era stato un brutto contrattempo e che si scusava e che ci saremmo sentiti l’indomani. Ovviamente mai nulla, sempre quel bastardo cerchietto luminoso che mi fissava come la pupilla del demonio. Vedevo Tara in giro per locali, appesa al collo di qualche enorme individuo tatuato con un cazzo grosso come un palo che gli batteva nei pantaloni di pelle. Vedevo le sue mani su quel sedere rotondo e su quelle cosce e su quella pelle liscia e scura come il cuoio. Dovetti masturbarmi due volte, ed entrambe mi parve di farlo anche con quell’uomo tatuato, restando ancora più nauseato di prima.
Il giorno dopo, pallido e a pezzi e con due voragini viola sotto gli occhi, me ne ero andato all’università, dicendo a tutti che mi stavo ammalando e che forse avevo pure la febbre. Dopo pranzo, quando ero rientrato, c’era finalmente una piccola stanghetta che lampeggiava sulla segreteria.
“Ciao, sono io” diceva il messaggio. “Scusami per ieri ma è successo un casino a una mia amica e uscendo di fretta ho lasciato il cellulare a casa. Ci sentiamo dopo, ciao.”
Il tono era, comprensibilmente, piuttosto freddino. Mi ero d’un tratto sentito stupido e ridicolo, ed ero andato in bagno a sciacquarmi il viso e a guardare nello specchio se c’era qualcosa nei miei occhi dell’uomo che pensavo di conoscere.
Due sere più tardi ci eravamo rivisti. Eravamo d’accordo di incontrarci a Washington Square e andare poi a mangiare qualcosa su Bleecker. Era tutto un po’ diverso. Tentavo di fare il disinvolto, ma non ci riuscivo granché. Mi era passata la voglia di ridere e non avevo idea di dove andare a ripescarla, e se non ridevamo e non dicevamo idiozie non sapevamo di che parlare. Mi aveva raccontato che due sere prima a una sua amica era morto l’ex fidanzato tossico, nonché padre di suo figlio. Era corsa da lei per portarla fuori e, come mi aveva detto, nella fretta aveva lasciato il cellulare a casa.
«Ma dove credevi che fossi?» mi aveva domandato sorridendo.
Io avevo alzato le spalle. Per la prima volta mi era venuto il sospetto che una storia con una donna è molto simile a una lunga e complessa guerra di trincea, e che ogni piccolo errore strategico è molto difficile da recuperare. Dopo cena non ci eravamo fermati a bere da nessuna parte: ero stanco e il mattino seguente avevo una lezione complicata, quindi le avevo detto che preferivo andare subito a casa. Nel letto, senza come al solito strapparci i vestiti di dosso, avevo provato a fare le cose con più calma e più dolcezza, ma ero frustrato e sobrio ed ero venuto prima ancora che lei riuscisse a mollare un gemito.
«Tutto qui?» aveva detto lei ridendo mentre mi alzavo per andarmi a sciacquare.
Da quel momento, e per qualche settimana, la mia storia con Tara – se così la si può chiamare – non fu nient’altro che una viscida altalena di illusioni e tormenti. Lei aveva cominciato di tanto in tanto a non farsi trovare, e io dal canto mio a cercarla con sempre maggior foga. Ogni volta, come un trauma originario, mi riprendevano la nausea e la vertigine che mi avevano travolto quella notte davanti alla segreteria telefonica. Avevo anche iniziato a bere parecchio. Mi compravo bottiglie di Belvedere, la vodka della prima sera, e restavo a decimarle mezzo sdraiato sul divano davanti a vecchi film, con un cuscino in collo. Mi masturbavo spesso annusando il divano e il tavolino, alla ricerca di tracce del suo odore. Mi ero pure ritrovato a passare la lingua sul bordo del comò, in camera, dove una delle prime volte l’avevo adagiata per leccarla meglio, aprendole con forza le gambe. Mentre la lingua scorreva lungo lo spigolo freddo, pensavo che in quel punto si era posato il sedere di Tara, forse lo aveva addirittura sfiorato il suo sesso, e mi era gonfiata tra le dita l’erezione più pulsante della mia vita. Pochi istanti più tardi, dopo essere venuto sul pavimento – accasciato in terra contro il comò –, mi ero messo una mano sul viso e avevo preso a singhiozzare.
Continuavo a vedermi spesso con Fausto. Forse era l’unico che paradossalmente mi collegava in qualche maniera a lei, o forse era più semplicemente l’unico che riusciva a propormi programmi in grado di farmi uscire fuori di casa e restarci fino all’oblio. Era stato un periodo diverso da qualunque altro: passavo da feste in cui non facevo che bere e scambiare frasi sconnesse, a serate in coppia con Fausto in locali di cui non avrei mai creduto l’esistenza.
Una sera, usciti da un bar nel Meatpacking District, Fausto aveva riso e mi aveva detto di seguirlo. Aveva attraversato la strada, aperto una porticina a scomparsa nel muro oltre il marciapiede opposto, e sceso due rampe di scale. Subito alla sinistra dell’entrata del locale, una serie di sbarre correva dal soffitto fino a terra e separava un angolo scuro dal resto della sala. Dietro le sbarre, un uomo peloso e sovrappeso si era fatto legare al muro completamente nudo e veniva frustato da una donna vestita di lattice.
Era stata una delle poche volte in cui io e Fausto avevamo affrontato un discorso appena più serio e personale: discutevamo dell’Italia e dei motivi che lo portavano a non tornarci e di come ognuno di noi, se le cose avessero funzionato, avrebbe senz’altro preferito abitare lì che non in un Paese che per quanto accogliente restava pur sempre straniero.
