«Ragazzo, vaffanculo te e il culto dei morti. Ho già fatto abbastanza per Biagio finché potevo, adesso sono fatti suoi.»
Eccola dunque la frase maledetta, le semplici parole che, come un terremoto, avrebbero lentamente incrinato tutto ciò che fino a quel momento credevo di aver costruito con le mie mani.
Mi trovavo a San Filippo già da un mese, ed era una cosa che non capitava da parecchio tempo. Negli ultimi giorni mi ero occupato più che altro di interrare nasturzi. I nasturzi non richiedono grandi attenzioni e attecchiscono in qualsiasi tipo di terreno. Vanno innaffiati spesso e, nel momento della germogliazione, aiutati di tanto in tanto con un concime ad alto tasso di azoto. Durante la fioritura meglio invece uno con più potassio. Richiedono sole, ma non troppo: l’ideale sarebbe al riparo di un albero non troppo fitto. All’ombra producono molte foglie, ma poco fiore, il sole eccessivo invece li spoglia alla base e li abbacchia. La mamma aveva deciso per quell’anno di piantarne una bella toppa alla destra dell’entrata di casa, in quell’aiuola che qualche anno prima si era divertita a ritagliare dal prato insieme a Enzo. Ne avevano disegnate diverse, di quelle aiuole, circondandole di pietre grigie sbeccate e vecchi mattoni. In una – sul retro, dalle parti della cucina – avevano piantato gli odori; in un’altra rose rampicanti. Quando Enzo un paio di anni prima se ne era andato, stroncato una mattina di settembre da un infarto, la mamma aveva deciso d’accordo con il babbo di non assumere nessun altro e che si sarebbero presi cura del giardino per conto loro. Il babbo si sarebbe occupato di tagliare il prato e dei lavori più pesanti, la mamma avrebbe pensato ai fiori. Per quell’anno, nelle due o tre aiuole libere, la mamma aveva pensato di orientarsi verso fiori piccoli e colorati: nasturzi, appunto, e petunie e pansé. Aveva piantato i nasturzi a fine febbraio in piccoli vasi neri, per proteggerli dalle notti ancora fredde. Li aveva depositati nel vecchio capanno di Enzo, in fondo al giardino, e li tirava fuori ogni mattina per metterli al sole. Li avrebbe dovuti interrare ad aprile là nell’aiuola alla destra dell’entrata, ma poi l’aveva colta quel bizzarro male e quando ero arrivato mi aveva chiesto se potevo occuparmene io.
Era cominciata come una semplice tossetta, a quanto pare. Poi però non se ne era andata e il babbo, dopo aver somministrato alla mamma qualche sciroppo e infine qualche antibiotico, aveva iniziato a preoccuparsi. L’aveva portata a fare diverse analisi, ma né lui né la sua specializzazione in geriatria né il professore romano del Fatebenefratelli erano riusciti a comprendere quale male avesse colto mia madre. Il professore aveva pure chiesto alla mamma se fosse stata in qualche strano Paese tropicale. Sia al babbo che alla mamma era parsa una domanda piuttosto curiosa, e per un attimo l’immagine di loro vestiti con gonnelle di paglia e ghirlande al collo doveva averli silenziosamente divertiti.
«No» avevano risposto.
