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Roma, Montesacro

Giulia ed Enrico camminavano su viale Carnaro, diretti a casa del professore. L’ufficio del questore era ancora vuoto e Gugliotti, si era informata Giulia, non aveva comunicato né malattia, né ferie, né altro. Ergo: non era riuscita a cavare un ragno dal buco sulla questione dell’archivio e delle schede. Erano diretti lì perché Giulia ricordava il grosso faldone pieno di foto e ritagli di giornale sulla panca del bovindo. Non era molto, ma poteva essere l’ultima chance per venire a capo di quella faccenda.

Nel frattempo, nonostante l’orario, Caterina era al Tribunale dei minori con Donatella per scavare tra le scartoffie burocratiche alla ricerca di qualcosa sulla ragazza adottata e poi rifiutata dai Tancredi. «Anna» era evidentemente il nome che le avevano dato nell’istituto che la teneva in custodia, ma almeno era una pista. Alexandra era al lavoro sul background storico-archeologico delle scene del crimine. Walter si stava occupando di individuare l’istituto a cui faceva riferimento Cristiana Tancredi.

Mancini infilò la chiave nella toppa del cancelletto di villa Biga e quella scattò mentre un rapido fruscio schizzò tra le siepi. Il vialetto era pieno di terra. I corvi zampettavano coi becchi bassi nel prato in cerca di vermi. Mancini e Giulia entrarono nella casa buia mentre fuori il fresco serale saliva dall’erba. Il commissario accese la luce del salone, guardandosi attorno. Avanzò e buttò la giacca di pelle sul divano del professore, quello davanti al caminetto.

«Saliamo», disse a Giulia che gli si fece accanto sul grande scalone mentre le dita si cercavano.

Giunsero al piano superiore e andarono dritti alla panca perimetrale del bovindo mettendosi a sedere. La penombra della casa con le scuri accostate o chiuse faceva vibrare entrambi di un’aspettativa sospesa. Giulia prese il quadernone ma, prima che potesse aprirlo, Enrico le posò una mano sulla sua, fermandola. La fissava e non ricordava di avere mai visto un volto più rassicurante e pieno di speranza. Lei se ne accorse e abbassò piano le palpebre lasciando che il tepore che avvolgeva le dita si diffondesse dappertutto. Ma proprio in quel momento Enrico lasciò andare la sua mano e gli occhi di Giulia gli chiesero perché. La risposta tardò appena un istante, quando le mani del commissario si posarono sul suo viso e lui le premette le labbra leggere sulle sue. Poi Mancini le si fece accanto, la tirò a sé e la strinse, lasciando che l’odore della pelle sul collo gli penetrasse fin dentro al cervello, quietando il suo naturale disordine.

Per dieci minuti restarono abbracciati senza parlare. Ascoltando il lieve movimento dei corpi che respiravano l’uno sull’altro, che vivevano, insieme. Giulia si staccò appena e una lama di freddo li divise.

«Ti va se apriamo questo coso e cerchiamo di chiudere velocemente il caso?» disse Giulia ravviandosi i capelli. Era tornata in sé, ma nella sua voce c’era ancora l’ombra di una concessione alla tenerezza che Enrico sfruttò per un ultimo bacio.

Sul tavolo c’era il quadernone con copertine di cartone chiuse da uno spago. In perfetto stile Biga, era una rapsodica collezione di foto, polaroid, ritagli di giornale e pagine volanti. Dentro di sé Enrico non aveva perdonato il professore per avergli tenuto nascosto quel passato. Se, come faceva per tutto il resto, lo avesse raccontato al suo allievo più fidato, ora il caso sarebbe stato risolto. E invece...

Trovò in fretta quello che stava cercando.

Erano quattro articoli ritagliati da riviste e giornali che risalivano a più di trent’anni prima. Riportavano un pezzo di cronaca nera che doveva aver fatto scalpore. Enrico non lo ricordava e non rammentava neppure di averlo studiato.

«Mai sentito?» chiese a Giulia che era al suo fianco.

«Mai.»

 

IN CANTINA CON IL MOSTRO

Sabato, in una località dei castelli romani, sulla strada statale 7 Appia nuova, è stata ritrovata una bambina di circa sei anni in evidente stato confusionale. Nelle fondamenta della casa cantoniera era stato ricavato un locale con bagno dove la minore sarebbe rimasta chiusa addirittura per anni. Le grida della bambina hanno attirato l’attenzione di un automobilista che si era fermato per una foratura.

La piccola recava segni di denutrizione e paura ed è stata subito affidata a un’équipe medica e psichiatrica.

 

Il secondo ritaglio della rivista che Biga aveva incollato su quella specie di quadernone era arricchito da una grossa foto che ritraeva un gruppo di adulti, tra i quali alcuni poliziotti in divisa, attorno a una bambina in sottana, con un pupazzo stretto e gli occhi vuoti di spavento, segnati da anni di buio. Nell’immagine si notavano i capelli lunghissimi assieme al pallore mortale. Ma l’articolo era peggio della foto.

 

LA FIGLIA DEL MOSTRO?

Non ha ancora un nome la bambina ritrovata nella casa cantoniera sulla strada statale 7, ma le indagini convergono sul criminale conosciuto come il Mostro dell’Appia. Secondo quanto lasciano trapelare gli inquirenti Luca Casara, il carnefice di tre giovani donne scomparse negli ultimi anni nella zona dei castelli romani, sarebbe anche al centro del sequestro della minore senza nome.