Mentre parlavamo, sorseggiando i nostri drink, ci eravamo infilati in una stanza con qualche amaca e due o tre pancali in legno. Su uno dei pancali una donna veniva masturbata in maniera quasi chirurgica da tre uomini, lanciando dei gran gridi. In giro per il locale, clienti ben vestiti si alternavano a persone completamente nude e a uomini con gli occhi spiritati e con in mano delle grosse erezioni. La cosa sorprendente però era la mia assoluta impermeabilità. Il fatto che chiacchierassimo passeggiando per un locale dove la gente si faceva toccare e penetrare davanti a tutti, circondati da maniaci mezzi nudi e con gli occhi di fuori, non sembrava essere rilevante. Nel corso degli anni sono tornato all’Hellfire un altro paio di volte, e ogni volta è stato come entrare in un luogo parallelo che vive di regole tutte sue, e dove ciò che vedi perde qualunque sua bizzarria.
Fausto era molto annoiato dai miei tentativi di estorcergli un parere o una parola di conforto riguardo alla mia storia con Tara.
«Lasciala perdere» aveva tagliato corto sospirando e alzando gli occhi al cielo. «Stai facendo casino: non è per queste che si perde la testa.»
Credo fossero state quelle semplici parole a farmi improvvisamente scegliere Fausto, la persona apparentemente meno indicata, come mentore. E comunque si trattava solo di un marginale sintomo del generale paradosso in cui affondavo senza speranza: che c’entravo io con Tara? Era dunque per questo che avevo speso i migliori anni della mia vita? Un tempo, in qualche piacevole momento di solitudine, osservando per caso un cielo stellato, mi facevo coccolare da modelli matematici in grado di descrivere le onde gravitazionali: che ci facevo con questa creatura sempliciotta e in grave difficoltà davanti alla differenza tra una stella e un pianeta, convinta che la luna brillasse di luce propria?
«Ma che dici!» mi aveva risposto ridendo mentre provavo a spiegarle che la luce della luna era quella del sole riflessa. «È di colore diverso!»
Eppure i miei tentativi di trascinare Tara in una relazione stabile e definita erano sempre più energici, e peraltro sempre più goffi. Lei dal canto suo rispondeva dandomi sempre più buca. Una sera in cui mi aveva detto che doveva lavorare mi ero appostato dall’altra parte di West Broadway ad aspettare che uscisse da Novecento. Mi ero infilato un improbabile cappellino dei Mets e, seppure facesse piuttosto caldo, mi ero chiuso in una giacca, alzando il bavero per mascherarmi. Ero convinto che mi avesse mentito e che non fosse lì al ristorante. Quando invece l’avevo vista uscire e salutarsi con gli altri camerieri, avevo pensato per un attimo di raggiungerla. Poi però mi ero messo semplicemente a seguirla. Aveva camminato verso nord fino a Prince Street e girato a destra. All’angolo con Broadway era scesa nella metropolitana, aveva introdotto e ritirato la Metrocard dalle rispettive fessure del tornello e imboccato le scale che portavano verso la banchina in direzione nord. Mi ero messo ad aspettare mezzo di spalle a una ventina di metri. Una volta dentro mi ero seduto piuttosto lontano, ma in un posto che mi permettesse di tenerla d’occhio. Lei era semplicemente rimasta seduta con le cuffie nelle orecchie e un libro in mano. Non riuscivo a scorgere il titolo, ma dai colori e ghirigori della copertina sembrava un romanzo rosa. Pareva una persona qualsiasi, un qualunque essere indifeso nell’immensità di una metropoli, nascosta e riparata nel silenzio della sua musica e del suo libro. Il fatto di essere a conoscenza di cosa fosse davvero, di quale creatura nascondessero quei panni, e il fatto che lei non mi vedesse, mi dava l’impressione di essere l’invisibile infiltrato di qualche governo, o addirittura di qualche pianeta alieno. Era rimasta sulla metropolitana fino alla Cinquantasettesima, e poi oltre, sulla sopraelevata, fino nel Queens. In una delle nostre serate mi aveva detto di abitare in una piccola casetta a schiera di Astoria, ed era ormai chiaro che andasse a casa e che ero un deficiente e che un po’ andava forse bene, ma era arrivata l’ora di uscire da tutta quella ridicola follia. Mentre mi chiedevo se arrivati al capolinea sarei sceso anche io e le avrei detto qualcosa, Tara si era alzata e rimettendo il libro in borsa si era avvicinata alla porta scorrevole della carrozza. Era la fermata della Trentesima Avenue e, per quanto ne sapevo, non era quella per casa sua. Facendo di tutto per nascondermi dietro un tizio, mi ero avvicinato alla porta e, sempre restando qualche decina di metri indietro, avevo seguito Tara fuori dal treno e giù per le scale di ferro della sopraelevata e fuori in mezzo ai palazzi squadrati del Queens. Sembrava di essere in una scena dei Guerrieri della notte. Tara aveva camminato per tre isolati verso est, poi aveva girato a destra e infilato un parcheggio semivuoto. In fondo al parcheggio si era diretta verso il retro di una costruzione in mattoni e aveva bussato a una porta di ferro. Dopo qualche secondo le era stato aperto ed era sparita dentro. Sulla facciata della costruzione, sopra una porta a vetri e al grosso individuo che vi sostava davanti, c’era una scritta al neon rosso che diceva Boom Bar. C’era anche il disegno illuminato di una formosa e ammiccante ragazza in bikini. Ero rimasto almeno dieci minuti lì imbambolato sul fondo del piazzale, domandandomi cosa fare, poi lentamente, come in trance, mi ero trascinato davanti all’ingresso. Il tipo alla porta indossava una felpa e un paio di larghi pantaloni neri e attorno al collo luccicava una grossa catena d’argento.
