10

Morto

Era la prima volta che Greyson perdeva la vita. La maggior parte dei ragazzi moriva almeno una o due volte prima di raggiungere la maggiore età. Correvano più rischi degli adolescenti dell’epoca mortale, perché le conseguenze non erano più permanenti. Invece di morire e di restare sfigurati, dopo la rianimazione subivano una bella lavata di capo. Nonostante tutto, Greyson non era mai stato un tipo temerario. Certo, si era procurato la sua dose di ferite, ma i tagli e i lividi, e anche un braccio rotto, erano guariti in meno di ventiquattro ore. Perdere la vita era un’esperienza del tutto diversa, e non aveva certo intenzione di ripeterla tanto presto. E, a peggiorare le cose, ricordava ogni singolo secondo.

Il dolore acuto che aveva provato al momento dell’impatto si era attenuato già prima di essere sbalzato in aria, oltre l’automobile. Mentre cadeva, gli era sembrato che il tempo avesse rallentato. Aveva provato un’altra fitta di dolore quando era atterrato sull’asfalto, ma anche allora non era durata a lungo e, prima che Madame Anastasia lo raggiungesse, i gemiti strazianti delle sue terminazioni nervose devastate si erano smorzati fino a trasformarsi in un leggero mormorio di malessere. Il suo corpo squassato voleva soffrire, ma gli era proibito. Si ricordò di aver pensato, nel delirio indotto dagli oppiacei, quanto dovesse essere triste per un corpo reclamare con tanta forza ciò che gli veniva negato.

Il mattino dell’incidente, gli avvenimenti avevano preso una piega che non aveva previsto. Per come se li era immaginati, sarebbe semplicemente andato in publicar dalle falci per avvertirle che la loro vita era in pericolo e poi avrebbe ripreso il normale corso della sua esistenza. Sarebbe toccato a loro gestire il pericolo come meglio pensavano. Con un po’ di fortuna, se la sarebbe cavata e nessuno, tantomeno l’Interfaccia dell’Autorità, avrebbe saputo ciò che aveva fatto. Era quella l’idea, no? Negare il suo coinvolgimento? L’IA non avrebbe violato la legge se Greyson avesse agito di sua iniziativa e, se nessuno lo avesse visto agire, non si sarebbe saputo in giro.

Certo, il Thunderhead lo avrebbe saputo. Seguiva i movimenti di tutte le publicar, ed era al corrente della posizione di tutti in ogni dato momento. Ma si imponeva anche regole molto severe riguardo alla sfera privata. Non si sarebbe servito di informazioni che violavano il diritto alla privacy di una persona. Curioso, ma le stesse leggi del Thunderhead permettevano a Greyson di infrangere liberamente la legge, purché lo facesse in privato.

Però i suoi piani avevano preso una piega inattesa quando la sua publicar si era accostata lungo la strada a meno di un chilometro dalla Casa sulla cascata.

«Spiacente» gli aveva detto la macchina, nel suo familiare tono vivace. «Le publicar non possono transitare nelle strade private senza l’autorizzazione del proprietario.»

Il proprietario era, naturalmente, la Compagnia, che non rilasciava mai autorizzazioni di nessun tipo, e che era nota per spigolare chi osava chiederne.

Greyson era quindi sceso dall’auto per farsi a piedi un tratto di strada. Aveva ammirato gli alberi, domandandosi quanti anni avessero e quanti di loro fossero lì dall’Era della Mortalità. Per puro caso, aveva abbassato gli occhi e aveva visto quel filo sul suo cammino.

Aveva notato gli esplosivi solo qualche secondo prima di sentire la macchina avvicinarsi, e aveva capito che l’unico modo per fermarla era di sbarrarle la strada. Non aveva riflettuto, aveva solo agito, perché anche la minima esitazione avrebbe messo fine alla vita di tutti loro. Si era lanciato davanti all’auto, in balia dei principi fondamentali della fisica dei corpi in movimento.