Mi era sembrata una buona scusa per tornare un po’ a casa. Nel corso degli anni, mentre inseguivo in giro per il mondo le mie ambizioni accademiche, la familiarità con cui imparavo a trattare le leggi che regolano l’universo era cresciuta proporzionalmente al fastidio per il mio paese natale. D’un tratto invece l’idea di quella vita così pacata e tranquilla mi era apparsa, forse per la prima volta, come un tetto sicuro sotto cui ripararsi. Mi ero dunque riappropriato della mia vecchia stanza di ragazzo, lasciata più o meno com’era il giorno in cui – sedici anni prima – ero partito per Glasgow, e avevo indossato la parte del bravo figlio italiano che forse non ero mai stato. La mattina preparavo una tazza di tè e due fette biscottate per la mamma, davo se serviva una sistemata alla cucina, facevo la spesa alla Coop e mi intrattenevo con la cassiera e le vecchiette che mi domandavano con occhi scintillanti dell’America spendendo commenti come se la conoscessero. In qualche modo si finiva sempre a convenire che, gira gira, tutto il mondo è paese. Mi prendevo cura di informare chiunque dello stato di salute della mamma e ascoltavo i loro Dio la benedica. Andavo a messa la domenica e mi trovavo a recitare il Mea culpa e il Padre nostro con un vigore che non mi sarei mai aspettato. Io e il babbo occupavamo sempre la parte più esterna della terza fila a sinistra e, anche lì, le signore erano molto contente di vedermi. All’uscita, rapite dal fervore domenicale, si soffermavano di solito su quando ero piccolo e scorrazzavo per il paese. Non ricordavo di scorrazzare così tanto per il paese, quando ero piccolo. Mi sorridevano, poi appoggiavano una mano sul braccio del babbo: «Io l’ho visto nascere questo ragazzo» sussurravano prima di farmi un occhiolino e andarsene con indosso il vestito buono a fiori e la borsetta attaccata all’avambraccio e le loro gambe storte. Don Roberto, il parroco che da quattro anni aveva sostituito don Gianni, la seconda domenica si era avvicinato e mi aveva domandato perché ci avessi messo così tanto a farmi vedere in chiesa.
«Vivo all’estero, padre.»
«Sì, lo so. Eppure di tanto in tanto torni.»
«Forse ero un po’ perplesso.»
«Be’» aveva concluso don Roberto raccogliendomi le mani e stringendole, «il Signore è sempre qui che ci aspetta.»
Dopo cena mi mettevo con la mamma e il babbo a guardare la tivù in salotto, tutti e tre seduti compostamente sul vecchio divano di velluto giallastro, davanti a qualche varietà o alla puntata di una qualunque serie poliziesca. Nei silenzi della tivù, quando la mamma non tossiva, riuscivo a sentire il soffocato ticchettio del grande orologio a pendolo che il babbo amava ricaricare ogni sera. Mi sentivo, tutto sommato gradevolmente, in uno di quegli assurdi film minimalisti nordeuropei che piacevano tanto ad Amanda, la mia fidanzata – e io avevo sempre detestato gli assurdi film minimalisti nordeuropei.
Di New York invece, contro ogni mio desiderio e pronostico, mi ero innamorato fin dal primo istante. Quando nelle prime settimane a Princeton per il mio post-doc qualcuno cominciava a parlare della vicina metropoli e del fine settimana che ci aveva appena passato o di quello che ci stava per passare, prendeva a montarmi dentro una leggera ma tagliente irritazione, che facevo parecchia fatica a non trasformare in stizza. Che palle New York, con tutti i suoi grattacieli e i suoi broker e i suoi film e le sue passeggiate a Central Park e i suoi locali e i suoi soldi e tutti quegli artisti e i negozi-che-ci-sono-solo-lì e i divi che passeggiano per le strade come se niente fosse e i “ma ti rendi conto di chi ho visto oggi?”, e i suoi Village e i suoi SoHo e i suoi TriBeCa e i suoi fichissimi acronimi e tutta quell’infinità di insopportabili luoghi comuni.
Poi un giorno mi ero risolto. Un sabato in cui i miei amici avevano deciso di provare a prendersi un’ultima giornata di sole in una spiaggia lì nel New Jersey, avevo pensato che era arrivata l’ora. In realtà soprattutto perché l’idea di passare anche solo cinque minuti su una spiaggia era ben peggio di un’intera giornata a mollo in una metropoli e in tutti i suoi stereotipi. E di starmene da solo al campus quel giorno non avevo tanta voglia: sì, forse in effetti l’entusiasmo per il calore di quell’inattesa giornata di sole autunnale aveva investito anche parte del mio crescente cinismo. Sarei dunque finalmente andato nella Grande Mela, sarei uscito dalla stazione, mi sarei fatto una bella giornata in giro per la città e mi sarei una volta per tutte riempito le tasche di buone ragioni per detestarla.