«ID, per piacere.»
Avevo cavato di tasca la mia carta d’identità e gliel’avevo mostrata. Lui, come sempre a New York, l’aveva controllata attentamente con una pila e me l’aveva resa.
«Prego» aveva detto poi, dopo avermi scrutato un momento.
Dietro la porta, in una stanzetta separata dal locale da una tenda di velluto blu scuro, una ragazza a un tavolino mi aveva chiesto venti dollari. Era un qualunque strip bar, con le sue poltrone e i suoi divani e il suo bancone e le sue luci colorate e le sue ragazze mezze nude che sculettavano e aprivano le gambe a tempo di musica sui palchi o intorno ai pali di acciaio lucido. Lo stesso strip bar qualunque dove una volta ci divertivamo ad andare con un mio spiritoso professore di Princeton per discutere delle mie ricerche. Mi ero fatto dare da uno scuro barista anabolizzato una vodka liscia e mi ero messo a un tavolo d’angolo.
Era apparsa una ventina di minuti più tardi da dietro la tenda del palco principale, accanto ad altre due ragazze più pallide e più alte di lei. Indossava uno striminzito bikini fucsia e due stivali lucidi col plateau di tre o quattro centimetri e il tacco di almeno quindici. Era più truccata del solito e si era lisciata indietro i capelli in una strettissima coda che la faceva sembrare più adulta e spietata. Si era subito attaccata a un palo sulla destra del palco. La osservavo dal fondo della sala strusciarsi e scuotersi e chinarsi, sorridendo a qualche cliente che si avvicinava e le infilava qualche dollaro nel tanga, e non riuscivo a identificare una singola sensazione che fossi in grado di riconoscere. Una decina di minuti più tardi si era spostata dal palco centrale a un palchetto più piccolo, circondato da una serie di tavolini e poltroncine. Dopo qualche istante mi ero alzato e come un automa mi ero seduto in una delle poltrone più vicine al palchetto. Anche altri due signori si erano avvicinati. Uno le aveva infilato una banconota da cinque dollari nel tanga ed era rimasto più di un minuto in piedi a guardare Tara che gli apriva le gambe davanti mettendogli una mano dietro la testa.
«Sei splendida» le aveva detto il tipo quando si era rimessa a ballare vicino al palo. Lei aveva sorriso e gli aveva ammiccato, poi era tornata a ballare seria tra sé e sé. Dopo un po’ aveva ammiccato anche all’altro signore, poi si era voltata verso di me, aveva accennato un sorrisetto e mentre già voltava la testa era tornata di scatto a fissarmi. Qualche sgraziata canzone da classifica rimbombava contro i muri, e il mio cuore pareva farle da grancassa. Tara aveva girato intorno al palo e mi aveva fissato di nuovo, fulminandomi. Aveva dunque continuato a ballare per cinque minuti senza mai guardarmi, sorridendo un paio di volte all’altro signore e infine accettando nel tanga un suo dollaro. Era poi scesa dal palco, si era avvicinata ballando alla mia poltrona, mi si era strusciata un momento indosso e con tono molto freddo, nell’orecchio, mi aveva detto di tirare fuori venti dollari e di metterglieli nel tanga. Avevo preso il portafoglio, avevo cavato due banconote da dieci dollari e gliele avevo incastrate sotto il fiocchetto laterale del tanga. Lei allora mi si era seduta di fronte sulle ginocchia, si era slacciata il sopra del costume e se lo era tolto. Mi pareva che intorno tutto stesse scomparendo e mi ero per un attimo illuso di poterla baciare e leccare e prendere proprio lì su quella sedia. Le avevo passato una mano sul fianco e mi ero avvicinato per baciarla, ma lei mi aveva risbattuto sullo schienale con una mano.
«Non puoi toccarmi» aveva detto con la stessa freddezza di prima.
Aveva quindi portato a termine quello che doveva essere il semplice balletto che metteva in scena per tutti i suoi clienti, mi aveva fatto scorrere il sopra del bikini dietro la testa e mi aveva tirato verso il seno.
«Adesso vattene di qui e aspettami fuori, senza farti vedere» mi aveva detto poi all’orecchio prima di alzarsi e rindossare il sopra del bikini e andarsene di nuovo verso il palco centrale. Per non dare troppo nell’occhio ero rimasto altri dieci minuti a finire la mia vodka, poi mi ero alzato, ero uscito salutando la ragazza alla cassa e il tipo all’entrata e mi ero riavviato verso il fondo del parcheggio. Mi ero dunque disposto ad aspettare dietro l’angolo, appoggiato al cofano di una macchina. Tara era comparsa due ore più tardi, mentre già meditavo di andarmene.
«Ciao» le avevo detto con leggero imbarazzo quando era sbucata dal parcheggio.
«Muoviti» aveva detto lei guardandosi alle spalle e continuando a camminare veloce. «Se vedono che vado via con un cliente mi sbattono fuori.»
Le avevo camminato dietro a passo svelto fino alla metropolitana e su, sulla sopraelevata. Mentre aspettavamo le avevo sorriso e avevo provato a darle un bacio su una guancia. Lei mi aveva gettato uno sguardo, poi era tornata a fissare il punto da cui doveva arrivare il treno.
«Come sei arrivato fin qui?» aveva domandato.