Morire era un po’ come farsela nei pantaloni (cosa che forse gli era capitata), e sprofondare in un gigantesco marshmallow così denso da non riuscire a respirare. Il marshmallow si era trasformato in una specie di tunnel che si era avvolto su se stesso come un serpente che si morde la coda, e poi, all’improvviso, aveva riaperto gli occhi sotto la luce diffusa di un centro di rianimazione.

All’inizio, si era sentito rincuorato, perché, se lo stavano riportando in vita, allora voleva dire che aveva evitato l’esplosione. In quel caso, non sarebbe rimasto nulla di lui da rianimare. Se si trovava al centro di rianimazione voleva dire che era riuscito nella sua missione! Aveva salvato la vita a Madame Curie e a Madame Anastasia!

Poi, sentì una fitta di dispiacere… perché non c’era nessuno con lui nella stanza. Quando una persona moriva, i familiari erano i primi a essere avvertiti. Era consuetudine che qualcuno fosse presente al capezzale al momento del risveglio per accogliere il rianimato nel mondo.

Per Greyson, non era venuto nessuno. Sullo schermo accanto al letto era visualizzata una bizzarra cartolina di auguri di pronta guarigione da parte delle sorelle. Rappresentava un mago intento a fissare sconcertato il corpo senza vita del suo assistente che aveva appena segato a metà.

“Complimenti per il tuo primo trapasso” diceva la cartolina.

Era tutto. Niente da parte dei suoi genitori. Non avrebbe dovuto sorprendersi. Da quando il Thunderhead aveva assunto il loro ruolo, si disinteressavano di lui. Ma anche il Thunderhead manteneva il silenzio. Era quella la cosa che lo inquietava di più.

Entrò un’infermiera. «Bene, guarda chi si è svegliato!»

«Quanto tempo c’è voluto?» chiese Greyson, sinceramente incuriosito.

«Appena un giorno. Tutto sommato, una rianimazione piuttosto semplice e, dato che è la sua prima, è gratuita!»

Greyson si schiarì la voce. Aveva l’impressione di essersi risvegliato da un sonnellino pomeridiano: un po’ giù di corda, un po’ di cattivo umore, ma niente di più.

«È venuto qualcuno a trovarmi?»

L’infermiera strinse le labbra. «Mi dispiace, caro.» Poi, abbassò lo sguardo. Un gesto banale, dal quale però lui capì che non gli stava dicendo tutto.

«Dunque, va bene? Me ne vado ora?»

«Non appena sarà pronto, siamo stati incaricati di metterla su una publicar che la riporterà all’Accademia dei Nimbus.»

Di nuovo quello sguardo che evitava di incrociare il suo. Invece di girarci intorno, Greyson decise di affrontarla direttamente. «C’è qualcosa che non va, vero?»

L’infermiera si mise a ripiegare gli asciugamani che erano già piegati. «Il nostro lavoro è rianimarla, non commentare quello che ha fatto per ammazzarsi.»

«Quello che ho fatto è stato salvare la vita di due persone.»

«Non ero presente, non ne so nulla. Tutto ciò che so è che le è stato dato il marchio di losco.»

Greyson non era sicuro di aver sentito bene.

«Losco? Io?»

L’infermiera tornò ad assumere la sua aria allegra e sorridente. «Non è la fine del mondo. Sono sicura che riuscirà presto a dare un colpo di spugna a tutto… se è quello che vuole.» Poi, batté le mani come per liquidare la questione e disse: «Ora, che ne pensa di un buon gelato prima di andarsene?».

La meta preimpostata della publicar non era il dormitorio di Greyson. Era l’edificio amministrativo dell’Accademia dei Nimbus. Quando giunse a destinazione, fu fatto entrare direttamente in una sala conferenze con un tavolo abbastanza grande da ospitare una ventina di persone, nonostante ce ne fossero solo tre: il cancelliere dell’Accademia, la preside e un altro amministratore il cui unico compito pareva essere quello di scrutarlo con rabbia, come un Dobermann inferocito. Le brutte notizie arrivano sempre a gruppi di tre.

