XI
Era stato piacevole abbandonare quel pigiama sgargiante per una divisa da spaziale. Langley non aveva mai pensato quanto l'abito faccia il monaco. Ma correre nelle immensità buie, sentire ancora la nave vibrare e risuonare sotto i propri passi lo sottraeva a quello stato d'impotenza e di dubbio che l'aveva assalito tante volte prima.
Luci numerose erano disposte nelle caverne lunghe per chilometri e chilometri, ma una spedizione che vi entrava di soppiatto non poteva certo accenderle. Quelle luci poi servivano ad indicare luoghi dove Saris certo non si sarebbe mai fermato. Mezza dozzina d'uomini camminava accanto a Langley; i volti, mal illuminati dai raggi obliqui delle torce, apparivano simili a volti di fantasmi. Erano tutti uomini dell'equipaggio: Valti si era dichiarato troppo vecchio e codardo per quell'impresa. Marin avrebbe voluto venire, ma non l'avevano voluta.
Stalattiti e stalagmiti, rocce e sabbia scintillavano sotto il raggio delle lampade della comitiva che avanzava cercando di fare il meno rumore possibile. Quel posto non doveva essere diverso gran che da quello che lui ricordava: l'acqua, l'evaporazione, la corrosione dovevano aver aggiunto o tolto qualche cosa qua e là, ma la terra era vecchia e paziente. Gli pareva che il tempo stesso fosse sepolto, laggiù in quegli antri.
L'uomo che portava il paralizzatore neurale lo guardo. – Ancora nessuna traccia – esclamò, e la sua voce, involontariamente, suonò appena come un sussurro. – Quanta strada abbiamo fatto in queste caverne? Molta, credo...
e vi sono tante diramazioni. Anche se fosse qui, non lo troveremo mai.
Langley continuò. Non gli rimaneva altro da fare. Non credeva che Saris si fosse addentrato nelle caverne più del necessario. Gli Holatan non soffrivano per claustrofobia, ma erano creature che amavano l'aria libera e le loro foreste, i cieli aperti. Era contrario al loro istinto rimanere rinchiusi a lungo.
La logica era di aiuto in qualche modo. Saris non aveva nemmeno una mappa delle grotte. Doveva essere entrato dalla grotta principale come loro, perché certo ignorava l'ubicazione di ogni altro ingresso possibile; poi doveva aver cercato una grotta spaziosa, abitabile, con uscite di emergenza e riserve d'acqua. Langley si volse all'uomo che teneva il localizzatore: – Non c'è una caverna con una pozza d'acqua o con un torrente sotterraneo?
– Sì, in quella direzione. Dobbiamo provare?
– Uhm! – rispose Langley, svoltando nel tunnel indicatogli. Ben presto un mucchio di sassi sbarrò la strada; il passaggio si rimpicciolì tanto da costringerlo a procedere carponi. – Potrebbe essere la direzione buona – esclamò, destando una quantità di echi. – Saris potrebbe facilmente passare di qua, poiché può procedere carponi sempre, quando vuole. Ma per un uomo è un passaggio difficile.
– Aspettate. Capitano, prenda lei il rivelatore. Mi è parso che abbia oscillato – disse qualcuno dietro Langley. – Non posso esserne sicuro però, perché le persone dinanzi a me danno troppe interferenze.
Langley si volse a stento per afferrare la piccola scatola metallica che gli porgevano, la puntò innanzi a sé e la registrò, poi guardò la luce verde di spia. E... sì, l'indice vibrava rivelando la presenza di un sistema nervoso dinanzi a lui. E vibrava più di quanto avrebbe dovuto.
Eccitato Langley continuò ad avanzare. Il fascio di luce della sua lampada era come una lancia nelle tenebre fitte; il respiro gli si faceva roco.
Il terreno gli mancò improvvisamente e quasi cadde in una vasta sala nella quale si sentiva lo scrosciare dell'acqua. – Saris! – Chiamò. Ma solo l'eco gli rispose e l'uomo continuò ad avanzare. – Saris Hronna, sei qui?
Un raggio scaricato da un disintegratore venne a schiacciarsi vicino a lui. Ne vide il lampo e gli occhi ne furono abbagliati per diversi secondi mentre le radiazioni poteva sentirle, calde, sul volto. Spense la luce e balzò avanti sperando di non trovarsi dinanzi qualche precipizio. Qualche cosa lo ferì a una gamba e sentì il sangue scorrere lungo la caviglia mentre cadeva senza che potesse vedere dove.
