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Roma, domenica 14 settembre, ore 17.00

I lampioni lungo la strada bagnata non illuminavano granché e su quella superficie i tacchi alti non sostenevano l’andatura spedita di Giulia Foderà.

Appena uscita dal villino a Monteverde vecchio, prese la macchina e dopo trenta minuti nel traffico fumante di viale Trastevere riuscì a parcheggiare a pagamento nei pressi di Torre Argentina. Acquistò un ombrellino da un ambulante davanti alla Feltrinelli e si infilò nell’intrico di stradine che portavano al Pantheon.

Abbassò lo sguardo sul polso sinistro. Era in orario. Percorse via dei Cestari e sboccò di fronte alla basilica domenicana di Santa Maria sopra Minerva. Nell’adiacente convento, poi sede della Santissima Inquisizione, il 22 giugno 1633 Galileo aveva abiurato le sue tesi astronomiche. Di fronte alla facciata campeggiava l’obelisco egizio della Minerva sulla schiena dell’elefante progettato dal Bernini. E lì, sulla destra, Giulia Foderà scorse la sagoma di Enrico Mancini che fissava il muro in alto, la testa all’indietro sotto la pioggia.

Lo scalpiccio delle scarpe della pm svegliò il commissario che la accolse con un cenno del capo e tornò a osservare la parete.

«Salve», disse la Foderà sfoggiando un sorriso di una carica espressiva di cui si stupì lei stessa.

Lui si girò e rispose senza ricambiare quell’inattesa cordialità: «Quant’è che piove, ormai?»

Dopo un istante d’imbarazzo che si tradusse nel passaggio da una mano all’altra dell’ombrello, Giulia rispose: «Settimane, commissario».

«Vengo da via di Ripetta.» L’idrometro di Ripetta era una lapide verticale collocata nei primi anni dell’Ottocento per la misurazione del Tevere in piena. «E già segnava 14 metri.»

«È tanto?»

Come accadeva spesso Mancini ignorò la domanda per una manciata di secondi, poi disse: «Qui dietro c’è il Pantheon, il punto più basso di Roma, 12 metri sotto lo zero di Ripetta, cioè sul livello del mare».

«Venticinque secoli di storia romana e ancora non siamo riusciti ad arginare l’acqua del fiume», commentò lei.

«E queste invece», continuò Mancini estraendo la mano destra dal trench e puntandola verso le lapidi, «sono targhe alluvionali. Una specie di muro della memoria.»

«E quelle dentro le targhe?» riprovò la Foderà indicando delle piccole mani scolpite mentre gli si avvicinava di un passo.

«Sono le manine. L’indice proteso indica il livello raggiunto da una piena.» Il commissario strizzò gli occhi e lesse: «Quella è del 1530. HUC TIBER ASCENDIT IAMQUE OBRUTA TOTA FUISSET ROMA NISI HUIC CELEREM VIRGO TULISSET OPEM».

«Cosa vuole dire?»

Mancini si voltò e squadrò la pm con un’espressione interrogativa in volto. «Dovrebbe dirmelo lei. Dopo la lezione sui cocci di Testaccio.»

L’imbarazzo sul viso della donna si tradusse in un rossore improvviso che tentò di spegnere spostando gli occhi sul marmo e iniziando: «’Il Tevere è arrivato sino a qui e Roma sarebbe stata completamente sommersa se la Vergine non fosse venuta subito in aiuto.’ Be’, più o meno».

«Ottimo», la scrutò ancora Mancini. «È ora.»

«Ah, sì. Certo», mormorò lei.

La camicetta di seta grigia rifiniva le forme discrete di Giulia Foderà mentre la gonna ne svelava le belle gambe sottili in tensione sopra le décolleté che la staccavano da terra sette centimetri.

Era la seconda volta che Mancini si accorgeva di un cambio di abbigliamento così radicale rispetto al tailleur delle occasioni ufficiali. Cercò di non farci caso e s’incamminò, affiancato dalla sua compagna di missione.