«Si accomodi, signor Tolliver» esordì il cancelliere, un uomo dalla capigliatura di un nero uniforme, a parte le tempie volutamente grigie. La preside batteva la penna su un faldone aperto e il Dobermann lo fissava arcigno.

Greyson si sedette davanti a loro.

«Ha idea del disagio che ha causato a questa Accademia?» chiese il cancelliere.

Greyson non lo negò. Se lo avesse fatto, la cosa si sarebbe protratta, e lui voleva che finisse lì. «Ho fatto quello che mi ha dettato la coscienza, signore.»

La preside emise uno sbuffo triste, tanto offensivo quanto denigratorio.

«O è troppo ingenuo o è troppo stupido» latrò il Dobermann.

Il cancelliere alzò una mano per zittire il livore dell’uomo. «Che uno studente di questa Accademia entri volontariamente in contatto con le falci, anche se per salvare loro la vita, è…»

Greyson terminò la frase al suo posto. «… una violazione della separazione tra falci e Stato. Clausola quindici, paragrafo tre, per la precisione.»

«Non faccia il saputello» lo riprese la preside. «Non la aiuterà.»

«Con tutto il rispetto, signora, dubito che qualsiasi cosa io dica possa aiutarmi.»

Il cancelliere si chinò verso di lui. «Quello che mi interessa sapere è come ne è venuto a conoscenza, perché l’unica spiegazione possibile è che lei stesso ne sia stato coinvolto, e che poi abbia cambiato idea. Quindi, mi dica, signor Tolliver, ha preso parte al complotto architettato per ridurre in cenere quelle falci?»

L’accusa lo colse del tutto di sorpresa. Non gli era mai passato per la testa che si potesse sospettare di lui. «No!» esclamò. «Non potrei mai… come potete anche solo pensarlo? No!» Poi, non disse più nulla, deciso a riprendere il controllo di sé.

«Allora, sia così gentile da raccontarci come è venuto a sapere degli esplosivi» intervenne il Dobermann. «E non si azzardi a mentire.»

Greyson avrebbe potuto spifferare tutto, ma qualcosa lo frenò. Se avesse cercato di discolparsi, quello che aveva fatto sarebbe stato inutile. Certo, scavando un po’, sarebbero riusciti a scoprire qualcosa, se non era già accaduto. Così, scelse con cura le verità da rivelare.

«La scorsa settimana, sono stato convocato dall’Interfaccia dell’Autorità. Potete controllare, nella mia scheda c’è un appunto in proposito.»

La preside afferrò un tablet, digitò qualcosa, poi guardò gli altri e annuì. «È vero.»

«Per quale ragione è stato convocato?» chiese il cancelliere.

Quello era il momento di costruire una storia convincente. «Un amico di mio padre è un agente Nimbus. Dato che i miei genitori sono partiti per un lungo viaggio, ha voluto sapere come me la cavavo e mi ha dato dei consigli. Quali corsi dovrei frequentare il prossimo semestre, quali professori dovrei seguire. Voleva aiutarmi…»

«Così voleva raccomandarla» intervenne il Dobermann.

«No, voleva solo darmi dei consigli, e assicurarmi che mi avrebbe appoggiato. Mi sentivo un po’ solo senza i miei genitori, e lui lo sapeva. È stato solo un gesto di gentilezza da parte sua.»

«Questo non spiega…»

«Sto arrivando al punto. Comunque, dopo aver lasciato il suo ufficio, ho incrociato un gruppo di agenti che uscivano da una riunione. Non ho sentito tutto, ma solo che giravano delle voci su un possibile attentato contro Madame Curie. La notizia ha attirato la mia attenzione, perché è una delle falci più famose al mondo. Li ho sentiti dire che era un peccato non poter fare nulla per impedirlo, e non poterla nemmeno avvertire, perché sarebbe stata una violazione. Così ho pensato…»

«Così ha pensato di fare l’eroe» suggerì il cancelliere.