«Ti ho seguita.»
Mi aveva guardato seria per qualche secondo, poi era sopraggiunto il rumore del treno, avevamo aspettato che arrivasse e ci eravamo seduti uno accanto all’altra su una delle panche di plastica azzurra. Non ci eravamo detti altro. Arrivati al capolinea, due fermate dopo, eravamo scesi e l’avevo seguita giù per Ditmars Boulevard e lungo una delle strade sulla sinistra. Aveva superato un cancellino in ferro e aperto la porta di una casetta in mattoni su due piani, identica a tutte quelle della strada. Era andata al piano superiore, aveva aperto un’altra porta e mi aveva fatto entrare in un piccolo e disordinato bilocale, pieno di vestiti e riviste lasciati a caso qua e là. C’era odore di incenso e polvere e, prima ancora di levarsi la giacca, Tara si era affrettata ad accendere due candele profumate.
«Siediti. Arrivo subito» aveva detto prima di gettare la giacca sul divano e sparire in quello che doveva essere il bagno. Avevo spostato qualche indumento e mi ero messo sul divano a sfogliare una rivista di moda. Avevo sentito per qualche minuto scorrere l’acqua della doccia, poi cadere qualcosa che assomigliava a un barattolo. Quando era ricomparsa, Tara aveva un lungo asciugamano blu legato sopra il seno e in testa quel tipico turbante che si fanno le donne per asciugarsi i capelli. Si era diretta a un vecchio piccolo stereo e ci aveva infilato dentro un disco, poi si era avvicinata, aveva scostato leggermente con un piede il tavolino davanti al divano e mi si era seduta a cavalcioni sulle gambe. Riuscivo tra le pieghe dell’asciugamano a vedere qualche corto pelo del suo sesso rasato. Si era srotolata il turbante, poi aveva aperto l’asciugamano e, mentre prendevo a scorrerle la punta delle dita sulla pelle, mi aveva baciato a lungo e con cura. Si era dunque alzata, mi aveva dato una mano e mi aveva portato verso il letto. Mi aveva spogliato con molta calma, mi aveva fatto stendere su due cuscini e mi era infine montata sopra. Era stato un sesso lento e silenzioso, e per quanto fossi piuttosto sicuro che non avesse goduto del tutto, avevo pensato che era forse la prima volta che facevamo davvero l’amore. Si era quindi rialzata ed era tornata in bagno. Dopo qualche istante avevo sentito scorrere dell’acqua, poi andare un asciugacapelli. Mentre continuavo a essere immerso in un pantano di ambigue emozioni che non sapevo identificare, mi erano calati gli occhi su dei fogli appoggiati sopra uno degli scaffaletti di fianco al letto. Li avevo raccolti e sfogliati. Erano in spagnolo e avevano l’aria importante. Attaccata a uno dei fogli c’era una tesserina di plastica giallognola con sopra una piccola fotografia di Tara. Sembrava molto più giovane e ingenua, e mi ero domandato cosa avesse a che fare la ragazzina di quella foto con la donna che avevo visto spogliarsi poche ore prima al Boom Bar. E anche, a dire il vero, con quella che mi aveva appena spogliato e steso sul letto. Rosalita Hernández, c’era scritto sotto la foto, e degli altri numeri e una data che la invecchiava di tre o quattro anni e accanto quello che doveva essere il luogo di nascita: México, D.F. Distrito Federal. Tara era ricomparsa completamente nuda, era andata senza nemmeno guardarmi fino a un comò, aveva aperto uno dei cassetti, tirato fuori un paio di pantaloncini e una maglietta e li aveva indossati. Si era poi guardata un momento allo specchio.
«Allora, Rosalita?» avevo detto sorridendo. Non c’era nessun particolare motivo per cui lo avevo detto, né sinceramente mi ero chiesto cosa significassero quei fogli e quella tesserina. Tara mi aveva osservato dallo specchio, poi si era voltata, aveva fissato i fogli che tenevo in mano e quindi di nuovo me.
«Che cazzo fai?»
Sembrava molto seria e molto arrabbiata e avevo sentito un’onda di gelo invadermi le vene.
«Niente, mi è caduto l’occhio su questi...»
«CHE CAZZO FAI?» aveva improvvisamente gridato lei.
«Niente, stavo solo...»
Mi era balzata contro, mi aveva strappato i fogli di mano, li aveva lanciati sul comò e si era girata con il volto indurito, fissando un punto qualunque per terra.
«Vattene» aveva detto.
«Tara, non me ne frega niente di questi...»
«VATTENE!» aveva gridato lei con voce isterica.
Sentivo improvvisamente due presse che mi schiacciavano le tempie. Mi ero messo a sedere sul bordo del letto e avevo preso a rivestirmi. Lei era rimasta lì ferma a fissare lo stesso punto del pavimento, mordendosi nervosamente un labbro. Io avevo finito di vestirmi, poi l’avevo guardata.
«Tara, io non...»
«Te ne devi andare.»
«Non voglio andarmene. Non mi interessano quei fogli. Voglio solo...»
«TE NE DEVI ANDARE!» aveva di nuovo gridato lei con quella voce isterica.
Avevo provato ad allungare una mano e sfiorarle un braccio.
«Tara...»
Lei mi aveva sbattuto via la mano, mi aveva scansato e aveva percorso a grandi passi il soggiorno. Mi pareva di non crederci, ma le avevo anche visto tirarsi una serie di schiaffi in volto. Aveva aperto la porta d’ingresso, aveva superato il pianerottolo e si era messa a prendere a pugni la porta di fronte.
