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Roma, domenica 14 settembre, ore 06.00
A quell’ora il corridoio del comando era vuoto. Il commissario lo percorse nel silenzio, gli occhi bassi, il passo instabile, ed entrò nel suo ufficio. Sul divano c’era già Comello, mentre Rocchi armeggiava con la macchinetta del caffè.
«Ecco i vostri compiti a casa», non usò preamboli Mancini.
«’Giorno, commissario», fece Rocchi, mentre Comello si alzava e andava alla porta per guardare fuori.
«Sbrighiamoci», lo ignorò spostando un lembo di pelle marrone dal quadrante dell’orologio. «Walter, tu ti occuperai della ricerca web.»
«Cosa devo cercare?»
«Il mattatoio. La storia. La struttura, la lavorazione delle carni. Tutto ciò che ti viene in testa e che lo possa collegare al frate. È chiaro che se è stato ammazzato lì, non è un caso. Come non lo è il rituale messo in atto e lo staging, la ’messa in scena’. Un’alterazione volontaria della scena del crimine. Lo diceva il professore a lezione. Tutto chiaro?»
«Chiarissimo, commissario.»
«Perciò smanetta e se ti salta all’occhio qualcosa stampalo.»
«Okay.»
«Visto che ci sei vedi se esce qualcosa sul ’triangolo della morte’, come l’hanno chiamato i giornali.»
«D’accordo.»
«Antonio, da te mi serve un’analisi comparativa», continuò rivolgendosi a Rocchi.
«Vale a dire?»
«Abbiamo tre cadaveri.»
«Sì.»
«Ho bisogno che tu mi dica, nello specifico, cos’hanno in comune. Qual è il filo conduttore che li lega da un punto di vista medico-legale. M’interessa sapere se ci sono somiglianze fra loro. Le ferite riportate dalle vittime presentano similitudini? La lama utilizzata per sgozzare il frate al mattatoio è compatibile con quella che ha operato Nora O’Donnell? Tutto quello che trovi.»
«Va bene, ho capito.»
«Ma non solo. Stiamo cercando di capire chi era il senzatetto. Ho bisogno del tuo referto.»
«Il referto è pronto. Volevo parlartene.»
«Aspetta un istante», disse Mancini osservando la De Marchi che entrava sfoggiando due pesanti occhiaie. «Caterina, devi reperire informazioni sulle vittime», le ordinò senza indugiare.
Preferiva restare solo con Antonio Rocchi per ascoltare i dettagli, anche i più macabri, del suo referto. «Prima il frate: di lui non sappiamo niente, tranne che era un francescano e che dimorava nel convento di San Bonaventura al Palatino. Poi ti concentrerai su Nora: fai un giro a Santa Maria Maggiore, ci servono più notizie su di lei. Passa al pub irlandese e fai qualche domanda. Dalla scuola di inglese dove aveva iniziato a insegnare non è emerso nulla di utile.»
«Capito.»
Mancini li osservò uno dopo l’altro. Un’energia familiare lo rinvigoriva. Dopotutto, quel caso imprevisto non gli avrebbe fatto male. E forse avrebbe potuto ricominciare. Poteva essere un’occasione?
«Andate.»
«A dopo», salutò Walter alzandosi.
«Ah, un’ultima cosa», disse Mancini. Si girarono tutti e tre.
«Tra poco sarà operativa la nuova sede.»
«La tana», ironizzò Comello sulla posizione seminterrata dell’ufficio operativo della squadra.
«Ci vediamo lì a mezzogiorno in punto.»
«Va bene», rispose l’ispettore sulla soglia.
«Antonio, tu resta un momento», lo fermò il commissario.
«Certo. Mi faccio un altro caffè, allora.»
Walter e Caterina uscirono insieme e Mancini si ritrovò a pensare a quanto sarebbe stato importante il fattore tempo. Dovevano sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda. Tutti quanti.
Il commissario si voltò: «Allora, questo senzatetto...»
«Non era un senzatetto, Enrico.»
«Te ne sei accorto.»
«Anche tu?»
«Subito, appena l’ho visto sotto al Gazometro.»
«Per via delle scarpe nuove?»
«No, quelle poteva averle rubate. No, il fatto è che era troppo pulito, vestiti a parte, non aveva i segni della strada sulle mani. Le unghie erano perfette, curate.»