Non era andata esattamente così, e avrei impiegato diverso tempo ad ammetterlo. Quando la sera ci eravamo ribeccati, gli altri – arrossati dal sole e insopportabilmente entusiasti della loro giornata di mare – mi avevano chiesto dove ero stato e cosa avevo fatto. Quando avevo detto loro che mi ero fatto un giro per New York erano esplosi:
«Finalmente! Allora, hai visto?»
«Sì, ho visto.»
«Be’?»
«Mah, non so se mi ha convinto» avevo detto stringendomi nelle spalle. Gli altri avevano scosso la testa ed erano andati a farsi la doccia, ridacchiando e picchiandosi con gli asciugamani come ragazzini.
Eppure, appena potevo, tornavo alla stazione di Princeton e riprendevo quel dannato treno per Penn Station. Non uscivo subito: ogni volta, come un bambino goloso davanti a un’enorme torta alla panna coperta di zuccherini colorati, non riuscivo a trattenermi dal prendere la linea Blu, salire fino a Lexington e Cinquantunesima, raccattare la Verde ancora verso nord e scendere alla fermata successiva. Mentre un insopportabile coro di voci si ribellava dentro di me e bofonchiava che tutto questo era infantile e stupido e che avevo speso gli anni migliori della mia vita proprio a tentare di emanciparmi da certe bassezze ed elevarmi a pensieri più nobili e raffinati, ecco che quel tripudio di altezze e vetri si spalancava sopra di me. Lì, impalato sul marciapiede, con la testa abbandonata all’indietro e lo sguardo al cielo, i grattacieli sembravano dondolare sullo sfondo delle nuvole mosse dal vento, e un turbine di scosse elettriche mi faceva per un attimo perdere i sensi. Quando poi per diverse ore successive camminavo in giro per ogni angolo di Manhattan, cercando di scoprirne sempre di nuovi e di tanto in tanto spingendomi anche in zone poco raccomandabili, pareva che le gambe si muovessero da sole, spinte da quella prima scarica elettrica, all’incrocio tra Lexington Avenue e la Cinquantanovesima strada.
Per quanto facessi fatica a mettere a tacere tutte quelle voci che abbaiavano dentro di me, non potevo ignorare che l’idea di vivere a Manhattan fosse diventato il più ossessivo dei miei pensieri. L’occasione mi era stata offerta dalla mia incoerenza. Ero al telefono con il babbo per la consueta chiamata settimanale. Di solito parlavo con la mamma: mi chiedeva come andavano le cose, faceva finta di ascoltare, ripeteva a voce alta e monotona al babbo cosa dicevo, e dopo appena due o tre minuti mi chiedeva se avevo bisogno di qualcosa, le dicevo no grazie, mi diceva di riguardarmi, le dicevo certo, ci salutavamo e tornavamo ai nostri affari. Quel giorno però la mamma era a fare la spesa: si era rotto un tubo in casa e questo aveva fastidiosamente rimandato di due ore la gita alla Coop, scombussolando tutti i programmi del pomeriggio e probabilmente della cena. Mi trovavo dunque al telefono con il babbo, che, se non altro, mi faceva domande diverse dal solito. In un primo tempo, quando studiavo leggi della fisica che la sua preparazione medica era ancora in grado di comprendere, mi chiedeva pure dei miei studi: in breve però non era più accaduto, soprattutto a dire il vero per colpa della mia poca voglia di spiegare. Quel giorno era interessato a sapere come trovavo l’America, se era davvero come si vedeva alla televisione e nei film.
«Mah, in realtà sì» avevo risposto.
Poi la gloriosa domanda:
«E New York?»
Eh... e New York? Dio, quante cose avrei avuto da dire su New York, quanta voglia di investire un immaginario vergine di tutti gli odori e i sapori e i minuscoli dettagli in cui ogni volta che trovavo una mezza giornata libera amavo immergermi.