«COSTA!» gridava.
Tara mi aveva raccontato ridacchiando di un suo vicino di casa greco, tale Costa, che le dava qualche volta una mano a riparare un tubo, portare un mobile o attaccare una mensola. Diceva che senza di lui non sapeva come avrebbe fatto, e che una volta l’aveva pure salvata da un tentativo di aggressione vicino a casa. Mi ero sempre immaginato che Costa fosse un tipo muscoloso, pieno di tatuaggi, ma a suo modo dolce e affettuoso. Dopo qualche istante avevo invece visto comparire dalla porta un signore di mezz’età e con la pancia, in canottiera, tutto assonnato e con un lungo riporto impennato sopra la testa.
«Che c’è, Tara? Sono le cinque di mattina.»
«Quello stronzo mi ha picchiata» aveva detto lei indicando alle sue spalle senza nemmeno guardarmi.
«Come?»
Costa aveva guardato lei, poi me all’interno dell’appartamento, cercando di ricollegare.
«Quel pezzo di merda mi ha dato due ceffoni e adesso non vuole andarsene.»
«Ma non è vero!» avevo gridato io con una ridicola voce da ragazzino.
«Come no?! Guarda» aveva detto Tara, o Rosalita o chiunque fosse, girando il volto da una parte all’altra davanti a Costa.
Costa aveva finito di aprire la porta, si era legato per bene in vita un asciugamano e mi era venuto lentamente incontro. Mi aveva sorpreso un lampo di lucidità: con un certo interesse mi ero detto che era forse la prima volta che sperimentavo il vero terrore. La voce mi uscì dalla bocca come lo squittio di un topo.
«Guardi, signor Costa, c’è un equivoco.»
Costa si era avvicinato e mi si era fermato davanti. Per un attimo mi ero illuso di poter ragionare, poi d’un tratto avevo sentito una mattonata esplodermi su uno zigomo. Ero volato in terra dall’altra parte della stanza e gridando, mentre lui mi mollava due calci, io lo avevo implorato di smettere. Non riuscivo a dire altro che «si fermi, le posso spiegare, la prego si fermi».
«Aveva qualcos’altro?» aveva poi domandato Costa, voltandosi verso Tara.
«Quella giacca.»
Costa aveva raccolto la mia giacca da una sedia, si era riavvicinato e, dopo avermi mollato altri due calci per fortuna imprecisi, mi aveva afferrato per i capelli. Ero riuscito comunque ad alzarmi e lo avevo seguito mezzo chinato in avanti, la testa attaccata alla sua mano.
«Tara» avevo semplicemente accennato mentre passavo, allungando una mano verso di lei. Lei l’aveva scansata ed era tornata in casa. Costa mi aveva trascinato giù per le scale, sempre piegato in quella ridicola posizione. Una volta fuori dal cancellino aveva gettato la giacca in mezzo alla strada, poi aveva cambiato la mano con cui mi teneva i capelli, mi aveva rialzato la testa, e mentre tiravo un altro grido mi aveva mollato un secondo pugno sullo zigomo. Ero volato in terra e per qualche secondo avevo visto solo buio e mille saltellanti colori. Quando avevo riaperto gli occhi ero bocconi sul marciapiede.
«E se provi a riavvicinarti a Tara giuro che ti sparo un colpo in testa.»
Lo avevo sentito sputare, presumibilmente a me, poi con la coda dell’occhio lo avevo visto risalire i pochi gradini che portavano dentro casa e sbattersi la porta alle spalle.
Nel rialzarmi avevo notato qualcuno che mi sbirciava dalla tenda di una casetta dall’altra parte della strada. Appena incrociati gli sguardi, la figura era sparita dietro la tenda. Mi ero trascinato fino in mezzo alla strada, a raccogliere la giacca, poi cercando di ricollegare tutto e di capire dov’ero e con metà del viso che mi pulsava come il cuore aperto di un animale, ero andato lentamente verso la metropolitana. Il treno era lì al capolinea che aspettava di ripartire. Un paio di loschi individui erano saliti con me e si indicavano ridacchiando il mio volto evidentemente tumefatto. Mi ero detto che il giorno dopo avrei risentito Tara, o che sarei andato al ristorante, e ci saremmo spiegati e sarebbe tutto passato. Mi ero anche per un attimo convinto che l’avrei potuta aiutare e che forse per la prima volta mi rendevo conto di amarla davvero e che non mi importava se non era venezuelana e se non aveva mai vissuto in una comune in California e se era un’immigrata probabilmente clandestina e se era cresciuta in una baraccopoli di Città del Messico. Non mi importava di niente: ne avremmo parlato e l’avrei capita e l’avrei sposata e protetta e fatta guarire da qualsiasi cosa la turbasse.
Per fortuna non era accaduto. Una volta ripresomi, qualcosa di grigio e unto aveva continuato a galleggiare dentro di me, ma era semplicemente troppo: era troppa lei, e troppo il suo corpo e troppa la sua lingua ed evidentemente troppo il suo passato e – per quanto scafato uno volesse essere – troppa la distanza che ci separava. Non l’avevo più vista e non l’avevo più sentita, e quando mi capitava di ripassare dalle parti di Novecento un senso di nausea mi faceva sempre girare a largo.
«E allora, pensi che tutto quel desiderio e quella sofferenza servano a qualcosa per guardare il mondo o per dare una casa e un figlio ad Amanda? Che ci dovrei fare, secondo te?»
«Che ne so, Secco, giocaci a briscola. Che vuoi da me?»
