XIV
Una sirena ululò. Al suono che si ripercuoteva nel sotterraneo, le due guardie si sentirono gelare per un lungo istante.
La porta della cella si aperse e Saris ne balzò fuori. Con agilità felina si lanciò contro una guardia e la scagliò contro una parete uccidendola.
L'altra venne scagliata a qualche metro di distanza, ma riuscì a rimettersi dalla sorpresa e puntò l'arma contro l'Holatan. Langley si scagliò su di lei.
Il capitano non era né un pugile, né un lottatore. Afferrò la mano armata del militare e la torse mentre con l'altra mano gli menava un pugno alla mascella. L'uomo sputò sangue, ma non crollò; invece, colpì con un calcio Langley alla caviglia. L'americano abbandonò la presa e il Thoriano gli puntò contro il disintegratore. Saris, liberatosi dalla prima guardia, lo uccise con una manata.
– Stai bene? – chiese Saris. – Sei ferito?
– Posso ancora muovermi. – Langley scosse la testa amareggiato come se anche quella fosse stata una sconfitta. – Andiamo. Liberiamo gli altri.
Forse riusciremo a fuggire in questo fracasso.
Spari ed esplosioni si udivano provenire dalle altre stanze. Valti uscì dalla sua cella, la barba rossa e disordinata che tremava per l'emozione. – Seguitemi – ruggì. – Da questa parte. Ci dev'essere un'uscita secondaria.
I prigionieri lo seguirono correndo in fretta lungo il corridoio sino a una porta che Saris aperse. Una rampa saliva da quella al livello del terreno.
Saris si raccolse, pronto a balzare: tutto poteva attenderli quando si fossero trovati allo scoperto, ma non avevano alternative. La porta si aperse al suo avvicinarsi e la luce del giorno lo investì in pieno.
Aerei neri pattugliavano la zona dall'alto ronzando come calabroni inferociti. Un elicottero era posato presso uno degli edifici. Saris corse verso di quello con grandi balzi. Lo aveva quasi raggiunto quando un razzo azzurrognolo dal cielo lo tagliò in due.
Giratosi come un fulmine, l'Holatan sembrò raccogliersi in meditazione.
Due aerei della polizia si scontrarono immediatamente e precipitarono in fiamme. Saris si lanciò di corsa verso una siepe e gli umani lo seguirono, ansimando. Una cortina di fuoco saettò lungo il sentiero che seguivano.
Valti urlò, indicando qualche cosa dietro di loro: poliziotti schiavi, vestiti di nero, li inseguivano uscendo in quel momento dai sotterranei.
– Ferma le loro armi! – gridò Langley che, avendo afferrato un fucile, lo portava alla spalla in quel momento e faceva fuoco. Il rinculo e lo sparo, cui seguì un grido del poliziotto colpito, furono come un sollievo per lui.
– Sono troppi. – Saris si era acquattato a terra, ansante. – Sono più di quanti ne possa affrontare. Comunque, non avevo molta speranza di poter fuggire.
Langley imprecò e gettò a terra il fucile.
Il poliziotti li radunarono senza difficoltà. – Signori, siete tutti in arresto – disse l'ufficiale. – Vi prego di seguirmi.
Marin piangeva in silenzio.
Chanthawar era negli uffici della piantagione. Guardie erano dappertutto e Brannoch stava mogio mogio in disparte. Il solariano era immacolato nella sua tunica, ma sul suo volto non si notava traccia di gioia.
– Come sta, capitano Langley? – chiese. – E Goltam Valti, signore, naturalmente. Pare che sia arrivato proprio al momento giusto.
– E allora concluda bene quel che ha iniziato tanto bene: ci faccia fucilare e non se ne parli più – rispose Langley.
Chanthawar inarcò un sopracciglio. – Perché quell'aria melodrammatica?
Un ufficiale entrò, s'inchinò e fece il suo rapporto. La roccaforte di Brannoch era presa, tutto il personale era o morto o catturato. Perdite dei terrestri: Sei morti e dieci feriti. Chanthawar diede un ordine e Saris venne costretto ad entrare in una gabbia fatta preparare appositamente per lui e condotto fuori.
– In caso fosse curioso di sapere come ho fatto a rintracciarvi, capitano – esclamò il ministro. – Mi sono servito...
– Lo so – rispose lo spaziale.