Un altro raggio lampeggiò nella caverna. Saris sapeva dov'era l'ingresso e poteva mirare anche al buio, quasi sicuro di tenere a bada i suoi nemici. – Saris, sono io, Langley... Sono tuo amico.
Pareva che l'eco deridesse le sue parole: «Amico... amico... amico...». Se Saris fosse impazzito per la solitudine, o se avesse deciso di uccidere freddamente ogni essere umano che gli si fosse parato dinanzi, Langley poteva considerarsi morto; un raggio incandescente o il rapido chiudersi degli artigli sul suo collo sarebbero stati sufficienti. Pure doveva provare.
Lentamente si addossò alla parete. – Saris, sono venuto per portarti fuori di qui! Sono venuto per riportarti sul tuo pianeta.
La risposta venne dal buio, la direzione falsata dagli echi: – Sei tu? Cosa vuoi?
– Ho preso degli accordi... Potrai ritornare su Holat. – Langley parlava in inglese che era la sola lingua comune a lui e a Saris mentre il linguaggio di Holat era troppo ostico perché un essere umano potesse usarlo in modo comprensibile. – Siamo i tuoi amici noi, i soli amici che hai.
– Bene. – Nel tono di Saris non vi era traccia di emozione alcuna.
Langley credette di poter udire il fruscio di piedi leggeri che strisciavano sul pavimento ineguale della caverna. – Non posso esserne sicuro. Ti prego di voler onestamente descrivere la situazione presente.
Langley la riassunse in poche parole. Le pietre sotto di lui erano fredde e bagnate. Terminò: – Se tu non accetti, dovrai rimanere chiuso qui dentro sino a quando morrai, o ti tireranno fuori.
Seguì un lungo silenzio, poi Saris rispose. – Di te mi fido, ti conosco.
Ma non è possibile che gli altri ti abbiano ingannato?
– Io... cosa? Vuoi dire che forse la società mi ha tradito per costringerti ad arrenderti? Sì, potrebbe essere, ma io non lo credo.
– Non ho alcun desiderio di essere vivisezionato.
– Non lo sarai. Loro vogliono studiarti. Tu mi hai detto che i vostri scienziati hanno una buona idea sul vostro processo telecinetico e loro vogliono sapere proprio questo.
– Sì. Nulla potrebbero apprendere studiando il mio cervello. Credo che la macchina che vogliono i tuoi amici... si possa costruire facilmente... – Saris esitò, poi decise. – Molto bene. Anch'io devo correre i miei rischi, senza pensare a quel che può accadere. Sia così. Potete entrare tutti.
Quando le luci furono accese, lo videro eretto, orgoglioso come tutti quelli della sua razza, in mezzo alle casse delle provviste. Poi strinse le mani di Langley e gli diede qualche buffetto sulle guance. – È bello rivederti – esclamò.
– Mi rincresce per quanto è accaduto... Io non sapevo.
– No. L'universo è pieno di sorprese. Ma non importa, se posso tornare a casa.
Gli spaziali lo accettarono senza troppo scomporsi, abituati alle forme più svariate di intelligenze non umane. Dopo aver medicato sommariamente Langley, si disposero in fila indiana e si diressero all'uscita. Valti riportò in quota l'astronave appena tutti furono a bordo, poi conferì con Saris e con Langley.
– C'è tutto quanto le occorre, Saris Hronna? – chiese il mercante, cui l'americano faceva da interprete.
– Sì. Due vitamine che sembra manchino nella chimica terrestre. – E
Saris tracciò diagrammi che passò al mercante. – questo sono le loro strutture molecolari nella simbologia di Langley.
Langley le tradusse in linguaggio moderno e Valti annuì.
– Sarà facile produrle per sintesi. Ho una macchina speciale in un nascondiglio. Potremo andare là, prima di tutto, e prepararci per la partenza. Ho un incrociatore che può raggiungere la velocità della luce, inserito su un'orbita segreta. Voi potreste essere imbarcati su di quello e poi trasportati sulla nostra base, sulla 61 Cigni che è ben al di fuori della sfera d'influenza del sistema solare e di quello centauriano. Là si potrebbero studiare con comodo le sue facoltà, signore, e il pagamento a lei potrebbe essere effettuato, caro capitano Langley.