Guardai Greg per qualche secondo. Mi domandavo se era davvero così sicuro di sé o se invece era semplicemente molto bravo a recitare.
«Penso parecchio a Paolino» dissi poi.
«A Paolino?»
«Sì, a Paolino.»
«E che c’entra Paolino?»
«Lui a messa la domenica e a cogliere le more non ci va di certo. E ti garantisco che con la Giorgia fa ben più che dare delle scopatine alla missionaria.»
«E allora?» mi domandò Greg.
«E allora sono felici, Greg. Torno al paese e li passo a trovare e ridono o discutono o guardano la tivù, ma stanno bene. Sono sani. Sì, non sanno. E allora? Che me ne faccio io, di tutto questo sapere? Sto tanto meglio?»
«Secco, Paolino è un caro ragazzo, e la Giorgia e i bambini gli hanno fatto sicuramente bene, ma non gli ho sentito spiccicare una frase di senso compiuto prima dei quindici anni. Mi dici che c’entri te con Paolino? Ma soprattutto: mi dici che c’entro io? Cosa credi, che io vi abbia davvero orchestrato tutta la vita? Io vi ho messo a disposizione un’opportunità. Vai a sapere che l’avreste cavalcata meglio di quanto nessuno si sarebbe immaginato. Sì, mi avete stupito. Credi che io abbia fatto qualcosa di più che permetterti di andare a quella selezione? Be’, ti sbagli. Vuoi sapere cosa ho fatto? Ho disegnato e fatto stampare quella cartolina, te l’ho messa nel libro e ho aspettato che arrivasse all’indirizzo della fondazione. Poi ti ho fatto semplicemente segnalare come nostro candidato. Tutto qui. Sei tu che hai vinto quella borsa di studio e le successive, sei stato tu ad andartene sulla fascia con questo delirio sull’universo e la relatività e le radiazioni cosmiche. Io avevo lasciato una mezza sega silenziosa e noiosa che sapeva solo risolvere equazioni e una manciata di mesi dopo mi ritrovo un tipo oscuro e ispirato che gira da solo per Glasgow come il personaggio di un romanzo e parla di spaziotempo come se fossero i suoi calzini. Mi hai dato un sacco di soddisfazioni.»
«E l’equazione?»
«Che equazione?»
«Quella della cartolina.»
«Eh.»
«L’avevo risolta?»
«Che ne so se l’avevi risolta» disse Greg con un accenno di stizza. «L’avevo trovata in un giornale. Manco l’ho più vista, quella cartolina.»
«Ho sempre pensato di averla risolta.»
Greg sospirò e si passò di nuovo la mano sullo zigomo.
«E anche Biagio: credi che gliela guidassi io, la moto? Secondo te lo sapevo che quel coglione aveva davvero tutto quel talento? Lo dissi a Rastello quasi per scherzo. Chiacchierando era tornato fuori che una nostra azienda sponsorizzava un team di moto. Era un momento in cui gli spettatori del motociclismo crescevano costantemente e a Rastello era parso un buon investimento. Io nel frattempo non ci avevo nemmeno più pensato, nemmeno mentre rimettevamo la Sandra. “Oh” dissi a Rastello tra un discorso e l’altro, sorridendo, “guarda che c’è un mio amico alla Stradaccia che va forte. Magari al capo del nostro team gli interessa.” Che ne sapevo io che Rastello avrebbe chiamato Torcini e che Torcini sarebbe davvero passato dalla Stradaccia e che avrebbe chiesto a Biagio di andare al Mugello e che quel coglione sarebbe davvero andato forte?»
Ci credevo poco ormai a tutti quei “per scherzo” e “che ne sapevo”, ma decisi di lasciar correre.
«E la Stradaccia?»
«La Stradaccia, che?»
«È l’unico pezzo che mi manca: come sei riuscito a farla asfaltare?»
Greg mi guardò e scosse la testa, come se parlasse con un ragazzino.
«Ma tu ce l’hai una vaga idea di come sarebbe messa San Filippo se non ci fosse la mia famiglia? Credi che ci sia voluto parecchio per far chiamare una ditta di pavimentazioni e far chiudere un occhio a chi di dovere?» Poi si prese un altro secondo e affettò un sorriso. «Scusami un attimo, ma credi ancora che il Maresciallo ci abbia sempre lasciato fare come ci pareva perché non riusciva a beccarci? Te lo ricordi o no che la caserma cinque anni prima gliel’avevamo risistemata noi? Anche all’epoca mi pareva impossibile che nessuno facesse due più due, ma adesso...»
Mi presi un attimo: in effetti mi sentivo piuttosto ridicolo. Pensai a quei giorni lì alla Stradaccia, allo sperone, al Maresciallo che arrivava e che faceva la voce grossa e che se ne andava. Mi domandai d’un tratto se sulla via del ritorno ridacchiasse o scuotesse la testa con frustrazione.
«C’è quell’immagine di Biagio che mi ossessiona» dissi.
«Quale immagine?»
«Biagio di notte, da solo, da ragazzo.»
«Embè?»
«Da quando è morto non riesco a staccarla dall’immagine del suo cadavere all’Elba. È come se l’avessi visto. Qualcosa si è rotto, in Biagio, e ha preso a rompersi dal momento in cui se ne è andato dal paese. E per quanto continui a rigirare la frittata l’ultimo e forse unico momento in cui ricordo Biagio felice è proprio là a San Filippo.»
Per un attimo Greg parve mettere da parte la sua maschera e mi guardò con gli stessi occhi profondi che aveva da ragazzino.
«Jacopo, lo so, ma ho smesso da un pezzo di sentirmi in colpa per Biagio.»