«Interessante.»
«Ah. Tutto qui?»
«Non so se mi ha poi colpito così tanto.»
«Sembra bella, vista in foto. Tutti quei grattacieli...»
«Mah... mi piacerebbe viverci per un po’, rendermi conto nella quotidianità. Sai, un luogo, finché non lo vivi...»
«Certo.»
«Magari trovare un posticino, anche piccolo.»
«Ti piacerebbe?»
«Oddio, piacerebbe è un parolone. Vedere un po’ com’è, ecco.»
Il babbo si era preso un attimo.
«E perché non lo fai?»
«Sì, e con che soldi?»
Il babbo si era preso un altro attimo.
«Senti, Jacopo, è un po’ che ti volevo dire questa cosa. Lo so che hai faticato per non chiederci mai nulla, e ti fa onore, ma con tutte le tue borse di studio ci sei costato veramente una miseria. Io non è che sia ricco, ma insomma a fare il medico, seppure in campagna, qualche lira da parte si mette, e un po’ di questi soldi avevo sempre considerato di darteli per lo studio o per qualche tua attività... non lo so, vedi te, non voglio metterti a disagio, però se vuoi qualcosa per un affitto, possiamo vedere...»
Era il tipico momento in cui un uomo è chiamato a combattere la grande battaglia della coerenza. Fino a non più tardi di due sere prima, in una conversazione al caffè del campus, io e Kim, un mio compagno coreano, ci eravamo vantati di non aver mai chiesto niente a nessuno, fino ad affettare che fosse quasi una missione di vita. In effetti più di una volta mi ero soffermato a considerare che erano davvero poche le sensazioni che, come la mia beneamata e sudata indipendenza, riuscivano ad avvolgermi con lo stesso rassicurante calore.
«Ci sarebbe un delizioso bilocale con l’angolo cottura e il pavimento in legno che farebbe proprio al caso mio.»
Vagando in giro per la città, a un certo punto avevo preso a imboccare le varie agenzie immobiliari che trovavo sulla mia strada per chiedere se avessero qualcosa di piccolo e carino da mostrarmi. Sapevo di non potermelo permettere, eppure entrare per un attimo in quegli scampoli di mondo e immaginarmi lì seduto con un libro in mano, o alla scrivania a lavorare o al bar all’angolo a farmi un caffè, mi riempiva tutte le volte di una leggera esaltazione, che poi purtroppo sfumava presto in un accesso di malinconia. Ogni giorno che passavo lontano da quella città, ogni mattina che non mi svegliavo in un suo letto e ogni pranzo che non mi veniva servito a un suo tavolo mi sembravano furti irrimediabili alla mia preziosa e contatissima esistenza.
Il sabato precedente, mentre già percorrevo la Trentaquattresima per tornare verso la stazione, incrociata Broadway, mi ero d’impulso messo a seguirla verso nord. Mi ero fermato qualche minuto a osservare ancora una volta lo scoppiettio e il brulicare di Times Square. Sbattendo contro un paio di passanti avevo attraversato i grattacieli di Midtown con la testa reclinata all’indietro e la bocca mezza aperta. Avevo attraversato Columbus Circle rischiando di farmi investire e mi ero spinto ancora più a nord. Avevo storto la bocca per la bruttura del Lincoln Center e, osservando il New York City Ballet, mi era venuta voglia di andare per una volta a vedermi un bello spettacolo. Poi, a quel lungo crocicchio in cui Broadway attraversa Amsterdam Avenue, sulla Settantaduesima, avevo d’un tratto sentito un’onda tiepida salirmi dallo stomaco e invadermi spalle e collo. Sarà forse stato l’aspetto più britannico, che poteva ricordare – se non addirittura il centro di Glasgow – un brandello dello Strand di Londra, ma la travolgente eccitazione di New York lasciava il posto a qualcosa di più pacato e rassicurante. Avevo scorto l’insegna di una piccola agenzia immobiliare e senza stare tanto a pensarci ci ero subito entrato.