Le voci che rimbalzavano tra il piccolo mondo della questura e quello del tribunale erano più o meno sulla stessa lunghezza d’onda. Giulia Foderà era una donna dura, forte, determinata, bella e pericolosa. Nessuno tra i colleghi dei due ambienti si era mai azzardato ad avvicinarsi. E questo perché conoscevano il suo privato abbastanza da aver scelto di tenersi alla larga.

Venuta dalla Calabria da ragazzina, figlia di un avvocato penalista che si era costruito una reputazione difendendo clienti vittime della ’ndrangheta, Giulia Foderà aveva portato avanti la carriera universitaria per lasciarla quando aveva vinto il concorso da giudice, ancora giovanissima. A dar retta alle male voci, aveva avuto un fidanzato storico, figlio di un amico di famiglia, ma dopo undici anni insieme lo aveva lasciato per dedicarsi anima e corpo alla carriera da magistrato. Una donna ingestibile, insomma. Ingestibile e affascinante.

Nemmeno Gugliotti era insensibile allo charme mediterraneo della Foderà con la quale si spendeva in mille cerimonie stando attento a mantenere la distanza di sicurezza. Lo stesso facevano colleghi e amici, attratti dal fascino severo ed elegante di quella donna.

«È molto lontano?» chiese lei affrettandosi per stare al passo con il commissario.

«Ci siamo quasi», rispose Mancini proseguendo.

Dopo cinque minuti d’orologio superarono la statua del Pasquino ed entrarono in via del Governo Vecchio, fiancheggiando le antiche botteghe d’artigianato che ora ospitavano ristorantini ed esclusivi negozietti di abiti usati.

Giunti al civico 90, Mancini si fermò. Il palazzo era un cupo edificio cinquecentesco con i tre piani della facciata che accoglievano delle finestre ad architrave. Sopra l’ultimo piano spiccava un cornicione decorato con gigli e teste di leone. Di fronte a loro si apriva un enorme portale.

Il commissario scorse col dito il citofono finché trovò quello che cercava. «Eccolo. È al secondo piano.»

«Perfetto, suoni allora.»

«No. Saliamo.»

«Magari dorme.»

«Ha detto che mi avrebbe seguito, dottoressa Foderà.» Dopodiché varcò la porticina che si apriva nel corpo del portale.

Quindici metri di corridoio in marmo grigio con rombi rossi terminavano di fronte a una doppia scalinata che saliva a destra e a sinistra. Su entrambi i lati, vicino a due file di cassette postali in legno c’erano i rispettivi ascensori in ferro battuto.

Mancini si diresse a sinistra e schiacciò il pulsante di chiamata e venti secondi dopo giunse l’ascensore. Aprì il cancelletto decorato con motivi floreali e le porte scorrevoli ed entrò mentre la compagna di missione cercava il cognome sulle cassette. Alla fine raggiunse il commissario nel minuscolo abitacolo e, appena Mancini pigiò il tasto col numero 2, il meccanismo si azionò e la cabina prese ad arrampicarsi sferragliando come un tram con i due stretti in attesa del piano. Lui era pallido e sofferente, lei invece mostrava un lieve rossore sotto gli zigomi. Entrambi tenevano gli occhi sul pavimento, finché l’ascensore si fermò assestandosi per qualche istante.

Sul pianerottolo c’erano tre porte, rialzate su altrettanti zoccoletti di marmo. Su quella che avevano davanti c’era una targhetta d’ottone che recitava in corsivo: STEFANO MORINI.

Il commissario premette il campanello che trillò all’interno dell’abitazione come se avesse echeggiato in una caverna. Non ci fu nessuna risposta e Mancini si attaccò al campanello. Niente.

«Non è in casa», concluse la Foderà.

«Ho sentito un rumore», ribatté Mancini dopo aver posato l’orecchio sulla linea dei battenti del portoncino.

Trascorsero trenta secondi prima che le serrature cigolassero e una fessura si aprisse di fronte ai due.

«Sì?» chiese una voce incerta dall’interno.

«Dottor Morini, buonasera. Sono il commissario Mancini della Questura di Roma.» Estrasse il distintivo, poi si scostò per offrire uno spiraglio sulla donna che aveva alle spalle. Nel mezzo chiarore del lucernario che riceveva i pochi raggi dal cortile, Giulia Foderà gli parve più bella del solito. Lo stesso dovette pensare l’inquilino dell’interno numero 5, dal momento che il rettangolo d’aria tra le ante si allargò rivelando il viso smagrito di un anziano. «Questa è il pubblico ministero, dottoressa Giulia Foderà.»