Saris parlò. Aveva le sue controproposte da fare: avrebbe cooperato se lo avessero riportato, in seguito, su Holat, assieme a un equipaggio di tecnici e a provviste sufficienti. Il suo mondo era troppo lontano per essere in pericolo a causa delle lotte fra solari e centauriani, ma poteva capitare qualche nave spaziale di avventurieri a minacciarli e Holat era senza difesa alcuna contro possibili bombardamenti dallo spazio. Lui intendeva compensare quello svantaggio: satelliti equipaggiati da robot non avrebbero potuto competere con una flotta spaziale, naturalmente, ma avrebbero sempre potuto tenere a bada una sola nave di avventurieri ed era tutto quanto occorreva a Holat.
Valti rabbrividì. – Capitano, ma si rende conto di quel che costerebbe un simile viaggio? Lo comprende Saris quanto costerebbe armare ed inserire in orbita quelle stazioni spaziali? Ma non ha alcuna compassione di un povero, vecchio uomo che non sa come fare per tirare avanti la vita?
– Temo di no – rispose Langley, sorridendo.
– Ah... E che assicurazione pretende da parte nostra per sentirsi certo che manterremo i patti?
– Il controllo sui progressi nella costruzione dell'annullatore elettronico.
Senza di lui non potete costruirlo. Quando vedrà che il progetto è quasi ultimato, chiederà che la nave che deve riportarlo a casa sia pronta per la partenza, e una bomba dovrà essere sistemata sulla nave che lo trasporta.
Uomini e donne, vecchi e fanciulli rimarranno a bordo sino a che le stazioni saranno montate e inserite in orbita. Al minimo segno di tradimento farà saltare in aria tutti quanti.
– Povero me! – gemette Valti. – Che mente maligna e sospettosa!
Credevo che uno sguardo al mio volto onesto... Bene, bene. Sia pure. Ma mi vengono i brividi se penso al costo di una simile operazione.
– Al diavolo, uomo! Il debito lo potrete ammortizzare in duemila anni, no? Lo dimentichi. Ora, dove stiamo andando?
– Abbiamo un piccolo nascondiglio nell'Himalaya... Non è certo una reggia. Del resto, siamo di umili pretese. Devo far pervenire un rapporto ai miei capi sulla Terra, avere la loro approvazione per i miei piani e preparare i documenti per la nostra base su 61 Cygni. Ci vorrà un po' di tempo.
Langley andò in infermeria. Aveva preso un brutto colpo alla gamba, ma la cura era cosa assai semplice in quei giorni: Una graffetta per tenere uniti i lembi della ferita, una spruzzata di enzimi per stimolare la rigenerazione dei tessuti e in poche ore le tracce delle più gravi operazioni chirurgiche erano appena visibili.
Marin la trovò nel salone centrale; le sedette accanto e le prese le mani fra le sue. – Non occorrerà molto tempo, ormai – disse. – Credo che abbiamo fatto la cosa migliore rimuovendo il potere arcano di Saris dall'unico posto dove poteva causare l'irreparabile. È la cosa migliore anche per il sistema solare ed ora siamo liberi di vivere la nostra vita.
– Sì. – Marin non lo guardava; era pallida, il volto appariva segnato da uno sforzo enorme.
– Che hai, Marin? – chiese Langley, ansioso. – Non ti senti bene?
– Io... io non lo so, Edwy. È tutto così strano, come se fosse un sogno.
Non lo è, forse? Non sto sognando?
– No. Di che si tratta? Non puoi descrivermi quel che ti senti?
Marin scosse la testa. – No. È come se qualcun altro fosse insediato nel mio cervello assieme a me, e sedesse lì e aspettasse. Mi ha preso tutto a un tratto. Sarà lo sforzo, forse. Vedrai che passerà.
Langley si accigliò mentre il timore di un possibile guaio lo assaliva. Se Marin si ammalava...
Ma perché poi doveva essere tanto importante per lui quella schiava?
Era davvero innamorato di lei? Sarebbe stato facile. A parte tutto, era brava e intelligente, piena di buona volontà tanto da secondarlo in tutto. Poteva immaginarsi vivere la vita felice accanto a lei.
Peggy... Jim... Bob... Non anche lei, no. Mai più. Mio Dio, mai più.
Un vibrare lento si fece udire; le macchine rallentavano. Saris Hronna sporse il muso ornato di baffi imponenti dall'uscio. – Siamo atterrati – annunziò. – Usciamo.
