I

La nave spaziale emerse dall'iperspazio e si ritrovò immersa nell'oscurità punteggiata di stelle. Per un momento vi fu silenzio, poi:

– Il sole dov'è?

Edward Langley fece ruotare la poltrona di pilotaggio. Nella cabina tutto era silenzio. Udiva solo il ronzio dei ventilatori e pulsare nel suo petto il proprio cuore. Il sudore gli colava strisciando argenteo sulle guance. L'aria era calda.

– Io... non lo so – rispose, alla fine. Le parole echeggiarono dure e vuote.

Gli schermi sul quadro dei comandi gli davano la visione di tutto il cielo.

Vedeva Andromeda e la Croce del Sud e confusa la costellazione di Orione ma in nessun punto di quel cristallo nero splendeva il disco luminoso che si era atteso.

La mancanza di peso gli dava l'impressione di un'eterna caduta.

– In via generale, siamo nella zona, e sta bene – continuò dopo un minuto. – Le costellazioni sono le stesse, più o meno. Ma... – La voce si spense.

Quattro paia d'occhi avidi scrutarono lo schermo. Finalmente Matsumoto parlò: – Qua... Nel Leone... La stella più luminosa.

Tutti fissarono il punto giallo intenso. – Il colore sembra quello... giusto,

– esclamò Blaustein. – Ma è molto lontana.

Dopo un breve istante di pausa, brontolando impazientemente, tornò nel suo sedile, si curvò verso lo spettroscopio, lo mise a fuoco con cura sulla stella, poi premette un pulsante sull'unità di comparazione. Nessuna luce rossa lampeggiò.

– Lo stesso, per quanto riguarda le linee di Fraunhofer – dichiarò. – La stessa intensità per tutte le linee, ad eccezione di pochi quanti. Quello è il sole, oppure è il suo fratello gemello.

– Ma quanto è distante? – chiese Matsumoto.

Blaustein sintonizzò l'analizzatore fotoelettrico, ne lesse la risposta su un'apposita scala e manovrò un piccolo regolo. – Circa un terzo di anno-luce – rispose. – Non è molto lontano.

– Lo è anche troppo, maledizione – brontolò Matsumoto. – Avremmo dovuto arrivare assai più vicino. Non dirmi che la maledetta macchina dà i numeri ancora una volta.

– Sembra di sì, non credi? – fece Langley, muovendo le mani sui comandi. – Devo provare di portarla più vicina?

– No – rispose Matsumoto. – Se ci dà un errore tanto forte, il prossimo balzo potrebbe portarci addirittura sul sole.

– Il che sarebbe quasi come atterrare sull'inferno del Texas – ribatté Langley, sorridendo benché sentisse la gola inaridirsi. – Va bene, ragazzi; potete anche andare fuori e incominciare a riparare quella trappola. Prima lo fate, e prima si può tornare a casa.

Gli altri annuirono e uscirono dalla cabina di pilotaggio. Langley sospirò. – Né io, né te possiamo nulla, Saris.

L'holatan non rispose. Non parlava mai quando non era necessario. Il suo corpo grande, coperto di pelo rado, rimaneva immobile sulla cuccetta antigravitazionale che avevano improvvisato per lui, ma lo sguardo era attento. L'essere emanava un certo odore, ma non era sgradito: l'odore dell'erba inondata di sole di una vasta pianura. Sembrava fuori posto in quella specie di piccola bara metallica e si capiva che apparteneva a uno di quei mondi sconfinati dello spazio.

Lo sguardo di Langley parve smarrirsi. Un terzo di anno-luce, pensò.

Non è molto. Tornerò a te, Peggy, dovessi fare la strada carponi.

Inserito il pilota automatico per prevenire il poco probabile incontro con un meteorite, Langley si liberò dalla poltrona. – Non dovrebbero metterci molto – esclamò. – Ormai è la loro specialità quella di smontare quel mucchio di ferrivecchi. Nel frattempo non la faresti una partita a scacchi?

Saris Hronna e Matsumoto erano i due irriducibili avversari nel gioco degli scacchi. Era strano vederli giocare, il terrestre i cui antenati avevano lasciato il Giappone per gli Stati Uniti e la creatura di un pianeta distante un migliaio di anni-luce rapiti in un gioco di origine persiana, vecchio di millenni. Più degli spazi aperti che aveva traversati, più dei soli e dei pianeti che aveva visto ruotare nel buio e nel vuoto, quel gioco dava a Langley la sensazione della immensità e dell'onnipotenza del tempo.

– No, ti ringrazio. – I denti bianchi balenarono nell'istante in cui la bocca si apriva per profferire parole in un linguaggio per il quale non era stata creata. – Preferirei piuttosto meditare su questo nuovo sviluppo della situazione.