«Piacere», si fece avanti la donna, tendendo la mano destra e incalzando il giornalista: «Dobbiamo rubarle qualche minuto, ma sarà davvero questione di poco».

La porta si aprì e l’uomo si mostrò. Indossava una tuta grigia sopra un corpo rigido ma instabile. «Entrate», disse con voce ferma senza concedere la stretta alla donna che ritirò la mano, imbarazzata.

Oltre la sagoma del vecchio, un corridoio dal pavimento coperto di moquette finiva in una nicchia-studio illuminata da una lampada da tavolo. Entrarono e Mancini chiuse la porta dietro di sé. L’odore di carta vinceva quello del cibo, ma anche se la casa era disordinata non sembrava malmessa.

Avanzarono piano dietro a Morini. Una pila di giornali e un modellino di triremi romana da completare campeggiavano al centro del tavolino. «Ci provo», disse mostrando una mano tremolante. «Ma i remi sono i più difficili da incollare.»

Entrarono in un salottino con la carta da parati e diversi scaffali che ospitavano almeno un migliaio di libri. Gli ospiti si guardavano attorno e Morini colse la palla al balzo: «Cultura».

«Come?» chiese Giulia Foderà.

«Ho lavorato alla Cultura del Messaggero. Per questo ho tutti quei libri. Quasi tutti romanzi che ho recensito negli anni. Ma prego, accomodatevi.»

I due si sedettero su un divanetto di stoffa marrone mentre Morini prese posto di fronte in una poltrona identica. Mancini rincorreva con lo sguardo le coste di quei volumi accatastati nelle disposizioni più improbabili fin sopra al soffitto. La biblioteca dei sogni di Marisa, un irrimediabile caos di volumi.

«Mi perdonerete se non vi offro niente ma ci metterei mezz’ora e non voglio che vi serviate da soli dato lo stato in cui versa la cucina.»

«Si figuri», rispose la pm. «In realtà siamo qui...»

«Per la mail.»

«Esatto», si ridestò Mancini. «Ci racconti com’è andata.»

Stefano Morini incrociò le dita delle mani e le posò sul mento tentando di limitarne il balbettio. «L’altra sera, dopo più di un mese, ho aperto la posta elettronica e ho trovato quella mail. Sa, non uso molto il computer e anche per questo me ne sono andato in pensione. Questo lavoro non mi somiglia più. Una volta era diverso, c’erano i corrispondenti, si mandavano telegrammi, dispacci...»

La testa di Morini si muoveva da una parte all’altra. Pover’uomo, pensò la Foderà.

«Ho pensato che fosse uno scherzo, ma nel dubbio ho chiamato un vecchio amico, il caporedattore della cronaca di Roma che mi ha consigliato di sentire la polizia.»

«Ho capito», fece Mancini. «Ha ricevuto solo quella mail?»

«Sì, certo. Credo di sì. Non lo so.»

«Ha controllato nello spam?» chiese con un filo di voce la pm.

L’ex giornalista sollevò il viso e osservò la donna che aveva davanti come se avesse emesso dei fonemi in una lingua sconosciuta, poi scosse ancora la testa: «Non so...»

Mancini prese la parola: «Dottor Morini, il fatto è che ci troviamo di fronte a un caso urgente e ci serve la sua collaborazione. Quest’uomo sta uccidendo degli innocenti».

«Dobbiamo dare uno sguardo al suo pc», intervenne con una dolcezza inconsueta Giulia Foderà.

«Ho capito. Il mio portatile è di là, in camera», disse Morini con un cenno del capo non proprio preciso. Il vecchio se ne accorse e aggiunse: «Lì, di fianco alla porta del bagno».