«In colpa?»
«Eh.»
«Per la moto?»
«Oddio che palle questa moto! No, non per la moto, per tutto il resto.»
«Che resto?»
«Ma sei cretino? Il resto. Tutti i suoi casini e la roba e via dicendo. Il resto.»
«Ma te che c’entri?»
«Scusa, ma secondo te cosa c’era in quelle sigarette che da piccoli ci fumavamo io e Biagio?»
«Non erano sigarettine indiane?»
«Era erba, Jacopo. La coltivavo d’estate in una delle vecchie serre e avevo trovato quel sistema di legare le foglie con il filo da cucire e lasciarle seccare sopra gli spicchi di frutta. Non ricordo dove avevo imparato. Era pure buona. Poi, quando iniziai ad andarmene in giro per il mondo con Rastello, capitava che ci incrociavamo con Biagio da qualche parte. Lui era spesso in Giappone o in Spagna o in America per i Granpremi o le prove. Qualche volta se ero a Londra o a Parigi mi raggiungeva direttamente dall’Italia. Ci facevamo qualche serata in un locale, ci prendevamo di tanto in tanto qualche pillola, due o tre righe. Lui garantiva che quando non era con me non faceva niente e pensava solo alla moto. Eppure per lui era diverso. Si vedeva. Fin da quelle prime canne da me, ogni volta cambiava espressione. Ma come facevi a non vederlo? Per me è sempre stata una cosa così, un giro su una giostra, una vacanza. Anche ora, una volta ogni tanto, magari ogni paio d’anni, se capita, mi faccio una bella fumata d’oppio. Mi dimentico di tutto per un giorno e mi faccio fare qualche massaggio e il giorno dopo via, si ricomincia. Lui no, lui ci affondava tutto, gli si infossavano gli occhi, gli si apriva quel mezzo sorriso e sembrava che in quelle poche ore volesse succhiare il mondo intero e sparirci dentro. Diventava un altro, poi il giorno dopo si rialzava con quei suoi silenzi e quel suo ciuffo sull’occhio, e ogni volta mi dicevo che forse in fin dei conti anche per lui era una specie di vacanza.»
Greg mi guardò un paio di secondi. Un insinuante groppo di ansia e nausea faceva di tutto per risalirmi lo stomaco.
«E invece?»
«E invece è arrivata quella troia australiana. Io te lo giuro, Secco, non credevo che un corpo umano fosse capace di inglobare tutta quella merda e riuscire ancora a ridere e chiacchierare. Quando usciva, portava sempre dei grandi occhiali a specchio. L’ultima serata che ci feci insieme eravamo proprio qui, a New York. Io avevo degli affari da concludere e lui aveva un incontro con uno sponsor per le foto di una campagna. Eravamo stati prima a una festa, poi nel privé di un locale fino alle otto di mattina e alla fine eravamo tornati da me in albergo. Quella era riuscita a farsi regalare roba da chiunque e mentre a me già da mezz’ora si iniziavano a chiudere gli occhi, lei continuava a stendere polveri e bruciare stagnole e passarle a Biagio come se non ci fosse un domani. Girava per la suite con dei jeans strappati, il sopra di un costume da bagno, un cappello di paglia messicano che aveva preso a qualcuno alla festa e quegli occhiali a specchio sul naso. Rideva e saltellava per la stanza come se niente fosse, sembrava appena sveglia e pronta per andare in spiaggia. Era seduta sul divano. Io mi avvicinai, allungai una mano e scherzando le abbassai gli occhiali sulla punta del naso domandandole come facesse. Non li dimenticherò mai quegli occhi. Lei mi scacciò la mano e si rialzò gli occhiali, poi andò al bar e come se niente fosse si versò mezzo bicchiere di vodka. Ecco come faceva. Era come se tutta la devastazione che di solito colpisce ogni muscolo e nervo di un normale essere umano, a lei si concentrasse dentro e intorno agli occhi. Erano viola, scavati in maniera innaturale, l’azzurro brillante si era trasformato in una finissima corona grigio cenere. Le pupille sembravano spappolate, una più grande dell’altra, vuote, completamente vuote, e roteavano scombinatamente in direzioni diverse. Sono sincero, sicuramente erano anche la stanchezza e i postumi, ma mi terrorizzò. Andai in bagno e vomitai e chiusi le finestre e pur di dormire buttai giù due tranquillanti. Prima di addormentarmi mi convinsi che forse sarei pure morto. Il giorno dopo, quando mi svegliai, Biagio e quella cosa erano spariti. Qualche giorno dopo ci risentimmo e dissi a Biagio di fare attenzione. Evidentemente non mi ha dato granché ascolto. Da quella sera, quando erano insieme, mi sono sempre fatto trovare malvolentieri. Fu la nostra ultima nottata insieme. Non so se ha mai capito perché.»
Restai fermo qualche secondo, sospeso, continuando a fissare Greg e cercando di posizionare tutto in qualche nuova casella, a cui poi con calma trovare un nome. Non ero sicuro se mi sconvolgesse più il contenuto del racconto o quel sottile senso di gelosia per una parte della nostra vita da cui ero stato escluso e tenuto all’oscuro. Mi avvicinai al tavolino, raccolsi finalmente il mio cocktail ormai tiepido e mi lasciai sprofondare nel divano opposto a quello di Greg.
«Diosanto» dissi.
«Sì, eccolo il nostro caro Biagio.»
«Be’, non è colpa tua.»