Langley si strinse nelle spalle. Nemmeno dopo settimane di vita in comune aveva potuto abituarsi al carattere dell'holatan, la preda dal naso fremente che sedeva immobile con sguardo sognante mentre le ore passavano, la testa piena di incomprensibile filosofia. Ma ora non lo meravigliava più.

– Sta bene, figliolo – rispose Langley. – Aggiornerò il giornale di bordo, intanto.

L'uomo premette con un piede contro la parete e aperse l'uscio che dava su una sala stretta e lunga. Giunto in fondo, si afferrò con l'agilità che veniva da una lunga pratica con una mano e ruotò su se stesso lasciandosi andare su una sedia leggera, dinanzi a una piccola scrivania.

Il giornale di bordo era aperto, ed aderiva alla scrivania grazie al magnetismo delle piccole bande di metallo della rilegatura. Con una lentezza voluta, intesa a combattere gli stimoli dell'impazienza, Langley si mise a sfogliarlo. Scorreva ora le memorie dell'ultimo anno, sentiva ancora i balzi errabondi da stella a stella, le imprecazioni e i sudori caduti su fili e valvole guasti, vedeva balenare davanti a sé le fiamme blu del saldatore; una battaglia lenta, fatta di colpi improvvisi, sino alla vittoria. Un sistema si era susseguito all'altro, sino a Holat; da questo sistema, finalmente, il balzo verso la Terra. Erano stati i filosofi di Holat le cui menti non umane, scrutando il problema da un punto di vista incomprensibile, avevano suggerito i miglioramenti finali che dovevano rivelarsi di importanza capitale. Ed ora l' Explorer tornava per dare un universo al genere umano.

I pensieri di Langley vagarono ancora ai mondi visitati, alle meraviglie e alle stranezze, alla tristezza e alla morte e alla sempre grande smania di apprendere. Finalmente giunse all'ultima pagina e presa Una penna, incominciò a scrivere:

19 luglio 2048, ore 16,30. Siamo a circa 0,3 anni-luce dal Sole, errore dovuto presumibilmente, a complicazioni imprevedibili nelle macchine. Si sta tentando di scoprirne le cause. Posizione... Maledicendo la propria imprevidenza, fece ritorno nella cabina di pilotaggio e incominciò a fare calcoli con le stelle.

Il corpo lungo, esile di Blaustein si distese mentre emergeva dall'aria ed entrava nella cabina mentre Langley stava finendo i calcoli. Il volto del nuovo venuto era sporco d'olio e di grasso e i capelli più arruffati del consueto. – Non abbiamo trovato nulla – riferì. – Abbiamo controllato tutto, dal ponte Wheatstone alla calcolatrice, abbiamo aperto le celle giromatiche... niente che, apparentemente, sia fuori del normale. Vuoi che incominciamo a smontarla tutta, questa nave maledetta?

Langley rimase pensieroso.

– No – rispose, alla fine. – Proviamo ancora una volta, prima.

Matsumoto, il corpo tozzo, robusto, entrò; volgendo attorno il suo eterno sorriso e masticando il suo chewing gum si lasciò andare a qualche osservazione profana. – Può darsi che abbia preso il mal di pancia – esclamò. – Queste trappole più complicate divengono, più agiscono come se avessero una mente indipendente.

– Già – rispose Langley. – Un cervello, sembra, fatto apposta per far impazzire i costruttori. – Intanto aveva ottenute le coordinate della posizione della nave; dalle effemeridi ricavò le coordinate della Terra, poi regolò la superguida per far rotta per il suo pianeta rimanendo in un limite tollerabile di errore. – Legatevi saldi alle cuccette – gridò.

Nessuna sensazione fu avvertita mentre Langley azionava la leva principale; ma come avrebbero potuto se l'entità tempo non era coinvolta in quell'operazione? Pure, immediatamente, il disco fosforescente del sole sullo schermo divenne di un rosso cupo mentre l'apparato ne polarizzava la luce.

Langley sentì un brivido percorrerlo lungo la spina dorsale. – No! – disse.

– Cosa succede?

– Guarda il disco solare. È ancora piccolo. Dovremmo essere a circa una unità astronomica dalla Terra e invece ne distiamo ancora di una e un terzo.

– Ebbene, maledizione! – esclamò Matsumoto.

Blaunstein mosse nervosamente le labbra. – Non è poi tanto male – disse. – Potremo sempre raggiungere la Terra navigando coi razzi.

– Non è una spiegazione – rispose Langley. – Avevamo... Pensavamo di avere la possibilità di determinare la posizione d'arrivo con un errore dell'uno per cento; ne abbiamo fatto la prova nel sistema di Holat! Perché qui non deve funzionare?

