XVII
Langley non tenne del tutto segreto il ritorno di Marin nel suo appartamento. Anche se l'avessero notato, non avrebbe sollevato molti commenti. Solo fu discreto e cercò di passare inosservato. Quando ebbe la fanciulla con sé, si sorprese a dormire di un sonno più tranquillo.
Il giorno dopo prese micro-films di ogni dato che poté trovare nella biblioteca sul conto della società e fece anche preparare un riassunto dal robot; quando tutto fu pronto, mise il materiale ottenuto nella borsa che teneva alla cintola. Era deludente se rifletteva su quali deboli elementi si basava tutta la sua teoria. Il carattere di Valti era uno degli elementi che lo confortavano in quella sua tesi. Pensava che il commerciante avrebbe speso una vita per poter comprendere alcuni piccoli particolari, se avesse potuto notarli, tanto era condizionato dalla educazione ricevuta. Ma era proprio come lui credeva?
Il sole calò all'orizzonte. Langley e Marin cenarono, ma senza gustare i cibi. Gli occhi della fanciulla erano assenti mentre stava ad osservare il mondo immerso nella penombra.
– Sentirai nostalgia della Terra? – le chiese Langley.
Marin sorrise dolcemente. – Un poco, qualche volta. Ma non ne soffrirò molto con te vicino.
Langley si alzò e prese dal portamantelli un mantello per lei. Col cappuccio tirato sui capelli Marin sembrava anche più bimba e spaurita. – Andiamo – decise Langley.
Scesero sino all'entrata e nelle vie mobili. La folla rideva e parlava attorno a loro, vestita di colori vivaci, alla caccia disperata di divertimento.
Le luci formavano come un arcobaleno di mille colori.
Langley cercava di dominare la tensione che avvertiva in sé. Non aveva niente da guadagnare lambiccandosi il cervello sulle forze coalizzate contro di lui. Calmati, si diceva. Respira profondamente l'aria profumata della notte, godi della visione delle stelle e del panorama della città.
Domani potresti essere morto.
Le «Due Lune» era una taverna ben conosciuta, un locale che appariva leggermente alla buona ed era situato sul tetto dei livelli bassi proprio ai piedi del gigantesco edificio della Interplanetary Enterprise Tower.
Entrando, Langley si ritrovò immerso in un'atmosfera marziana: cielo di un verde-blu cupo, un canale moderno e un tratto di deserto rosso. Un velo di fumo profumato annebbiava l'ambiente e il tono in chiave minore di una canzone popolare marziana. Separé a forma di grotte erano allineati a una parete. Opposto a questo lato vi era il bar e un piccolo palcoscenico sul quale una danzatrice si contorceva con aria annoiata, accompagnandosi alla musica. Il mormorio di un locale notturno affollato faceva da sfondo alla musica stessa.
Le 20,45. Langley s'aperse la strada verso il bar. – Due birre – ordinò. Il robot allungò il braccio coi due bicchieri che si riempirono attraverso il braccio stesso, poi li porse a Langley tendendo la mano per ricevere il denaro.
Un uomo dalla pelle riarsa dal sole e le fattezze di un marziano gli fece un cenno. – Non si vedono molti professori in un luogo come questo – osservò lo sconosciuto.
– È la nostra notte di baldoria – rispose Langley.
– Anche la mia, credo. Non posso aspettare di ritornare a casa. Questo pianeta è troppo pesante. Naturalmente, anche Marte è poco piacevole, in questi tempi. Una volta dominavamo il sistema solare. Erano belli i vecchi tempi! Ora siamo solo piccoli, bravi bambini che obbediscono al Technon, come tutti gli altri.
Un poliziotto nell'uniforme nera si avvicinò alle loro spalle. Il marziano tacque immediatamente fece del suo meglio per assumere un'aria innocente.
– Mi scusi, signore – disse il poliziotto, toccando Langley sulla spalla. – La stanno attendendo.