Un ragazzo snello e dall’aria tagliente, Josh, mi aveva accolto come un vecchio amico e mi aveva parlato di un posticino lì dietro che sembrava perfetto: se volevo potevamo vederlo anche subito. Mentre camminavamo, dopo avermi chiesto se ero fidanzato, Josh mi aveva detto con fastidiosa aria ammiccante che facevo bene a venire a stare a New York e che lì era pieno di pollastre a disposizione. Aveva detto proprio così: «Fai bene, fratello, qui ci sono un sacco di pollastre a portata di mano». Aveva pure accompagnato l’occhiolino con un viscido verso della bocca. Un paio di isolati più su avevamo girato in una tranquilla stradina costeggiata da basse case a tre piani con scale all’ingresso. Al secondo piano di ogni edificio si aprivano delle grandi e meravigliose vetrate semicircolari. L’appartamento era proprio al secondo piano, e la maggiore delle due stanze che lo componeva dava sulla vetrata. In fondo alla stanza c’era un minuscolo angolo cottura e dietro si apriva una cameretta, chiusa da un’enorme porta a vetri. Sulla sinistra, opposto all’angolo cottura, si trovava un bagnetto in cui una persona sovrappeso avrebbe fatto fatica a rigirarsi. Il pavimento era di parquet chiaro, ed era dai tempi della beneamata mansardina che non sentivo la stessa irrefrenabile attrazione per un brandello di mondo. Già vedevo il divano probabilmente chiaro su cui avrei passato i miei pomeriggi a leggere, il tavolo nell’angolo su cui avrei studiato e lavorato, il letto e i comodini che avrei potuto incastrare nella stanzetta dietro la vetrata.
Mentre pochi minuti più tardi scendevamo le strette scale coperte di moquette marroncina, una signora minuta e avvizzita era uscita dalla porta sul pianerottolo del pianterreno. Aveva dato un giro di chiave, poi si era voltata e aveva chiesto chi eravamo.
«Sono Josh, signora, dell’agenzia. Sono venuto a mostrare l’appartamento a questo ragazzo.»
La signora aveva strizzato gli occhi e mi aveva guardato meglio. Una nuvola di capelli azzurrini le circondava una ragnatela di rughe impantanate da centimetri di fondotinta.
«E lei chi sarebbe?» aveva chiesto la vecchietta lì sulle scale.
«Io non sono nessuno, signora, sono solo venuto a vedere l’appartamento.»
«Ah. E che fa nella vita?»
Avevo istintivamente pensato di semplificare le cose e sparare un po’ in alto.
«Sono un professore di Fisica a Princeton.»
Il volto della signora si era d’un tratto illuminato.
«Un professore!» era esplosa. «E così giovane! Ma che bellezza. Aspettate che vi offro un tè.»
Non sto a dire cos’era successo quando nel suo salottino al pianterreno, coperto di improbabili broccati, era venuto fuori che ero pure italiano. La signora Schmidtz era partita a raccontare di scorribande sulla costiera amalfitana e viaggi di nozze e pasti in riva al mare e gondole e serenate. Pareva di essere in un film degli anni Cinquanta.
In ogni caso alla signora Schmidtz dovevo essere piaciuto parecchio e per il momento in cui avevamo finito l’irrifiutabile tazza di tè era scesa molto sul prezzo dell’appartamento. Era semplicemente accaduto che mentre la signora ci divertiva con le sue storie e ci serviva il tè e se ne andava avanti e indietro con le sue gambe inteccherite, a me era preso un po’ a rimordere il fatto che non avessi in realtà il becco di un quattrino da spendere in un appartamento dell’Upper West, e quando la signora aveva iniziato a parlare di soldi, io avevo tentennato e provato a mettere le mani avanti.
«Signora, guardi, non so, non vorrei che...»
«È troppo, vero? Che dici, Josh, è un po’ troppo?»
Josh, visibilmente confuso da quell’imprevedibile corso degli eventi, aveva sgranato leggermente gli occhi e fatto spallucce.