«E le scarpe non erano sue», fece Rocchi.
«Sì, lo immaginavo.»
«Troppo piccole. Un 40. Chi ha fatto quella cosa gliele ha infilate a forza. Il piede era costretto.»
«Ho capito... Dimmi, aveva il collo rotto?»
«Sì, collo rotto, ma era già morto quando è caduto dal Gazometro.»
«E il collo se l’è rotto prima o dopo la caduta?» Mancini interrogò gli occhi dell’amico.
«Non posso ancora essere preciso. So solo che dopo la morte ha fatto una bella indigestione.»
«Di cosa?»
«Di tufo.»
«Tufo?»
«Aveva un chilo di tufo ficcato tra la faringe e lo stomaco.»
La scossa che lo aveva attraversato poco prima si trasformò in un brivido di panico che si ficcò all’altezza dello sterno.
«Ci siamo.»
«Cosa?» domandò Rocchi di fronte all’espressione assente dell’amico. «Stai bene?»
«Sto bene. Ma ho bisogno di altri elementi, adesso. Devi effettuare la procedura comparativa che ti dicevo. E devi eseguire gli esami sul frate. Subito.»
«Fra’ Girolamo, sì.»
L’indagine stava assumendo i contorni di una caccia. E lui, a riposo da tanto, troppo tempo, non voleva farsi sfuggire la preda, adesso che l’aveva fiutata. Adesso che aveva scovato le prime tracce. Cacciatori e prede, aveva detto suo padre. Ma come spesso accade in natura, il cacciatore si era trasformato in preda. Ed era lui quello che doveva inseguire, adesso. L’odore dell’adrenalina, della sfida. Un’occasione, finalmente.
«Dobbiamo volare», disse Mancini imboccando il corridoio e allontanandosi dall’ufficio. Giunto a metà si girò e, rivolto al medico legale che lo scrutava sulla soglia, disse deciso: «Possiamo fermarlo».
Rocchi uscì dall’entrata del personale. Mancini guardò l’orologio al polso: le sei e mezzo. Era solo. Passò la porta a vetri con le veneziane e si ritrovò all’ingresso del pubblico. Sulla panca di legno davanti al bancone c’era una donna sulla quarantina con una borsa sgargiante, occhialoni da sole e un vestitino corto a fiori.
«Nives Castro?» fece Mancini tendendo la mano.
La donna lo fissò per un istante con la borsa in grembo, poi allungò la destra: «Sì».
«Mi segua.»
Si alzò svelando la struttura bassa e compatta tipica delle donne filippine. «Dove?»
Non rispose, ma passando di fronte alla macchinetta delle bevande calde le chiese con tutta la cordialità di cui era capace: «Un caffè?»
«Grazie, no.»
Avanzarono per un altro corridoio e il commissario entrò in una stanza con la porta aperta. Dentro c’erano un banchetto e una sedia di fronte a uno specchio. Era la sala interrogatori per i crimini minori: «Si sieda un momento. Un po’ d’acqua?»
«No», ripeté la donna.
«Allora signora, devo ringraziarla per essere venuta a quest’ora insolita.»
«No preoccupi», disse lei con un’espressione atterrita. «Per me è meglio quest’ora, così dopo vado a lavoro.»
«Sa perché l’ho fatta venire?»
L’aveva convocata allora perché gli uffici erano ancora deserti. Non voleva gli occhi di nessuno addosso mentre lavorava sul caso che Gugliotti aveva congelato, ma che ancora gli riscaldava il cuore.
«Per il dottor Carnevali. Scomparso.»
«Lei lavorava a casa del dottore come domestica», attaccò.
«Sì. Facevo anche da mangiare, io. Ma era a contributi.»
«Non si preoccupi signora, non mi interessa. Vorrei che mi raccontasse qualcosa della nuova casa. Quanto tempo fa si era trasferito il dottore?»
«Inizio estate.»
«E lei era a servizio anche in precedenza?»
«Sì, quando c’era signora a Parioli io viveva con loro.»
«Aveva una stanza nell’appartamento?»
«Bella camera con bagno.»
«Poi cosa è successo? Perché Carnevali si è trasferito in campagna?»
«Signora litigava sempre con dottore. Signora rimasta lì con Matteo.»
«Il figlio. E quando il dottore ha comprato la villa ai Castelli lei lo ha seguito?»