Tutto parve vacillare attorno allo spaziale, per un istante solo, sino a quando riconobbe il volto, ora senza barba, sotto l'elmetto. Era l'uomo che aveva minacciato gli agenti di Brannoch con un disintegratore, giù nei livelli inferiori, il giorno in cui si era fatto catturare. Pareva fosse passato tanto tempo da quel giorno.
– Vengo subito – rispose Langley, seguendolo. Marin gli tenne dietro e tutti e tre entrarono in un separé.
Il piccolo stanzino era pieno di uniformi. Una sagoma massiccia vestiva una specie di armatura da combattimento. La voce di Valti scaturì da sotto l'elmetto. – Buona sera, capitano. Mia signora! È tutto chiaro?
– Sì. Tutto a posto, credo.
– Di qua. Ho un accordo col nostro ospite.
Valti premette col dito un punto delle decorazioni della sala e la parete posteriore di questa si aperse scoprendo una scala, la prima che Langley vedesse in quel tempo. Salirono a una piccola cameretta dove stavano due uniformi della polizia ministeriale. – Indossatele, prego – ordinò Valti. – Credo che lei possa trovarsi più a suo agio e dar meno nell'occhio se deve agire come un aristocratico, anziché come uno schiavo. Tuttavia lasci che parli io, sempre, tranne che con Saris.
– D'accordo.
Marin si tolse le vesti di dosso senza ombra d'imbarazzo e infilò la divisa. I capelli tirati sotto l'elmetto, la veste che pendeva negligentemente dalle spalle, poteva passare per un giovane ministro che avesse obliato il proprio rango per poter partecipare a quell'azione per semplice piacere.
Valti spiegò il suo piano, poi scesero ancora nel separé e di lì nella strada. Era un gruppo sparuto, e sembrava follia sfidare con quei soli uomini tutta la potenza del sistema solare.
Nessuno parlò mentre le strade mobili li portavano verso il centro di ricerche militari, sul lato ovest della città. Langley avrebbe voluto abbracciare Marin, ma in quelle condizioni non sarebbe stato prudente.
Loro meta era una torre che svettava dalla muraglia della cinta cittadina e stava appartata dagli altri edifici consimili. Certo, dietro la liscia facciata di plastica, c'erano cannoni e armi pronte per l'uso. Mentre Valti e il suo gruppo raggiungevano un raccordo centrale e s'incamminavano verso l'ingresso, tre schiavi uscirono da una nicchia.
I tre militari si inchinarono e richiesero i nuovi venuti del motivo della loro visita.
– Motivo speciale ed urgente – rispose Valti, mentre l'elmo, scendendogli sul volto, alterava l'accento della sua voce. – Dobbiamo rimuovere da questo luogo un certo soggetto di studi segreti e dobbiamo portarlo in luogo più sicuro. Queste sono le nostre credenziali.
Una delle guardie fece uscire dal suo nascondiglio un tavolo ripieno di strumenti. I documenti furono controllati microscopicamente. Langley pensò che i documenti del Technon avessero un codice numerico che cambiava giornalmente, a caso. Le tracce retinali di diversi uomini furono controllate e confrontate con quelle marcate sui documenti. Finalmente, il capo delle guardie annuì: – Molto bene, signore. Desidera aiuto?
– Sì – rispose immediatamente Valti. – Faccia portare qui una macchina della polizia. Torneremo subito. Non faccia entrare nessun altro prima che noi siamo di ritorno.
Langley pensò alle armi automatiche celate nelle pareti, ma la porta si aperse e allora seguì Valti lungo un corridoio. Passarono dinanzi a molte stanze che servivano da alloggiamento, ma nessuno di coloro che vi si trovavano interferì. Finalmente dovettero fermarsi a un altro posto di controllo. Superato anche quell'ostacolo, andarono alla prigione di Saris. I documenti che avevano con sé indicavano dov'era.
L'Holatan giaceva su una branda dietro una cancellata. Il resto della cella era un intrico di macchine e strumenti di laboratorio dall'aspetto enigmatico. Vi erano sentinelle, armate di armi meccaniche ed anche elettroniche e un paio di tecnici che lavoravano a un tavolo. Prima di poter rilasciare il loro prigioniero, le guardie dovettero chiamare il loro comandante. Ne seguì un'altra discussione.