– Eh? Ah, sì. Saris avrà scoperto il mio giochetto. Ho corso il rischio sperando che non l'avrebbe scoperto a tempo e pare che sia andata proprio così. Avevo preparato altri mezzi per rintracciarvi, ma è stato questo a funzionare. – La sua bocca si atteggiò al sorriso che gli era usuale. – Nessun rancore, capitano? Lei certo avrà tentato di fare quel che riteneva più giusto; ne sono convinto.
– E di noi cosa intende farne? – chiese Brannoch.
– Be', signore. Credo proprio che dovremo espellerla.
– Va bene. Andiamo. Ho una nave...
– O no, mio signore. Non possiamo essere tanto scortesi. Il nostro Technon dovrà prima essere interrogato, dovrà preparare il suo trasporto.
Ci vorrà del tempo... forse qualche mese.
– Sino a che avrete potuto ultimare l'annientatore. Capisco.
– Nel frattempo, lei e i suoi collaboratori rimarrete nella vostra residenza e io vi manderò numerose guardie che avranno cura che nessuno... vi disturbi.
– Sta bene! – Brannoch si sforzò di sorridere. – Devo ringraziarla per questo. Credo che, nei suoi panni, io l'avrei uccisa senza pensarci due volte.
– Un giorno o l'altro, signore, la sua morte potrebbe anche divenire necessaria – rispose Chanthawar, ridendo. – Per il momento, le devo qualche cosa. Questo affare mi gioverà assai nella mia posizione, lei comprende. Vi sono incarichi ben più alti di quello che occupo attualmente, e ben presto saranno a mia disposizione.
Poi Chanthawar si volse a Langley. – Ho dato disposizioni anche per lei, capitano. I suoi servizi non sono più necessari poiché abbiamo trovato un paio di letterati che parlano l'antico americano e fra quelli e le tecniche moderne, Saris potrà apprendere la nostra lingua in pochi giorni. Per lei, è stato riservato un appartamento e anche un incarico all'università di Lora.
Storici, archeologi e planetografi sono ansiosi di conoscerla. La paga è poca, ma conserverà i privilegi dei nati liberi.
Langley non rispose. Così intendevano metterlo da parte. Non avrebbe potuto più influire sugli avvenimenti della galassia. Quella era la fine.
Valti si schiarì la gola. – Mio signore, devo rammentarle che la società...
Chanthawar lo fissò a lungo attraverso le ciglia socchiuse. Il volto impassibile era anche più privo di espressione di prima. – Lei ha commesso crimini violando le leggi del sistema solare – mormorò lentamente.
– L'extraterritorialità...
– Non si applica qui. Nel migliore dei casi, ci sarebbe la deportazione. – Chanthawar parve dominarsi. – Tuttavia, la lascio andare libero. Prenda i suoi uomini, li faccia salire su un aereo della piantagione e fate ritorno a Lora.
– Il mio signore è troppo buono – esclamò Valti. – Posso chiedere perché?
– Non si preoccupi. Se ne vada.
– Mio signore, sono un criminale e lo confesso. Voglio essere sottoposto a un processo regolare di fronte a un tribunale misto, secondo ciò che è stabilito dall'articolo VIII, sezione 4 del trattato della Luna.
Chanthawar lo guardò freddamente. – Esca immediatamente; altrimenti la farò cacciare.
– Voglio essere arrestato – urlò Valti. – Insisto per il rispetto dei miei diritti e privilegi che mi concedono di mettere in pace la mia coscienza. Se lei non mi farà arrestare, mi appellerò direttamente al Technon.
– Molto bene! – scattò Chanthawar. – Ho ordine dal Technon stesso di lasciarla andare libero, senza punirla, senza pretendere riparazione alcuna.
Perché, lo ignoro, ma è un ordine. Mi giunse non appena inoltrai il rapporto che riguardava la situazione e la mia intenzione di attaccare venne conosciuta. È soddisfatto?
– Sì, mio signore – rispose blandamente Valti. – E grazie per la sua gentilezza. Buon giorno, gentiluomini. – E Valti, inchinandosi profondamente, uscì.