Mancini si alzò diretto alla stanza da letto. Era un ambiente rettangolare di una quindicina di metri quadrati. Su tutte e quattro le pareti erano state montate lunghe mensole di legno scuro gravate da un numero di volumi e fotocopie inimmaginabile. In un angolo c’era il letto a due piazze coperto da un plaid giallo. Nell’altro angolo, vicino alla finestra, c’era un banchetto con la lampada gemella di quella all’ingresso. Infine un vecchio laptop collegato alla rete elettrica dal lungo cavo di un trasformatore che tagliava in due la stanza scomparendo dietro il comodino accanto al letto.

Era aperto. Mancini schiacciò la barra spaziatrice e lo schermo s’illuminò sulla home di Libero. Nello spazio dell’id già compariva l’indirizzo del giornalista. Sotto, nella casella della password, lampeggiava il cursore. Il commissario fece per alzarsi quando sul bordo inferiore destro della tastiera individuò un pezzetto di carta a quadretti attaccato con lo scotch. Sopra c’era una parola scritta a penna. Per un istante non credette ai suoi occhi: MARISA. Guardò meglio. PASSWORD: MARIA. Digitò le cinque lettere mentre si chiedeva se quel nome fosse il frutto di una suggestione religiosa o di qualcosa di più personale.

Nel frattempo Giulia Foderà fissava l’uomo che aveva di fronte e restava in ascolto, ipnotizzata dal flusso ininterrotto della voce calda. «Mi ha lasciato.»

«Chi, mi scusi?»

«Se ne è andata due anni fa. Un brutto male. Si dice così, no? È così che si scrive, si legge e si sente in tv. Un brutto male. E il mio allora? Il mio chissà cos’è.»

«Mi spiace», disse provando a immaginare il dolore di quell’uomo solo e malato.

«L’ho sposata a San Pietro, lo sa? Sull’altare papale il 12 marzo di trentasette anni fa. Dopo di lei ho deciso di chiudermi in casa. Una volta a settimana viene una signora a pulire e mi lascia qualcosa da mangiare. È la portinaia. A me va bene così. Ma questa cosa dell’assassino...»

L’odore di stantio saliva dal letto nell’angolo. Le lenzuola erano macchiate sugli angoli che sfioravano i piedi del letto. Mancini pensò di andare ad aprire la finestra, poi comparve la schermata delle mail in arrivo. Era piena di messaggi non letti. Scorse veloce i mittenti ma nessuno era quello che stava cercando. Andò alla seconda pagina e individuò la mail che Morini aveva girato alla polizia, purtroppo dopo averla passata ai colleghi.

«Era una donna bellissima.» Morini indicò il quadro che sovrastava la sua poltrona. Sul volto d’alabastro al centro della tela spiccavano due occhi d’autunno. I lunghi capelli di seta scura indicavano la giovane età della donna.

«Davvero bellissima», confermò la Foderà.

Mancini cliccò sulla cartella dello spam e scorse le venticinque mail che il pc aveva cestinato automaticamente. Prestiti, Viagra e ragazze che si offrivano per incontri di gruppo. Quello che cercava era nella seconda pagina, tra concorsi e massaggi. Il battito accelerò, le pupille si dilatarono e avvertì l’improvvisa patina di sudore che gli scaturiva sulla fronte e sul collo. C’erano due mail datate 3 e 9 settembre. Le inoltrò subito all’indirizzo di Comello per fare le analisi. Prese il cellulare e gli scrisse un sms: MAIL PER TE. GIRA TUTTO ALLA POLIZIA POSTALE. SUBITO! Poi cliccò due volte sulla prima e attese che si aprisse.

 

Da: ombra@xxx.it

A: stefanomorini@libero.it

Oggetto: CH4

03.05 – 3 settembre 20XX

Gentile dottor Morini,

la terza delle morti di dio è compiuta. Ma la giustizia vincerà solo quando l’aratro traccerà l’ultimo solco.

Lei non mi conosce. Nessuno mi conosce.

Non importa come mi chiamo.

Sono solo un’ombra

 

Il commissario si passò il dorso del polso sinistro sulla fronte. Si alzò, aprì la finestra e tornò a sedere. Doveva restare lucido. Ragionare. Perché questo bastardo aveva scritto a Morini? Non poteva averlo scelto a caso. Benché in pensione, Morini poteva essere il veicolo giusto per diffondere la notitia criminis. Ma allora perché il killer non aveva scritto direttamente ai giornali o alle tv? No, l’Ombra aveva optato per lui per qualche ragione particolare, probabilmente di carattere personale. Se era così, allora assassino e giornalista dovevano conoscersi. Era giunto il momento di fare le domande giuste. E sperare che il cervello di Stefano Morini non fosse caduto anche lui vittima del Parkinson. Enrico cliccò sulla seconda mail mentre le nocche della mano libera dal mouse sfregavano le palpebre.