«Sì, signore.»

I tre si guardarono. La preside scribacchiò qualcosa che mostrò agli altri due. Il cancelliere annuì, mentre il Dobermann, disgustato, si abbandonò contro lo schienale della poltrona e guardò altrove.

«Abbiamo delle leggi, Greyson, per una valida ragione» riprese la preside. Sapeva di avercela fatta, perché non lo chiamavano più “signor Tolliver”. Forse non gli credevano del tutto, ma abbastanza da decidere di non sprecare altro tempo con lui. «La vita di due falci» proseguì, «non giustifica la minima violazione della legge di separazione. Il Thunderhead non può uccidere e la Compagnia non può governare. L’unica maniera di garantirlo è impedire ogni contatto tra i due poteri e infliggere pene severe a chi non rispetta le regole.»

«Nel suo interesse, andremo dritti al punto» continuò il cancelliere. «Da questo momento, lei è espulso in modo permanente e definitivo dall’Accademia, e le è inoltre fatto assoluto divieto di ripresentare domanda di ammissione presso questa o qualsiasi altra Accademia dei Nimbus.»

Greyson si aspettava quella sentenza, ma sentirla dalla voce del cancelliere fu un colpo più duro di quanto avesse immaginato. Non riuscì a frenare le lacrime. Semmai, avrebbero avvalorato la versione che aveva servito loro.

Non gli importava nulla dell’agente Traxler, ma sapeva di doverlo proteggere. La legge richiedeva un colpevole, per saldare il conto, e nemmeno il Thunderhead poteva sfuggire alle proprie leggi. Facevano parte della sua integrità: viveva in virtù delle leggi che imponeva. La verità era che Greyson aveva agito di sua spontanea volontà. Il Thunderhead lo conosceva. Aveva puntato su di lui perché lo facesse, nonostante le conseguenze. Ora, sarebbe stato punito e la legge sarebbe stata salvaguardata. Ma non era obbligato a esserne contento. E, per quanto volesse bene al Thunderhead, in quel momento lo odiava, con tutto il cuore.

«Adesso che non è più studente dell’Accademia» aggiunse la preside, «le leggi della separazione non la riguardano più. Questo significa che la Compagnia vorrà sentirla. Non conosciamo i suoi metodi di interrogatorio, pertanto si prepari.»

Greyson deglutì la poca saliva che gli era rimasta. Quella era un’altra cosa che non aveva considerato. «Capisco.»

Il Dobermann agitò con sdegno una mano. «Torni al dormitorio e faccia la valigia. Uno dei miei funzionari sarà lì alle cinque precise per accompagnarla fuori dall’edificio.»

Ah, così quel tizio era il capo della sicurezza. Aveva l’aspetto intimidatorio che si confaceva al suo ruolo. Greyson lo fulminò con lo sguardo, perché a quel punto non aveva più nulla da perdere. Si alzò per andarsene, ma prima rivolse ai tre un’ultima domanda. «Siete obbligati a lasciarmi il marchio di losco?»

«Non dipende da noi» rispose il cancelliere. «È stato il Thunderhead a infliggerle questa punizione.»

La Compagnia, che, a parte la spigolatura, faceva tutto alla velocità di una lumaca, si prese un giorno intero per decidere come occuparsi degli esplosivi. Alla fine, decretò che il modo più sicuro era inviare un robot che facesse saltare la trappola esplosiva, e poi, quando la polvere e i frammenti degli alberi in pezzi si fossero posati a terra, mandare una squadra di operai a ricostruire la strada.

La detonazione fece tremare le finestre della Casa sulla cascata al punto che Citra pensò potessero andare in frantumi. Nemmeno cinque minuti dopo, Madame Curie preparò una valigia e ordinò alla sua giovane amica di fare altrettanto.