Chanthawar scoppiò a ridere. – Vecchio calabrone insolente. Non avrei voluto dirglielo, ma l'avrebbe saputo ugualmente col tempo. Ora lasciamolo a lambiccarsi il cervello per sapere cosa faremo. Il Technon diviene misterioso, a volte, ma forse un cervello che fa piani di politica galattica e prevede avvenimenti con mille anni d'anticipo deve farlo. – Poi, levatosi e stiratesi le membra: – Andiamo. Forse arriverò in tempo per quel concerto a Sulma, questa sera.
Langley rimase abbagliato dalla luce del sole, fuori. I tropici terrestri erano anche più caldi ora che nei suoi giorni. Vide un gruppo di militari che salivano su un aereo e un tonfo al cuore lo fece arrestare. – Chanthawar, posso dire addio al mio amico Saris?
– Mi dispiace. – Il ministro scosse la testa in un gesto che non era privo di compassione. – Lo so che è suo amico, ma già troppi sono stati i rischi che abbiamo corso in tutta questa faccenda.
– Bene... Potremo rivederci ancora, un giorno?
– Forse. Non siamo dei bruti, capitano e non intendiamo maltrattarla, se collaborerà. – Poi, indicandogli un piccolo aereo: – Quello è per lei, capitano. Addio. Spero di incontrarla ancora qualche volta, se ne avrò l'occasione.
Voltategli le spalle, Chanthawar se ne andò frettoloso sollevando piccoli nugoli di polvere sotto gli stivaletti.
Marin e Langley salirono sulla macchina. Silenziosa, una guardia venne e inserì l'autopilota. L'aereo si sollevò lieve e la guardia sedette dinanzi a loro attendendo alla manovra con pazienza ormai abituale.
La fanciulla rimase muta a lungo. Alla fine chiese: – Come hanno fatto a trovarci?
Langley glielo disse.
Questa volta Marin non pianse. Pareva non avesse più lacrime. Non parlarono quasi più durante le ore che durò il viaggio.
Lora emerse come una immensa fontana di fuoco dall'orizzonte notturno rotto dalle orgogliose torri e dalle cupole. L'aereo la sorvolò puntando a nord verso una delle torri più piccole. La guardia fece un gesto ai due passeggeri: – Il vostro appartamento è il numero 337, proprio sotto la grande sala, signore. Buona sera.
Langley apriva il cammino. La porta si aperse dinanzi a lui che, entrato, poté vedere un appartamentino di quattro piccole stanze, comode ma prive di ogni sfarzo. Vi era un robot di servizio, ma era evidente che il nuovo stato non consentiva schiavi umani all'americano.
Tranne... Si volse a fissare Marin per un lungo minuto. La fanciulla sostenne quello sguardo con fermezza, ma era pallida e lo sguardo cupo.
Quella creatura priva di volontà non era Peggy, pensò Langley.
Collera e amarezza s'impadronirono di lui. Quella era la fine di tutte le sue speranze. Aveva tentato, e tutto era stato vano; Marin era la responsabile di tutte le sue delusioni.
– Va' via – esclamò.
La fanciulla si portò una mano alla bocca, come se l'avesse colpita, ma nessuna parola le uscì dalla gola.
– Mi hai inteso. – L'uomo si allontanò camminando sul pavimento leggermente elastico, come se fosse stato di carne, e andò a guardare dalla finestra. – Ti do la libertà. Non sei più schiava, ora. Capisci?
Marin non rispose.
– Vi è qualche formalità necessaria?
Marin glielo disse con voce smorta. Allora lui formò il numero dell'ufficio competente e avvertì che lui, solo proprietario della schiava Marin, decideva di darle la libertà. Poi si volse, ma non poté sostenere lo sguardo di quegli occhi verdi.
– Non è stata colpa tua – le disse, mentre il sangue gli martellava furiosamente al cervello. – Non è stata colpa di nessuno e tu sei stata solo uno strumento involontario. Certo. Io non ti condanno. Tuttavia non posso sopportare di averti con me. Mi hai portato troppa sfortuna.
– Mi dispiace – mormorò lei.
– Anche a me – mentì Langley. – Esci... Vattene... Cerca di sistemarti – e quasi senza avvedersene, si sfilò la borsa dalla cintola e gliela gettò. – Prendi. C'è abbastanza denaro lì dentro. Vedi di usarlo per sistemarti.
Lei lo fissò con uno stupore che svanì piano piano. – Addio – sussurrò. – Camminando eretta uscì dalla stanza e fu solo molto tempo dopo che Langley si accorse che non aveva preso il denaro che lui le aveva dato.