Indagato per il rapimento di Ida Corbucci, Benedetta Amendola e Viviana Foschi, Luca Casara è stato processato per omicidio plurimo e occultamento di cadavere ed è stato condannato a tre ergastoli. Durante i processi si è sempre rifiutato di parlare, ma le prove contro di lui sono state schiaccianti. Nella sua casa di campagna, nel comune di Velletri, sono infatti state ritrovate parti dei corpi delle vittime, tra cui le dita che hanno permesso il riconoscimento delle donne uccise.

È notizia di pochi giorni fa che i tre cadaveri sono stati ritrovati nel giardino della casa cantoniera assieme a una quarta vittima, anch’essa di sesso femminile, seppellita nell’orto. L’orrore, purtroppo, non ha mai fine, se si considera che anche quest’ultima era priva delle dita di ambo le mani. A giudicare dallo stato di conservazione del corpo, il medico legale ha ipotizzato che la morte sia sopravvenuta non più di due anni fa. E un dubbio atroce si fa strada nel caso ancora aperto: la donna dell’orto può essere la madre della bambina miracolosamente scampata al mostro?

 

Il terzo era costituito da poche righe inquietanti. Giulia ed Enrico le lessero assieme. Era un ritaglio da un quotidiano senza data.

 

La bambina, hanno stabilito gli inquirenti e gli psicologi, dopo la morte della madre è rimasta nel seminterrato della casa cantoniera per diversi anni. Al buio, in condizioni igieniche disastrose, e priva di qualunque riferimento umano e affettivo che non fosse il piccolo montacarichi con cui l’aguzzino le faceva avere cibo e acqua. Al momento dell’arresto dell’uomo, la bambina è stata privata del sostentamento e non si capisce come possa essere sopravvissuta tanto a lungo.

 

Il quarto era più lungo e molto più recente.

 

Luca Casara, questo il nome dell’omicida conosciuto con il soprannome del Mostro dell’Appia, è morto questa mattina nella sua cella a Regina Coeli per arresto cardiaco. Aveva 67 anni e da più di trenta era imprigionato per sequestro, omicidio, occultamento di cadavere nonché, dopo la riesumazione delle salme, di violenza sessuale ai danni di quattro giovani donne. Per anni interrogato da una squadra di psicologi forensi e investigatori sul suo passato, sui moventi, sull’ubicazione dei cadaveri (poi rinvenuti in una casa cantoniera sulla strada statale 7), non ha mai voluto rispondere trincerandosi in un silenzio completo. Le speranze di conoscere la storia della figlia avuta dall’ultima vittima sono definitivamente morte con un mostro di cui nessuno sentirà la mancanza.

 

Giulia estrasse l’iPhone dalla borsetta e prese a scattare. «Mando questa roba ai ragazzi», disse, e poi aggiunse: «Pensi che questa vecchia storia abbia a che fare con noi?»

Enrico indicò la data di pubblicazione dell’ultimo articolo. Il mostro era spirato in carcere poco prima del ritrovamento del pianista ucciso.

«Credo sia questo il fattore scatenante, il cambiamento decisivo che ha dato origine alla sequenza di uccisioni.»

«La morte del padre...» mormorò Giulia.

«Ma occorre aspettare notizie da Caterina e Walter», continuò Mancini. «Mi serve il nome dell’istituto, mi serve il nome della ragazzina di cui si era innamorato Noce e che i Tancredi hanno rifiutato.»

Enrico sentiva che dall’ispettore e dalla fotorilevatrice avrebbe ricevuto conferma di qualcosa che si faceva sempre più chiaro ai suoi occhi. Eppure, al contempo si sentiva confuso, disorientato. Non aveva mai affrontato un caso in cui due probabili soggetti implicati fossero un superiore e il suo mentore. Poteva soltanto sperare che il loro coinvolgimento fosse esterno, collaterale. Gugliotti e Biga condividevano troppe cose e, viste le condizioni del professore, l’unico che poteva portare una testimonianza diretta era proprio il questore. Che però si era dato alla macchia.

Enrico si sforzò di riportare l’attenzione sul cuore dell’indagine e sugli indizi appena scoperti. Riepilogò ad alta voce, rivolgendosi a Giulia come se fosse una semplice collega, mentre cercava di fare chiarezza.

«Al momento c’è la ragazza che Francesco Noce aveva in custodia, di cui si era innamorato e per la quale è finito per strada. Sappiamo con tutta probabilità che è la stessa ragazza che il giudice Noce aveva affidato temporaneamente alla famiglia Tancredi. Questo è il primo collegamento solido fra le vittime. Almeno fra due di esse», disse Mancini.

«E la Longo?»

«C’è una possibilità concreta, ma per averne certezza sto attendendo un documento via mail dall’AssNAS», rispose Mancini, approfittandone per controllare la posta elettronica sul cellulare. Ancora niente.

«E che cos’è l’AssNAS?» domandò Giulia alzandosi dalla panca e appoggiandosi alla finestra del bovindo.

«Monica Longo faceva l’assistente sociale, ricordi? Magari ha avuto a che fare con la ragazzina senza nome.»

«Non è abbastanza?»

«Per cosa?»

«Non credi che sia la bambina di quella foto?» disse Giulia voltandosi ancora per indicare il ritaglio di giornale. La ragazzina aveva un visetto spaurito, un’espressione vacua. «Mentre venivamo qui mi hai detto che Elena Tancredi ha parlato di occhi inespressivi, ricordi?»

«Che la spaventavano, sì. E di una grande capacità mimetica», aggiunse il commissario. «Come riportato nella scheda di affidamento che ho trovato nell’archivio del professore.» Enrico tacque su quello del questore.

«È vero.»

«Perciò, dottoressa Foderà», la guardò intensamente, «la domanda non è se credo o meno che sia la stessa persona. Ma in cosa potrebbe essersi trasformata quella ragazzina senza nome, oggi.»

La Trilogia del Caos
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