Langley era andato immediatamente alla cella. Saris non fece cenno di averlo riconosciuto. – Salve! – esclamò l'americano, parlando in inglese. – Stai bene?
– Sì. Finora, hanno solo fatto controlli e misurazioni elettriche. Ma è duro essere rinchiusi qui.
– Ti hanno insegnato la lingua moderna?
– Sì. Molto bene. Meglio dell'inglese.
Langley si sentì sollevato. Tutto il suo piano si basava su questo presupposto, per debole che fosse, e sulla grande abilità degli Holatan di apprendere altri linguaggi.
– Sono venuto per farti uscire – spiegò. – Bada che ci sarà parecchio da fare e dovrai rischiare anche la vita.
Saris ebbe uno sguardo amaro al suo amico. – La mia vita? Tutto qui?
Non è molto, in queste condizioni.
– Marin sa già come si sono svolti i fatti e conosce il mio piano. Ora devi essere informato anche tu. Ma saremo noi tre soli contro tutti gli altri.
E Langley informò Saris, rapidamente, di tutto quanto aveva scoperto.
Gli occhi gialli di Saris brillarono di fierezza mentre i muscoli gli si contraevano sotto la pelle, ma la voce era fredda, calma, quando rispose semplicemente: – Sta bene. Tenteremo così. – Ma il tono sommesso appariva annoiato e disperato.
Valti ebbe partita vinta col capo carceriere. Una lunga scatola metallica venne inserita in un apparato antigravitazionale. Saris vi venne fatto entrare direttamente dalla cella e rinchiuso. – Possiamo andare, mio signore? – chiese Valti.
– Sì – rispose Langley. – Possiamo andare. L'accordo è completo.
Diversi uomini spingevano la scatola fluttuante, nella quale erano fori per la respirazione, lungo sale e corridoi. Anche col peso annullato, l'inerzia era sempre forte e se avessero messo in funzione il sistema di propulsione elettronico avrebbe dato l'allarme. Quando emersero ancora sullo spiazzo, trovarono un grande aereo che li attendeva. La prigione di Saris venne messa nello scompartimento poppiero e parte degli uomini si sistemarono con quella, parte nella cabina. Valti fece decollare la macchina e la diresse verso l'ambasciata centauriana.
Ricacciandosi l'elmetto sulla nuca per respirare, il commerciante mise in mostra un volto sudato. – Il peggio viene ora – si lamentò. – Se potessimo andare direttamente al mio alloggio! Quel carceriere, là, chiamerà immediatamente Chanthawar, ci scommetterei il collo. Allora incominceranno i guai.
Langley era dibattuto dall'assillo di mettere in atto il suo piano subito, prima di dover affrontare anche l'altro nemico assieme a Valti. Mettere da parte Brannoch, semplicemente? No! Non ne aveva il tempo e Saris era nell'impotenza, rinchiuso in quella gabbia dalla serratura meccanica.
Mordendosi le labbra, l'americano attese.
L'aereo si fermò nei pressi della torre di cui la lega aveva il terzo superiore ad uso di uffici e appartamenti. Valti condusse metà dei suoi uomini verso l'ingresso. Ancora una volta dovette mostrare documenti e sottostare a controlli. Chanthawar teneva il luogo sotto stretta sorveglianza. Gli ordini che aveva Valti, questa volta, erano di impadronirsi di alcuni personaggi importanti dell'ambasciata centauriana.
Sarebbe stato, il loro, un viaggio senza ritorno. Il capo del posto di blocco sorrise.
– Portiamo dentro la gabbia – rammentò Langley.
– Cosa? – chiese Valti, sbalordito. – Perché, mio signore?
– Potrebbero tentare qualche gesto disperato. Non si sa mai. Sarà un brutto colpo per loro; meglio essere preparati.
– Ma... il congegno... funzionerà a dovere, mio signore?
– Sì. L'ho controllato io.
Valti rimase ancora indeciso e Langley si sentì bagnare di sudore. Se il mercante avesse rifiutato...
– D'accordo, mio signore.