«Sì, è effettivamente troppo: facciamo allora mille e cinque» aveva tagliato corto la signora Schmidtz.
«Signora, lei è gentilissima, ma davvero...»
«Mille e due.»
«Guardi, signora, non so che dire, credo che ci sia stato un...»
La signora aveva guardato Josh e aveva sorriso.
«Questi professori italiani sono degli ossi duri. Vabbè, facciamo mille e viva la scienza.»
Avevo fissato un attimo Josh, come se fosse al corrente della mia menzogna e cercassi conforto.
«Ma, non so...»
«Comprese le spese.»
«Vabbè, signora, che le devo dire? Mi pare perfetto.»
Sulla porta, pochi minuti più tardi, l’avevo ringraziata e le avevo detto che le avrei fatto sapere qualcosa quanto prima.
«Io intanto gliela tengo occupata» aveva detto la signora Schmidtz stringendomi le mani. Poi mi aveva tirato a sé e mi aveva dato due bei baci sulle guance: «Come fate voi italiani» aveva detto tutta contenta, prima di salutarci e guardarci andare via.
La frustrazione che avevo provato nel riprendere il treno per Princeton era direttamente proporzionale alla soddisfazione, appena cinque giorni più tardi, nel tornare dalla signora Schmidtz e dirle che prendevo l’appartamento. Visto che c’ero e che la signora Schmidtz sembrava volermi tanto bene, le avevo anche chiesto se non valesse la pena saltare l’agenzia e fare tutto tra noi.
«Mi pare un’ottima idea» aveva detto la signora sottovoce, ridacchiando e prendendomi a braccetto. «Voi italiani siete così svegli!»
Amavo tutto di New York. Amavo gli schiaffi di vento gelido in inverno, i pennacchi di vapore dei tombini, i poliziotti vestiti di nero, i camion rossi e bianchi dei pompieri, i carrelli pieni di lattine dei senzatetto, il giallo dei taxi, i grattacieli e le gallerie d’arte, la gente che camminava sempre di corsa e che in metropolitana leggeva il giornale piegato in strisce per non infastidire gli altri. Amavo il fatto che se per la strada prendevi trenta persone a caso non ce n’erano più di dieci dello stesso colore. Amavo Central Park e i laghi e i prati e i chitarristi che col bel tempo ci andavano a cantare, amavo i diner e gli hamburger e le birrerie e la distesa infinita di bar dove anche se tornavi dieci volte di fila non vedevi mai le stesse facce. Amavo le barche sull’Hudson e la Statua della Libertà e le scale antincendio dei palazzi e l’odore di carne sbruciacchiata di SoHo e il porfido rettangolare delle sue strade e gli ingressi luccicanti dell’Upper East. Amavo i carrelli degli hot-dog e i lavapiatti portoricani e il nero che i giornali italiani ti lasciavano sulle dita. Sì, a New York amavo anche essere italiano: era come se lì quel budello di terra a bagno nel Mediterraneo perdesse tutte le sue debolezze e tutte le sue stanchezze e diventasse un luogo frizzante e sorprendente da cui era un privilegio venire, e questo privilegio veniva costantemente celebrato da chiunque. Amavo il mio bilocale e il mio quartiere e i miei libri ammucchiati dappertutto e il bar dietro l’angolo e i suoi ottimi cappuccini e il giornalaio greco e il Deli che restava aperto tutta la notte e pure Ghon, l’insopportabile proprietario cinese che mi trattava come una pezza da piedi e che una volta, dopo già un anno che vivevo lì e lo vedevo quasi tutti i giorni, mi aveva rifiutato un credito di dieci centesimi: amavo un luogo in cui un bastardo cinese sfruttatore e puzzolente potesse prendersi la libertà di trattarmi come una pezza da piedi. Amavo la libreria che mi ero costruito da solo con mensole di abete, e il robusto signore del ferramenta che mi aveva venduto l’occorrente e la sua grande bindella gialla attaccata alla cintura e la sua camicia a scacchi canadese. Amavo il fatto che tutto lì era esattamente come doveva essere, la dignità con cui il controllore del treno che mi portava avanti e indietro da Princeton attaccava dei cartoncini ai passanti dei sedili, il colpo secco delle dita e la schiena bella dritta, la sua dura cortesia se ti capitava di chiedere un’informazione. Amavo la Public Library e la sua enorme sala da lettura che sapeva di stantio e amavo Battery Park e Shakespeare & Co. e la netta impressione che ognuno procedesse sull’elettrizzante crinale della disperazione.