«Andiamo a nasconderci?»

«Io non mi nascondo» replicò Madame Curie. «Ci spostiamo. Se restiamo qui, saremo un facile bersaglio per gli attentatori, se invece ci muoviamo, finché le cose non si saranno calmate, sarà molto più difficile per loro trovarci e colpirci.»

Non era ancora chiaro chi fosse davvero l’obiettivo degli attentatori e perché. Madame Curie aveva le sue idee al riguardo. Le condivise con Citra, mentre la sua protetta la aiutava a intrecciare i lunghi capelli argentei.

«Il mio ego mi dice che sono io l’obiettivo. Sono la falce più rispettata della vecchia guardia … ma è anche possibile che sia tu.»

Citra rise all’idea. «Perché dovrebbero avercela con me?»

Madame Curie le sorrise dallo specchio. «Hai disturbato l’ordine della compagnia più di quanto tu creda, Anastasia. Molte giovani falci ti ammirano e ti rispettano. Potresti anche diventare la loro portavoce. E, considerato che hai adottato le antiche abitudini, quelle della vecchia guardia, alcuni potrebbero decidere di metterti a tacere fin da adesso.»

La Compagnia aveva promesso loro che avrebbe avviato un’indagine, ma Citra dubitava che sarebbe venuta a capo di qualcosa. Risolvere gli enigmi non era uno dei suoi punti di forza. Aveva già imboccato la via più facile, addossando a “Maestro Lucifero” la paternità dell’attentato, cosa che faceva infuriare Citra… ma non poteva permettere che la Compagnia lo sapesse. Bisognava prendere pubblicamente le distanze da Rowan. Il loro incontro doveva rimanere segreto.

«Potresti dover considerare la possibilità che abbiano ragione» disse Madame Curie.

Citra le strinse di più i capelli nel farle la treccia. «Non conosci Rowan.»

«Nemmeno tu» ribatté Madame Curie, portandosi in avanti i capelli per terminare lei stessa di acconciarseli. «Dimentichi, Anastasia, che ero presente al conclave quando ti ha rotto il collo. Ho visto il suo sguardo. Ha provato un grande piacere.»

«Era per fare spettacolo!» insistette Citra. «Si stava esibendo per la Compagnia. Sapeva che saremmo stati entrambi squalificati, e quello era l’unico modo per finire in pareggio. Secondo me è stato davvero geniale.»

Madame Curie rimase in silenzio per qualche secondo, poi disse: «Sta’ attenta a non lasciare che i tuoi sentimenti offuschino il tuo giudizio. Allora, vuoi che ti faccia le trecce o preferisci uno chignon?».

Quel giorno, Citra decise di non legarsi i capelli in nessun modo.

Portarono la macchina incidentata sul tratto di strada distrutto, dove gli operai erano già al lavoro. Almeno un centinaio di alberi era stato divelto, e altre centinaia avevano perso le foglie. Citra immaginò che ci sarebbe voluto molto tempo affinché la foresta si riprendesse. A un secolo di distanza, sarebbero rimasti ancora i segni di quella esplosione.

Era impossibile attraversare il cratere in auto e anche aggirarlo, per cui Madame Curie aveva chiesto che una publicar andasse a prenderle dall’altra parte. Recuperarono le loro valigie, abbandonarono la Porsche sulla strada devastata e lo superarono a piedi.

Citra non poté fare a meno di notare le macchie di sangue sull’asfalto, proprio sul ciglio del cratere, nel punto in cui era caduto il giovane che aveva salvato loro la vita.

Madame Curie, che riusciva a leggere nell’animo della ragazza più di quanto lei volesse, si accorse del suo sguardo. «Dimenticalo, Anastasia, quel poveretto non è un nostro problema.»

«Lo so» ammise Citra. Ma non era disposta a lasciar correre. Non era proprio nella sua natura.

Thunderhead
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