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Roma, tribunale

L’entrata del Palazzo di Giustizia era più affollata del solito. Un nugolo di avvocati grigi e incravattati conferiva con i propri assistiti, parlava al cellulare con cuffiette e microfono e fumava in attesa delle udienze.

La dottoressa Foderà procedeva battendo il tacco da dieci centimetri sull’asfalto irregolare del marciapiede. L’aria fredda e la strada bagnata avrebbero suggerito di coprirsi con dei jeans e una giacca, ma lei non aveva ceduto rilanciando la sfida con il suo bel tailleur grigio. Indossandolo aveva voluto dare un segnale alla giornata che l’aspettava. E a se stessa. Sarebbe stata forte e dura come sempre.

Raggiunse il gabbiotto di accesso al tribunale e incrociò il proprio riflesso nel plexiglass. Si fermò a contemplare quella donna stanca e opaca nel vetro stondato. Chi era? Sulle ciglia pesavano microscopici macigni di rimmel e le labbra erano rosso sangue. Tutto ciò che riconobbe fu il vestito e in un istante comprese di non averlo indossato per farsi forza e affrontare la battaglia quotidiana con il coraggio e la determinazione di sempre. Lo aveva fatto, in quell’istante le fu chiaro come un’alba, perché voleva rivedere Enrico. Perché aveva bisogno di sapere, di capire cos’era successo.

Quella mattina Giulia aveva rotto gli indugi, aveva preso lo smartphone e aveva digitato una dozzina di volte lo stesso messaggio, cancellandolo a ogni esitazione, timore o timidezza. Lo aveva tenuto in bozze e solo all’ultimo s’era decisa a mandarglielo, dopo giorni di silenzio e dopo quella mail a cui Enrico non aveva voluto, o potuto, come sperava lei, rispondere. Era un azzardo, forse. Però non poteva far finta di nulla, non poteva fingere che non fosse successo niente.

Si osservò un’ultima volta nel vetro del tribunale e fece quello per cui, ora lo sapeva, si era preparata. In fondo, anche se fino a quel momento aveva latitato, non era ancora lei il pubblico ministero sul caso dello Scultore? Si girò riprendendo a camminare verso la macchina che l’avrebbe portata al comando di polizia di Montesacro.

 

Mancini e il professore avevano fatto una pausa dopo essersi confrontati per un’ora. Enrico ne aveva approfittato per andare a raccogliere pigne e fascine nella capannina in giardino e adesso stava accendendo il camino. Nel cono di luce calda che emanava la lampada a dente d’elefante, Biga attendeva seduto sulla fedele poltrona di velluto verde. Su un tavolino rotondo accanto al pendolo aveva sistemato appunti e libri. Enrico lo raggiunse portandosi dietro una sedia dalla sala. Era in attesa dei risultati dal laboratorio della Scientifica per due reperti che aveva trovato nelle tane del killer, ma la ragione per cui era rimasto dal professore era un’altra.

Era l’unico a cui poteva parlare di quello che gli girava in testa.

«Allora, Enrico...»

«Eccomi.»

«Prima, prendimi un whiskey, se non ti spiace.»

Lo scoppiettio delle pigne preannunciò la fragranza della resina e quando il commissario tornò con un bicchiere mezzo pieno di whiskey il professore lo guardò interrogativo come a dire: e tu? Enrico scosse il capo e si risedette.

«Passami quelli. Tutto, le mie note e quei volumi.»

Inforcò gli occhialetti che teneva al collo con una cordicella rossa. Inumidì pollice e indice e sfogliò il bloc-notes su e giù, poi si fermò. «Eccolo qui! Vediamo cosa abbiamo sul nostro uomo», disse tirando su col naso. «Sappiamo che vive sottoterra, lascia questi schizzi a matita delle vittime, diciamo i suoi progetti. E se utilizziamo le categorie canoniche di catalogazione dei serial killer, lui rispecchia un comportamento ambiguo.»

Si capiva che stava assaporando quel momento tanto quanto il suo whiskey. Era la loro prima riunione da mesi, qualche minuto d’intimità e lavoro come quando le parti erano rovesciate e Biga era un criminologo importante e Mancini il suo allievo più brillante. Ora che l’inattività aveva affaticato il professore, rallentandolo un po’, Enrico sentiva di dovergli restituire qualcosa.

«Le leggo il profilo che ho steso», rispose Mancini. «In base a tutto quanto abbiamo detto e alle analisi dei luoghi e sulle scene del crimine, mi sono convinto che abbiamo a che fare con un individuo con una vita sociale scarsa o nulla. Evidenti problemi psicopatologici, socializzazione frustrante. Nonostante non ci siano aspetti sessuali implicati, sembra avere il bisogno di sperimentare sensazioni di onnipotenza attraverso l’esercizio del potere, anche se in una modalità complessa e bifacciale: sia pre mortem, quasi fossero torture come per il Minotauro, che post, come nel caso degli altri.»