– Mi stavo chiedendo... – incominciò Matsumoto per poi interrompersi, pensieroso. – Non staremo mica avvicinandoci asintoticamente?1

L'idea di vagare nello spazio avvicinandosi sempre più alla Terra senza poterla raggiungere mai era agghiacciante. Langley la scacciò dalla mente e presi gli strumenti, cercò di localizzare la posizione della nave.

Erano sul piano dell'eclittica e un giro d'orizzonte col telescopio, lungo la fascia zodiacale, servì ad identificare rapidamente Giove. Poi le tavole diedero la posizione di Venere e di Marte...

Nessuno dei pianeti era nella posizione data dalle tavole.

Dopo un poco, Langley raccolse i suoi strumenti con una strana espressione sul volto. – Le posizioni dei pianeti non sono esatte – 1 Avvicinarsi asintoticamente = seguire una curva che si avvicina a un dato punto ma senza mai raggiungerlo.

annunziò. – Credevo di aver identificato Marte... ma appare verde, anziché rosso!

– Sei ubriaco? – chiese Blaustein.

– Non ho questa fortuna – rispose Langley. – Guarda tu stesso sullo schermo. Quello è il disco di un pianeta, e dalla nostra distanza dal sole e dalla sua direzione, è su una orbita che può essere soltanto quella di Marte.

Ma non è rosso; è verde.

I quattro terrestri rimasero seduti, immobili.

– Nessuna idea, Saris? – chiese Langley.

– Preferirei non pronunciarmi – rispose l'holatan, la voce roca, dalla pronuncia sibilante priva di ogni espressione, mentre nello sguardo brillava una luce pensosa, intensa.

– All'inferno tutto quanto – sbottò Langley, continuando a far ruotare l'astronave lungo la sua orbita. Il sole si spostò sullo schermo.

– Terra! – sussurrò Blaustein. – La riconoscerei dovunque. – Il pianeta splendeva azzurro nella notte, il suo satellite simile a una goccia di oro. Gli occhi di Langley si inumidirono.

Chinatosi ancora sugli strumenti, calcolò ancora la posizione: mezza unità astronomica ancora dal loro obiettivo. La tentazione di staccare la macchina maledetta e di raggiungere il loro pianeta coi razzi era forte; ma quello avrebbe richiesto troppo tempo e Peggy stava aspettando. Allora regolò i controlli per un'emergenza e lanciò la nave in superguida, a cinquecento miglia di distanza. Seguì un altro balzo verso il loro pianeta.

– Siamo assai più vicini, ora – esclamò Matsumoto – ma nemmeno questa volta ce l'abbiamo fatta.

Langley si sentì preso da odio verso la macchina. Dominandosi, riprese i calcoli: quarantacinque mila miglia ancora. Altri calcoli, questa volta per portarsi direttamente in orbita attorno alla Terra. Quando l'orologio raggiunse l'istante da lui prescelto, azionò il pulsante.

– Ce l'abbiamo fatta.

La Terra giaceva sotto di loro, scudo gigantesco velato da nubi, chiazzato dai continenti, mentre una sola stella, i cui raggi erano riflessi dagli oceani, illuminava la volta celeste. Le mani di Langley tremavano quando, questa volta, si limitò a leggere la distanza al radar. L'errore era trascurabile.

I razzi eruttarono fiamme, mentre gli astronauti stavano premuti contro gli schienali delle loro poltrone e la nave balzava innanzi. Peggy, Peggy, Peggy... Il nome risuonava come un canto nella mente di Langley.

Era un maschietto o una femminuccia? Gli sembrava che fosse passata solo un'ora o due... Quanto avevano pensato al nome! Non dovevano farsi cogliere impreparati davanti all'ufficiale di stato civile. Oh Peggy!

Penetrarono nell'atmosfera, troppo eccitati per pensare di risparmiare carburante inserendosi in un'orbita spiraliforme e scendendo, invece, direttamente in una scia di fuoco. La nave ruggiva con rombo di tuono attorno a loro.

Giunti a metà distanza, si inserirono in una lunga orbita. Langley era troppo occupato nella manovra, ma Matsumoto, Blaustein e anche Saris Hronna osservavano attentamente lo spettacolo sottostante.

– Sarebbe, quella, la tanto da voi decantata città di New York? – chiese Saris.

– No... Stiamo sorvolando il Medio Oriente, credo – rispose Blaustein, guardando in basso l'oasi di luci che splendevano nel buio della notte. – Ma che città sarebbe mai, dunque?

– Uhm!... Vediamo... – soggiunse Matsumoto. – Mai conosciuta una città, in questa zona, che possa apparire a tanta altezza. Ankara? Ma dovrebbe esservi una visibilità eccezionale, questa notte!