«Lo so che non è colpa mia. Te l’ho detto, mi sono tolto i sensi di colpa per Biagio da un pezzo. Eppure era dura vedere un amico che si disintegrava. Vorrei solo ritrovare quella puttana. Avevo anche pensato di assoldare un investigatore internazionale. Poi però? Che se ne vada affanculo e basta.»
Per un attimo giocherellai con due gocce di condensa sul fianco del calice a cono.
«Non ti è mai venuto il dubbio che sarebbe stato più felice?»
«Dove?»
«Al paese.»
Greg spalancò gli occhi e lasciò cadere la testa all’indietro.
«Oddio... che ne so, Jacopo. Forse sì. Forse no. Forse sarebbe finito morto di overdose ancora prima, come il figlio del Nannini. Era il più luminoso e il più oscuro di noi, ma non sta scritto da nessuna parte che la luce deve durare per sempre. Sì, ha visto l’abisso, ma ha fatto ciò che sapeva fare meglio, e a modo suo lo ha fatto alla grande. Chi ti dice che la sua vita sia andata persa?»
«Non lo so, Greg. Anche te, gira gira, ti sei trovato una persona che ti fa sentire a casa e ti ci sei attaccato. È questo che in fondo vogliamo: delle radici, un luogo da chiamare casa. Che importa tutto il resto?»
Da un certo momento in poi nei discorsi di Greg era sbucata una persona. Era prima apparsa come una sfumatura in qualche frase, qualcuno che doveva vedere o con cui era stato a cena, poi pian piano si era trasformata in una presenza costante. L’avevo conosciuto una sera, a Londra, mentre mi trovavo lì per un convegno. Si chiamava Richard, e lavorava in una banca d’affari della City. Per qualche ragione, mi ero immaginato un tipo elegante ma visibilmente eccentrico, probabilmente piuttosto anziano. Niente di tutto questo: era un giovane trentenne come tutti noi, educato e ben vestito, con il volto rasato e degli ordinati capelli scuri pettinati da una parte. Ero arrivato al ristorante con qualche minuto di anticipo e, mentre si avvicinavano entrambi al tavolo, Richard mi aveva stretto forte la mano e detto che era molto contento di conoscermi, e che Greg parlava molto spesso e molto bene di me. Avevo guardato Greg e gli avevo sorriso.
«Non ti montare troppo la testa, Secco. Esagera per fare bella figura.»
L’attrattiva di quella sera, eccetto – devo ammetterlo – la brillante conversazione di Richard, era stato il visibile disagio di Greg. Aveva combattuto tutta la vita per trasformarsi lentamente in un’ombra, la cosa più simile al citofono di “Charlie’s Angels” che riuscisse a rappresentare, e d’un tratto si trovava seduto su una poltroncina di Simpson’s in the Strand ad affondare il coltello in un roastbeef morbido come il burro e chiacchierare come qualsiasi mortale con il suo compagno e il suo più vecchio amico. Eccola dunque, tutta la depravazione di cui Greg andava tanto fiero: questo gentile broker londinese che pareva avere una gran passione per le scarpe italiane e le commedie sentimentali. Mi aveva offerto di accompagnarlo la sera dopo a vedere un nuovo spettacolo con Emma Thompson. Si era azzardato a prendere due biglietti, ma evidentemente la lenta rivoluzione sentimentale di Greg non prevedeva ancora commedie con Emma Thompson.
Il disagio di Greg e il suo continuo borbottio alle nostre battute erano stati parecchio spassosi, ma alla fine sembrava esserne venuto a capo piuttosto bene, e dalle successive telefonate pareva che in effetti qualcosa nei nostri rapporti si fosse lievemente scaldato. Alla fine Greg e Richard avevano preso un terratetto a Primrose Hill e Greg ci passava ormai buona parte del poco tempo libero che si concedeva.
«Ragazzo, la relazione tra me e Richard gode di una tale emancipazione da tutti i tuoi schemetti da mezza sega che non sei nemmeno in grado di considerarla. Quindi lascia perdere.»
Sorrisi e guardai le goccioline di condensa che scendevano a scatti giù per lo stelo del calice.
«Ci sei stato davvero in quel monastero?»
Greg mi fissò.
«Sì, ci sono stato davvero» disse accennando un sospiro annoiato.
«E com’era?»
«Cos’è, vuoi farti monaco?»
Non dissi niente.
«Che vuoi che ti dica, Jacopo, era un monastero in mezzo alle montagne. Monaci e litanie e tutto il resto. Era molto freddo e il cibo faceva schifo.»
Continuai a fissarlo senza dire niente.
«Vuoi sapere se loro hanno trovato la soluzione? Sì, loro hanno trovato la soluzione. Molti no, ma alcuni hanno capito: sanno e sono felici lo stesso. E allora? Che ce ne facciamo noi? Lasciamo tutto questo e scompariamo in mezzo alle montagne? Sarebbe bello, Secco, ma la realtà è che loro sanno com’è l’universo, ma quaggiù non lo sanno com’è, e hanno parecchio poco da lasciare: quattro pecore e un fazzoletto di terra ghiacciata. Stanno meglio in monastero che in giro nelle loro tende. Non so te, ma io sto meglio qui. I materassi in lattice sono strepitosi. Hai d’un tratto capito che questo è il nostro grande mandala. Evviva. Goditelo, no, che ti frega?»
Sospirai, poi girai il collo da una parte all’altra e lo ascoltai scrocchiare. Strinsi la mano intorno al polso destro. Faceva sempre un gran male, ma si muoveva.
Greg mi fissava con le braccia allargate sullo schienale e sorrideva.
«Mi hai dato un pugno.»
«Ho fatto bene.»