E questo amore – escluse quelle sorprendenti occasioni in cui là a New York mi sentivo orgoglioso delle mie origini – si era trasformato nel corso degli anni in un sottile e insinuante sarcasmo per tutto ciò che riguardava il paesino della bassa Toscana da cui provenivo e tutte le sue regole non scritte e i suoi rituali e le crostate della domenica e le sagre e tutta quella paccottiglia da cui ogni santo giorno in cui vedevo spuntare il sole tra le cisterne dei tetti di Manhattan mi sentivo liberato. Improvvisamente però su quelle cisterne e sul signor Ghon e su tutto il resto era calata un’inattesa coltre grigiastra, e senza che me ne accorgessi m’ero trovato accucciato in terra, con le mani coperte di rena scura e una paletta di metallo arancione a fianco, a interrare nasturzi nel giardino dei miei genitori. Ero ormai già da un paio d’anni un giovane professore della Columbia University, e da un momento all’altro si era insinuato in me un elemento di cui nel frattempo avevo rimosso l’esistenza: il dubbio. All’epoca non era altro che il parente lontano di una sensazione, ma ripensandoci adesso era come se d’un tratto quella vita che mi era sempre parsa così solida e inconfondibile fosse semplicemente diventata una fra i miliardi di vite possibili, e tutte le altre mai vissute erano venute a bussarmi insistentemente alla porta. Il ritmo di quei colpi si era rapidamente trasformato nella metrica della solita, semplicissima e terrorizzante domanda: a cosa serve? Peraltro, attraverso qualche crepa, era colata fuori dal recipiente dei miei studi e aveva invaso tutto il mondo circostante. Ogni singolo evento di cui ero a conoscenza e pian piano ogni mio gesto e ogni mia ricerca mostravano una sinistra rifrazione che per qualche istante li faceva apparire diversi da ciò che erano. Quando una mattina un coro di voci nella mia testa si era addirittura messo a domandarmi a cosa mi servisse un buon caffè, avevo capito che forse era arrivato il momento di correre ai ripari.
Tornato a San Filippo, le uniche persone che vedevo volentieri erano la Giorgia e Paolino. Più o meno nel periodo in cui io iniziavo la mia storia con Trisha, Biagio incontrava Kate, e Greg – per usare parole sue – navigava gli abissi della perdizione, la sera della festa che ogni anno celebrava l’arrivo della primavera, la Giorgia se ne era andata da sola verso casa. Non ho mai saputo cosa fosse accaduto durante la festa, ma per qualche motivo l’immagine che mi sono sempre portato dietro è quella di una ragazza piuttosto scossa e impaurita. Era passata per il centro del paese e aveva scorto quella luce accesa sul lato opposto della piazza. Paolino, sull’uscio della bottega, stava sistemando qualcosa al motore di un vecchio Beta a tre marce.
«Ciao» aveva detto lei.
Paolino aveva alzato un momento lo sguardo e abbozzato un sorriso. L’ultima volta che la Giorgia gli aveva rivolto direttamente la parola era stato due anni prima, per chiedergli una sigaretta.
«Che fai?»
Paolino aveva di nuovo alzato lo sguardo e sospirato.
«Secondo te?»
L’anno precedente al babbo di Paolino era venuto un ictus e si era ridotto in seggiola a rotelle. Paolino si era all’improvviso dovuto occupare della bottega da solo, e pur di non perdere clienti e di continuare a raccogliere i quattrini per le nuove spese mediche lavorava spesso dopo cena. Mi aveva detto che in realtà non gli pesava poi molto: gli piaceva stare con le mani sui motori, e non aveva granché altro da fare. Quella sera gli dava pure la scusa per non partecipare alla festa.