«Anch’io ho appuntato qualcosa su di lui, aspetta. Mi sono concentrato sulla relazione tra mitologia e psiche criminale. Ho utilizzato quei libri che poi ti mostrerò e delle mie vecchie pubblicazioni al riguardo. Allora... Nel caso dello Scultore mi pare evidente che esista un codice di interpretazione virtuale, il mito, che determina l’intenzione del killer. Una volontà di allestire il mondo secondo codici specifici che abbiano una potenza simbolica caricata di eccedenza libidica.»

Si fermò passandosi un dito sulle labbra che inumidì con un sorso di whiskey. «Voglio dire che abbiamo a che fare con un uomo che, ovviamente, non ha uno sguardo contemplativo, ma attivo. Lui guarda il mondo per trasformarlo e la sua azione produce effetti di realtà, fa la realtà. Quello che ci resta è una realtà ricostruita da lui.»

Il vecchio pendolo scoccò nove volte il martelletto sul timpano d’ottone. Eccolo il suo maestro, pensò Mancini. Glielo aveva insegnato proprio lui, tanti anni prima, che occorreva un approccio comprensivo al profilo psicologico dei seriali per individuare e circoscrivere il nucleo del delirio, la carica simbolica che indirizza verso la violenza le manifestazioni psichiche di un criminale, per cui tutti i suoi gesti si ricompongono in un universo simbolico organizzato come un teorema geometrico.

«È come se il suo sguardo sul mondo fosse uno strumento della volontà di ricomporre il disordine esterno secondo la componente simbolica interna. Uno sguardo che vuole allestire, così come i codici del mito hanno allestito il suo rapporto con l’assenza, cioè con un mondo assente.»

«Se il killer ricostruisce il suo mondo interiore sullo sfondo della realtà, ciò può indicare un uomo che vive o ha vissuto un’esistenza tale da averlo privato di uno sguardo sociale, reale.»

«Esattamente. Dobbiamo capire da che patologia è afflitto questo sguardo che getta sul mondo, perché da sola la sua assenza dal mondo reale non può bastare. Perdonami un momento.»

Carlo Biga fece l’occhiolino e si allontanò per rientrare due minuti dopo mentre lo sciacquone del bagno rumoreggiava e il suo bicchiere si era magicamente riempito.

«Professore, c’è una cosa che prima, quando c’erano gli altri, non ho detto. E che mi frulla in mente da un po’.»

Biga sorrise e annuì a conferma del fatto che aveva intuito qualcosa. Sapeva che il suo vecchio allievo aveva tenuto delle carte buone per un’altra mano e adesso stava per mostrargli il suo gioco.

«Quando quell’uomo mi è saltato addosso alla Casina delle Civette, ho notato qualcosa che non ho capito subito. Qualcosa nei suoi occhi, sul suo viso. È stato solo un attimo velocissimo e non sono riuscito a vederlo bene in faccia. Aveva i capelli biondi, ma mi è rimasto in testa qualcosa che ha continuato a tormentarmi.»

«Mmm...» sorseggiò il professore.

«Ecco, ero convinto di non aver registrato nient’altro. Poi stasera sono riemersi piccoli particolari. La forma del viso e gli zigomi acuti. È tutto quello che ho, come se di quell’istante non mi fosse rimasta che una radiografia di quel volto.»

«È stato sufficiente?»

«In realtà, no. C’è qualcosa che ancora non riesco a mettere a fuoco, o meglio... Non riesco a capire se alla Casina è stata la prima volta che vedevo quella faccia.»

La Quinta di Beethoven trillò e Mancini rispose a Comello. Era improbabile che avesse già delle news.

«Commissario, la dottoressa Foderà è passata al comando chiedendo di lei. In realtà, mi scusi, non voglio permettermi, ma mi è sembrata molto turbata.»

«Che le hai detto?»

«Che lei non c’era e che probabilmente l’avrebbe trovata a casa.»

«Bravo.» La voce di Mancini squillò sarcastica. «E lei cos’ha risposto?»

«Ha detto che sarebbe passata da casa sua.»

Era arrivato il momento. Lo aveva rimandato invano. Vigliaccamente aveva pensato che sarebbe bastato ignorare la cosa affinché si spegnesse da sola.

«Ho capito. Da quanto è partita?»

«Dieci minuti fa, più o meno.»

«E tu adesso me lo dici?» alzò la voce il commissario.

«Mi scusi.»

«Sì, va bene.» Mancini attaccò.

Il professore lo guardava interrogativo dalla sua posizione.

«Professore... È Giulia. Devo andare.»

Biga capì in un momento tutto quello che non si erano detti in quelle settimane di distanza.

«Vai. Devi riprenderti la tua vita.»

Mancini lo guardò per qualche secondo negli occhi e si afferrò a quell’emozione positiva per non scivolare nell’incertezza di ciò che lo attendeva.

La Trilogia del Caos
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