I minuti passavano lenti. – Quelle sono montagne – esclamò Blaustein. – Vedi che sono illuminate dalla luna? Solo... – Immediatamente Blaustein gridò: – Bob, ma non ci sono città tanto grandi, qui, dannazione!

– Dio! Dev'essere grande quanto Chicago – mormorò Matsumoto con voce resa irriconoscibile dall'emozione. – Jim, hai controllato bene, quando siamo scesi?

– Più o meno, sì. Perché.

– Ora che ricordo: non ho notato le due calotte ghiacciate ai poli.

– Ehh? Cosa?... Cosa?...

– Pensiamo con calma. Le avete notate voi? Eravamo troppo eccitati per accorgercene di questi dettagli, pure ho visto il Nord America tanto bene quanto scorgo voi, ora, ma non ho visto le regioni ghiacciate della zona polare. Le ho viste un milione di volte dallo spazio, e questa volta vi erano solo alcune chiazze scure... Isole, non calotte ghiacciate. Niente neve e ghiaccio. Niente del tutto.

Seguì un silenzio penoso, rotto da Blaustein che esclamò: – Prova con la radio.

Attraversarono l'Europa e puntarono sull'Atlantico riducendo sempre la velocità che aveva reso la cabina calda come un forno. Qua e là, sulle distese delle acque, si potevano scorgere isole luminose: città galleggianti mentre nessuno di loro sapeva che esistessero.

Matsumoto sintonizzava la radio. Parole incomprensibili balzarono a lui dall'etere, frasi senza senso. – Ma che diavolo? – brontolò Matsumoto. – Che lingua è mai questa?

– Europea no, di sicuro – rispose Blaustein. – Nemmeno russo. Lo conosco abbastanza per identificarlo... orientale?

– Né cinese, né giapponese. Proverò su un'altra lunghezza d'onda.

La nave scivolò sul Nord America, giungendo col sole nascente. I quattro poterono vedere come la costa si fosse contratta. Ogni tanto Langley controllava la loro rotta, ma sentiva in sé un'amarezza inspiegabile.

La lingua sconosciuta gracchiava dalla radio su tutte le frequenze. Sotto di loro la Terra era verdeggiante, suddivisa in prati e foreste. Dov'erano i villaggi, le fattorie, le strade? Dov'era il loro mondo?

Privo di punti di riferimento sulla Terra, Langley tentò di rintracciare il campo d'aviazione del Nuovo Messico che era la sua base. Era ancora abbastanza in quota per poter scorgere una vasta area sotto di sé, attraverso la coltre di nubi che a tratti ricopriva il suolo. Vide il Mississippi e, più lontano, credette di identificare il Platte; allora si orientò meccanicamente.

Una città sfuggì sotto di loro; troppo distante per poterne riconoscere i dettagli, ma non somigliava a nessuna città conosciuta. Il deserto del Nuovo Messico era ora tutto verdeggiante, solcato da canali di irrigazione.

– Ma cos'è accaduto? – chiese Blaustein, come un uomo dolorosamente colpito. – Cos'è accaduto? In nome di Dio, cos'è accaduto?

Qualcosa entrò nel loro campo visivo: una forma nera, allungata come un sigaro che si affiancò alla stessa loro velocità con facilità impossibile.

Nessuna traccia di razzi, di propulsori... di niente. E si avvicinava, grande tre volte l' Explorer, armata di torrette irte di artiglieria.

Il pensiero di un'invasione dallo spazio lo colpì improvviso. Mostri provenienti dallo spazio che avevano conquistato la Terra e la dominavano, dopo averla resa diversa sotto ogni aspetto in un anno di terrore. Poi una vampata di un blu intenso tanto da fargli dolere gli occhi, scaturì dalla nave ed esplose sulla prora del loro razzo. Langley sentì le vibrazioni dell'esplosione.

– Ci sparano di prora – disse con voce soffocata. – Faremo meglio ad atterrare.

Sotto di loro si stendeva una distesa formata di edifici sparsi e di zone libere; gli edifici sembravano di cemento. Nere macchine volteggiavano sulla città, circondata da alte muraglie. Langley portò la nave a scendere in una zona libera. Quando spense i razzi, un silenzio intenso seguì il fragore dei motori.

Langley si sciolse e si alzò in piedi.

Era un uomo alto, e mentre se ne stava in piedi, immobile, dava una strana impressione di grigiore: grigia l'uniforme, grigi gli occhi; i capelli neri prematuramente striati di bianco, il volto lungo nel quale troneggiava un naso adunco, il colorito abbronzato da soli sconosciuti. Quando parlò, anche la voce sembrava triste e grigia come il suo aspetto.

– Andiamo. Dobbiamo uscire e vedere cosa vogliono da noi.