La mail aveva la stessa struttura della precedente.

 

Da: ombra@xxx.it

A: stefanomorini@libero.it

Oggetto: Costantino

01.05 – 9 settembre 20xx

Gentile dottor Morini,

la prima delle morti di dio è compiuta. Ma la giustizia vincerà solo quando l’aratro traccerà l’ultimo solco.

Lei non mi conosce. Nessuno mi conosce.

Non importa come mi chiamo.

Sono solo un’ombra

 

Strano, rifletté il commissario, la prima mail finita nello spam era datata 3 settembre e annunciava la terza vittima e il luogo della deposizione, mentre quest’ultima, del 9 settembre, comunicava la prima delle morti di dio. A memoria gli sembrava di ricordare che quella in cui si rivelava la morte di Fra’ Girolamo era del 12 settembre. Controllò la mail che Morini aveva spedito all’ex collega del Messaggero, diede un’occhiata alle altre cartelle, chiuse tutto, si alzò e uscì dalla stanza.

«Una di quelle vecchie storie, sa, un amore semplice che oggi non interesserebbe a nessuno. Una vita insieme, pochi viaggi, zero figli. Io e Maria eravamo soli a volerci bene.» Aveva le palpebre socchiuse e inumidiva le labbra di continuo.

Mancini entrò nel salottino. Ma il suo ingresso, invece di strappare le figure dall’aura ipnotica che le avvolgeva, sembrò cristallizzarle. Il commissario si fermò a osservarli. Due statue di cera. Li squadrò. Erano immobili. E gli occhi di lei... Erano sempre stati freddi. Grandi, felini, profondi, ma distanti. Per un attimo gli parve di rivederla nella pelanda dei suini, al mattatoio, quando, di fronte al corpo di Fra’ Girolamo sospeso alle catene e barbaramente dissanguato, quella donna non aveva tradito una lacrima. Ora invece gli occhi scuri come il legno di Giulia scintillavano.

«Dottor Morini, ho trovato due email del killer nella cartella spam.»

Giulia Foderà si ritrasse come per evitare uno schiaffo mentre il giornalista parve ancora spaesato per il suono di quella parola «spam». «Ora ho bisogno che risponda a un paio di domande», disse Mancini sedendoglisi di fronte.

«Sissignore», rispose l’altro assente.

«Ho bisogno che lei sia sincero e il più preciso possibile.»

Morini corrucciò la fronte guardando prima il commissario poi il pubblico ministero. Mise le mani in grembo e disse: «Farò del mio meglio».

«Secondo lei per quale ragione questo criminale le ha scritto?»

Aveva ricevuto il minidossier della Questura sull’ex giornalista: un uomo mite, incensurato, un professionista senza macchia. Anni di recensioni sulle pagine della Cultura del Messaggero, la lettura anche come hobby, vedovo. Niente che facesse pensare a una doppia vita. No, non era il complice dell’assassino.

«Non lo so proprio. All’inizio ho creduto fosse uno scherzo, poi ho mandato la lettera a quel mio amico della nera. Insomma, ho pensato che se era una cosa seria... Come vi dicevo, mi ha richiamato per dirmi di girare la mail alle autorità. Ma credo che alla fine l’abbia utilizzata per un articolo.»

Mancini e la Foderà incrociarono gli sguardi prima che il commissario incalzasse: «Perché le ha scritto, Morini?»

«Non riesco a immaginare una ragione plausibile.» Era sincero e spaventato dal tono duro del funzionario di polizia.

Giulia Foderà fece un cenno al commissario e intervenne: «Lei non si è mai occupato di cronaca nera?»