«Sì.»
«Come mai? Perché non è rimasta con la signora Carnevali?»
«Signora Valeria non buona con me. Signora vuole pagare poco e tratta male e così io andata con signore.»
«Mi sa dire perché litigavano?»
«Signora diceva che il dottore aveva altra donna.»
«Un’amante?»
Un’idea tanto improvvisa quanto banale prese forma nella testa di Mancini. E se fosse stata una messinscena? Il suo chirurgo che decide di lasciare moglie e figlio per andare a vivere con la giovane amante dall’altra parte del globo. In fondo di soldi ne aveva fatti parecchi con il suo studio privato e Comello aveva scoperto che aveva avanzato una richiesta di prepensionamento. Ma perché comprare una casa tanto impegnativa se hai deciso di scappare dopo tre mesi? No, la storia dell’amante non lo convinceva.
«Sì. Signora diceva che lui spendeva troppi soldi. Litigavano sempre. Poi lei cacciato lui.»
«Ha notato se il dottore riceveva telefonate o si nascondeva per parlare al cellulare quand’era in casa?»
«No, mai visto. Lui poco a casa. Ma lui è uomo buono.»
«Lei cosa crede che sia successo, Nives?» andò dritto al punto.
«Dottore no scappato, lui voleva tantissimo bene a suo figlio Matteo. Lui no altra donna. Lui uomo buono», disse Nives scuotendo la testa e serrando le labbra per il dispiacere.
Mancini aveva conosciuto Carnevali. Era un uomo onesto, innamorato del proprio lavoro. Sì, era stato per quello che la moglie s’era stufata. Un uomo assente, un uomo catturato dalla professione. Se lo ricordava durante il primo ciclo di chemio di Marisa. Passava tanto tempo con loro. Tentava di tranquillizzarli, raccontava che la cura era molto progredita negli ultimi anni. C’erano speranze. Ci aveva provato. Anche se a Marisa non piaceva. No, lei non amava la sua freddezza, e poi era privo d’ironia, senza cuore. Ma i medici devono esserlo, di fronte al quotidiano spettacolo della malattia. Lui più degli altri, primario di oncologia al Gemelli dove le morti strazianti erano la routine. Lui, sempre in giro per consulenze e congressi. Che vita domestica poteva avere? Cosa poteva riportare a casa? Sì, ne era certo, quell’uomo era stato accanto a Marisa, le aveva provate tutte per sconfiggere il... avvertì una fitta al petto, una scossa, un pizzico che gli tolse il fiato. Posò una mano all’altezza dello sterno.
«Per me basta così», disse riprendendosi, «ma mi faccia il favore di restare a Roma.»
«Va bene.»
«Mi mostri la sua carta d’identità.»
Nives Castro, nata a Manila il 14/12/1972, nubile, via dell’Olmata 46, Roma.
«Quindi ora non vive con nessuno dei due?» chiese restituendogliela.
La donna arrossì per un istante e abbassò gli occhi: «No, io sto in casa con altri di mio paese. Vado da signore solo una volta settimana, sabato. Ma soldi pochi e io lavora anche per altri».
«Non per la signora Valeria, giusto?»
«No, già detto. Lei paga poco.»
«Va bene. Può andare.»
La accompagnò verso l’uscita, dove la donna lo salutò con un cenno del capo che gli parve più giapponese che filippino. Nell’ultimo anno, Carnevali non aveva fatto acquisti di gioielli, né regali per un’ipotetica amante. Era tutto nel fascicolo dentro il cassetto nella sua scrivania. Lo sentiva, non era la fuga d’amore di cui aveva scritto la stampa. No, lui non lo avrebbe abbandonato. Non avrebbe lasciato l’unico che li aveva aiutati in mano a qualche cazzo di sequestratore. Era quella la sua idea. Rapimento per il riscatto. Doveva portare avanti la sua indagine di nascosto. Nessuno lo avrebbe dovuto sapere. Quella era la sola giustizia che desiderava. Non poteva aspettare di chiudere il caso dell’Ombra. Qualcosa s’era ridestato quando aveva letto la mail del killer diretta a Stefano Morini, ma era un sottile strato di brace che faticava a riprendere vigore.
Le sette. Prima dell’appuntamento a mezzogiorno con gli altri aveva il tempo di andare a sentire cos’aveva da raccontare la signora Carnevali.