«Posso restare?» aveva domandato la Giorgia.
Paolino aveva alzato le spalle e lei si era seduta lì vicino su una Vespa senza motore. Non si erano detti molto altro, eppure la Giorgia era rimasta tutta la sera a guardarlo lavorare. C’era qualcosa di ipnotico, in quelle mani che si muovevano sul motore e stringevano e incastravano pezzi, qualcosa da cui la Giorgia non aveva più saputo staccarsi. D’un tratto – mi aveva confessato anni dopo, una sera qualunque a cena da loro, mentre Paolino era un attimo di là – le era sembrato che quelle mani potessero aggiustare qualsiasi cosa, e si era sentita improvvisamente al sicuro. In quel preciso istante si era resa conto di aver sbagliato tutto, nella vita, e che ciò che fino a un secondo prima pensava fosse bello, in realtà di bello non aveva nulla, e tutto ciò che le era sembrato importante non valeva un soldo. Da un momento all’altro era Paolino a sembrarle bello – magari un po’ sporco, ma ci si poteva far qualcosa – e il modo in cui lavorava la cosa più solida su cui avesse mai posato gli occhi. La Giorgia l’aveva scelto, e paradossalmente aveva dovuto faticare parecchio per convincerlo. L’incredulità di Paolino non era poi così difficile da comprendere: era quantomeno bizzarro che la ragazza più carina del paese gli ronzasse intorno. Forse anche la più disponibile, ma certo fino a quel momento non per uno come lui. Eppure alla fine era riuscita a vincere i suoi sospetti e farlo cedere. Pare fosse volata pure qualche battuta, ma erano durate poco. «Oh, benvenuto nel club» gli aveva detto un giorno Mauro ridendo, seduto sullo schienale di una panchina, mentre Paolino usciva dall’Arci dopo aver comprato le sigarette. Paolino si era fermato, era tornato indietro e senza spiccicare parola aveva dato un picchio a Mauro talmente forte da farlo volare due metri indietro. Un’ora dopo Mauro parlava ancora in maniera sconnessa. Nessuno si era mai più azzardato a dire niente e sei mesi più tardi Paolino e la Giorgia erano sposati. Lo devo ammettere: nessuna altra coppia, fra tutte quelle che ho incontrato e conosciuto, ha mai mostrato di essere combinata tanto bene. Degli aspetti più sgradevoli della Giorgia, del suo sarcasmo e della sua civetteria, dopo essersi messa con Paolino non era rimasto niente. E Paolino aveva dimostrato di avere un imprevedibile senso dell’umorismo, e anche – a modo suo e con i suoi tempi – un certo gusto per la chiacchiera. Aveva pure preso a usare lo shampoo. Si ride parecchio, da loro, e si parla senza fretta o cerimonie. Hanno messo al mondo tre figli a nemmeno due anni uno dall’altro. Sembravano non volersi più fermare. Due femmine, Giulia e Lisa, e un maschio, Dario, come il babbo di Paolino. Prima di tornare faccio sempre un giro da FAO Schwarz e mi diverto a comprare balocchi che credo in Italia non si trovino. Purtroppo da un po’ di tempo in Italia arriva quasi tutto ed è diventato più difficile. I bambini però sono sempre contenti e quando arrivo mi corrono incontro e mi chiedono i regali e mi chiamano zio Jacopo. A Dario mi hanno pure fatto fare da padrino; gli dissi che non ero molto adatto, ma loro scoppiarono a ridere.
«Nemmeno noi.»
Qualche volta, quando erano ancora più piccoli, per liberarsi le mani la Giorgia o Paolino me ne appioppavano uno in collo. Era buffo vedere quegli animaletti che mi si muovevano addosso come larve. Appena riprendevano a piangere o vomitavano glieli rendevo.