La nave era al riparo di una grande caverna. Dietro, vi era una porta gigantesca di cemento che si apriva sul fianco della montagna. Doveva essere una terra selvaggia, dai picchi altissimi e dovevano esservi rimasti ancora ghiacciai e campi di neve su quello che veniva chiamato il tetto del mondo, freddo, battuto dai venti e dalle tempeste. Un luogo dove un uomo avrebbe potuto nascondersi per anni.
– Avete nessuna difesa qui? – chiese Langley a Valti che faceva strada.
– No, Perché dovremmo? Non sarebbe che altro metallo e sarebbe più facile scoprirci dall'alto. Per quanto è possibile, qui tutto è di plastica e di pietra. Sono un uomo pacifico, capitano e confido più sulla mia corteccia cerebrale che sui cannoni. In cinquant'anni, nessuno ha mai sospettato l'esistenza di questo rifugio.
Entrarono in una sala in cui si aprivano molte porte e Langley vide quella che doveva essere una sala radio, probabilmente per i casi d'emergenza. Gli uomini di Valti si diressero ai loro alloggi. Era gente che parlava poco: quelli della società sembravano propensi a conversare fra loro, ma non sembravano mai nervosi o irritati. E poi, erano in salvo ormai. La lotta era finita.
Marin rabbrividì, dilatando gli occhi. – Che succede? – chiese Langley.
– Io... io non lo so. – La fanciulla faceva uno sforzo per non gridare. – Mi sento così strana. – Lo sguardo pareva perso nel vuoto, come se non vedesse nulla di quanto la circondava.
– Valti, cos'ha che non va Marin?
– Temo di ignorarlo, capitano. Forse la reazione dovuta allo sforzo.
Dev'essere stata una prova molto dura per lei che non è abituata alla lotta.
Mettiamola a letto e poi chiamerò il dottore che era con noi sulla nave perché la visiti.
Il successo si sfaldava nelle mani di Langley prima ancora che potesse goderne.
– Venga, capitano. Andiamo a preparare le pillole per Saris Hronna.
Dopo, credo non dispiacerà nemmeno a lei riposare un poco. Fra ventiquattr'ore sarà fuori del sistema solare. Pensi solo a questo.
Dopo un po' dacché erano nel laboratorio Saris apparve: – Lei sta male.
Cammina senza posa e la sua mente sembra strana – disse.
Langley corse fuori nel corridoio. Marin lo fissò con occhi sfavillanti. – Dove sono? – chiese debolmente.
– Vieni – la esortò Langley. – Ritorna a letto.
– Mi sento meglio – rispose la fanciulla. – C'era una pressione nel mio cervello e tutto era diventato nero, buio, e ora sono qui. Ma mi sento me stessa ancora.
Il bicchiere pieno di droga era ancora pieno accanto al suo letto. – Bevilo subito – ordinò Langley. La fanciulla obbedì sorridendo, poi tornò a letto. Langley resistette a stento al desiderio di baciarla.
Tornato nel laboratorio, vide Saris che riponeva le pillole di vitamine in un recipiente che portava al collo. Valti era andato a preparare le sue scartoffie lasciandoli soli fra tutte quelle macchine.
– Ho avvertito la sua mente rasserenarsi mentre... ascoltavo – sibilò Saris. – Quelli della tua razza hanno spesso simili crisi?
– Può capitare – rispose Langley. – A volte le rotelle non funzionano.
Temo che noi non siamo progettati con la cura che han messo nel progettare voi.
– Anche voi potete essere così. Noi uccidiamo i deboli quando sono piccoli.
– Anche la mia razza l'ha fatto, qualche volta, ma è un uso che non ha mai avuto vita lunga. Qualche cosa nella nostra natura sembra ce lo proibisca.
– Eppure potete distruggere un mondo solo per la vostra superbia. Non potrò mai comprendervi.
– Temo che non riusciremo mai a comprenderci nemmeno fra noi – rispose Langley, sfregandosi il collo e sbadigliando. Ora che lo stimolante aveva finito il suo effetto, si sentiva stanco da morire. – Al diavolo tutto quanto. Ora sono per il riposo.
Lo ridestò qualche ora più tardi il rumore di un'esplosione. Mentre si levava a sedere, intese le esplosioni di disintegratori che echeggiavano alla impazzata.