Potrebbe essere una buona idea.
La gabbia entrò lentamente, spinta attraverso un grande portale. I servi, probabilmente, stavano dormendo, rinchiusi nei loro quartieri. L'uscio delle stanze private di Brannoch era dinanzi a loro e il Thoriano li aspettava di già.
– Cosa significa questa intrusione? – chiese freddamente mentre il corpo massiccio sotto il pigiama dai colori impossibili era pronto per un balzo disperato sui nuovi venuti. – Io non vi ho invitato.
Valti gettò da parte l'elmetto. – Potrebbe anche trovarsi contento, in seguito a questa visita, mio signore.
– Ah, è lei! E anche Langley! E... Entrate. – Il gigante li condusse in salotto. – Cos'è questa storia?
Valti gli spiegò. L'aria di trionfo che gli aleggiava sul volto, rendeva Brannoch difficilmente riconoscibile per un essere umano.
Langley stava accanto alla gabbia fluttuante. Non poteva parlare con Saris, non poteva avvertirlo. L'Holatan era nell'impossibilità d'agire, rinchiuso in quella specie di bara.
– Avete inteso, Thrimkas? – gridò Brannoch. – Ora chiamo gli uomini e ce ne andremo...
– No!
Brannoch rimase tanto confuso che si fermò a mezza via. – Che c'è, adesso?
– Non chiamare gli uomini – rispose la voce metallica. – Sapevamo che sarebbe accaduto e sappiamo cosa dobbiamo fare. Tu andrai con loro, solo.
Noi ti seguiremo con la nostra cisterna, dopo.
– Ma per tutto l'universo, cosa...
– Corri! C'è ben più di quanto sai tu che bolle in pentola. Chanthawar potrebbe giungere in ogni momento e noi abbiamo molto da fare ancora.
Brannoch esitò. Se avesse avuto un istante per pensare, si sarebbe rammentato delle facoltà di Saris, avrebbe notato l'accento strano, appena percettibile nella sua diversità, dei Thrimkas. Ma l'avevano levato dal letto all'improvviso, ed era abituato ad obbedire ciecamente agli ordini.
Valti lo fece decidere. Il volto del vecchio mercante appariva radioso. – Hanno ragione, mio signore. Sarebbe maledettamente difficile far uscire la loro cisterna senza dare nell'occhio e occorrerebbe molto tempo per radunare tutti i suoi uomini. Meglio andarcene in fretta.
Brannoch annuì; infilò un paio di stivaletti ed uscì, passando fra le guardie messe lì per impedirgli la fuga. Langley gettò un'occhiata di sfuggita a Marin e la vide pallida. Mentalmente, sperò che nessuno potesse accorgersi dello sforzo che faceva lui per dominarsi.
Sino a quel momento tutto era andato bene. Fermarsi all'ambasciata era stato inevitabile. L'opposizione principale era venuta da un solo uomo, ed era un uomo al quale Langley intendeva dire la verità.
Saris non solo aveva dovuto prendere il controllo del microfono dei Thrimkas, ma aveva immobilizzato il sistema di trasporto della loro cisterna, lasciandoli impotenti sulla Terra. L'aveva fatto? Era stato in grado di farlo, rinchiuso in quella gabbia? Forse!
Sarebbe stato strano se quelle intelligenze sospettose si fossero contentate di un sistema che li avrebbe posti in balia di ogni imprevedibile accidente. Dovevano avere il modo di riparare la loro macchina, apparati robot controllati dall'interno. Certi avevano mezzi di comunicazione per dare l'allarme a tutti i sabotatori e le spie centauriane perché aggredissero gli uomini di Chanthawar, procurandosi una via di scampo, salire su un'astronave e fuggire.
I Thrimkas sarebbero fuggiti e loro non potevano far nulla per impedirglielo. Forse avrebbero cercato di vendicarsi, né Chanthawar sarebbe rimasto inattivo per molto ancora. Tutto stava a vedere se Valti e i suoi potevano fuggire prima che un raggio rivelatore potesse venir puntato su di loro.
Sarebbe interessante poterlo sapere, pensò Langley.