Le mani di Stefano Morini ebbero un sussulto e presero a tremare più forte. «Assolutamente no. Mai. Vedete, io mi sono sempre fatto i fatti miei. Scrivevo bene e dicevo quello che pensavo dei libri che recensivo, senza marchette. Nessuno mi ha mai minacciato, se è questo che intende.»

Mancini riprese la parola. «Non ha mai avuto a che dire con nessuno per una stroncatura o per altro?»

«Mai. Glielo giuro», poi si voltò verso il ritratto della moglie in cerca di un sostegno invisibile.

La pm approfittò per lanciare un’occhiata a Mancini che voleva dire: «Basta così».

Lui la ignorò e proseguì. «Le faccio un’altra domanda.»

L’uomo sul divano non lo sentì. Continuava a fissare il viso nel quadro e a tenere le mani strette. Mancini tentò con un paio di colpi di tosse, ma senza sortire alcun effetto. Allora Giulia Foderà si allungò per colmare la distanza con il ginocchio del vecchio e ci posò una mano sopra.

«Oh, scusate.»

«Non si preoccupi signor Morini. Il commissario avrebbe un’altra domanda. Se ce la fa.»

«Sicuro che ce la faccio», rispose quello colpito nell’orgoglio.

«Ricorda se ha risposto a quella mail?»

«Assolutamente no. Niente di niente. Come le ho detto, ho girato la lettera al giornale appena arrivata.»

«Bene.» Mancini si piegò verso l’uomo che aveva di fronte. Forzò un sorriso rassicurante mentre controllava gli occhi del vecchio. «Conosceva la vittima di cui si parla nella mail? Quella che abbiamo rinvenuto al mattatoio di Testaccio.»

«Frate Girolamo, vero?» Le sopracciglia tremarono appena, mentre le pupille ondeggiavano incerte nel bianco-giallo della cornea. «Ho letto che si chiamava così. No, non so chi fosse, ma mi dispiace che sia successa una cosa tanto brutta. È incredibile, ho pensato che sembrava uno dei thriller che recensivo più che un fatto di cronaca romana.»

«Va bene, per ora è sufficiente. Grazie, signor Morini. Andiamo, dottoressa», disse Mancini alzandosi.

«Sì», rispose la pm drizzandosi. «Arrivederla, signor Morini», accennò un sorriso.

L’anziano sollevò le palpebre e parve inebetito, ridestato da un sogno da cui era stato strappato di colpo. Li salutò dal divano, accennando un saluto con la mano che non tese a nessuno dei due ospiti.

«Conoscete la strada», si limitò a dire.

«Arrivederci», ripeté Mancini, tendendo un biglietto da visita al giornalista. «Controlli la cartella spam sul suo computer e se ci sono novità informi solo la polizia.» Dopodiché imboccò il corridoio precedendo la Foderà.

Nell’ascensore Giulia disse: «Credo che possiamo fidarci di lui».

«Di lui credo di sì, ma non della sua testa.» L’occhiata interrogativa della pm lo invitò a proseguire. «Ho controllato il cestino e le mail in uscita e ce n’era una di risposta al killer, nella cartella bozze.»

Giulia Foderà portò una mano alla bocca.

«Iniziava con ’gentile signore’ e proseguiva dicendo che non lo conosceva e non voleva avere niente a che fare con uno che si presentava come assassino, che fosse vero o meno.»

La pm tirò un sospiro di sollievo mentre l’ascensore toccava terra. «Ma allora...?»

Mancini fece scorrere le ante, aprì il cancelletto e uscì. «Non mi interessa che ci possa aver mentito, quanto il fatto che non si ricordava di aver scritto una risposta al killer, e di non averla inviata. Quanto possiamo fidarci di quello che dice? Anche se è in buona fede.»

Scesero gli scalini e si ritrovarono sul guscio tartarugato dei sanpietrini bagnati. In alto la luce scemava tra le sagome austere dei palazzi. Mancini guardò quel cielo bagnato, si girò e si rivolse a Giulia Foderà: «Posso?» disse indicando l’ombrello che lei aveva appena aperto. Poi si avvicinò, glielo tolse di mano e ci si infilò sotto.

«Prego», riuscì a sussurrare lei prima che Mancini prendesse a camminarle a fianco con un passo più lento e cadenzato del solito.

La Trilogia del Caos
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