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Era una forma gordiana di abbagliante tinta,
a macchie vermiglie, d’oro, verdi ed azzurre.

John Keats, Lamia

Alla fine dell’Ottocento, in fondo al parco di Villa Torlonia, sorgeva la Capanna svizzera. Nei decenni ha subito mutamenti e modifiche. L’antico edificio rustico oggi è una raffinata residenza con loggette, porticati, colonnine e piccole torri. Le splendide vetrate Liberty e i tetti in ardesia e maioliche decorate ne hanno trasformato nome e aspetto.

Su una porta d’accesso secondaria compare il motto del principe Alessandro Torlonia: SAPIENZA E SOLITUDINE. Oltre quell’uscio, le nicchie e i passaggi si moltiplicano in un dedalo di ambienti incastrati gli uni negli altri. La sensazione di trovarsi su un palcoscenico costruito ad arte, con un grandioso effetto di finzione, è immediata. Qui si celebra l’artificio, l’innaturale. L’aura che avvolge i visitatori che vi si recano, da aprile a ottobre, è magica e simbolica. L’asfissiante rincorrersi di temi esoterici nelle decorazioni, nei mobili e nelle vetrate passa da motivi geometrici a una serie infinita di piante, frutta, fiori, cigni, rondini, pavoni. Ovunque si affacciano le civette. Negli affreschi, sulle colonne e sulle finestre. Nella vetrata al piano terra sono ritratti due di questi volatili stilizzati fra verdi tralci d’edera. I rapaci chiaroveggenti hanno occhi gialli e severi e un ambiguo sguardo di cristallo con cui scrutano i segreti della Casina delle Civette, è questo il suo nome attuale, all’interno e penetrano l’oscurità della notte all’esterno.

Fuori, sotto il livello del suolo, Mussolini fece costruire tre rifugi antiaerei. Alle spalle della Casina, sottoterra, c’è un alloggio di sicurezza per la servitù. La porta è chiusa con un lucchetto. Più che una porta è un’inferriata e le sbarre sono distanti cinquanta centimetri l’una dall’altra. Vi si rifugiano gatti e cani randagi, ogni tanto un senzatetto.

Da qualche notte è la casa del cacciatore.

Perché non c’è dubbio che la Casina sia la dimora della creatura che turbava i suoi sonni al convento. Quel mostro notturno lo aspetta da sempre. Sin da quando tremava al freddo che scuoteva le fiammelle della sua povera cella.

Si è messo in attesa e una sera l’ha vista. Era lei, Lamia, che usciva a predare i neonati sin dentro le culle. Se la ricorda quella faccia orribile e le raccapriccianti ali da rapace. Per due sere ha seguito i suoi spostamenti dentro la casa-castello che abita. Ha tenuto il calcolo a mente. Cinque volte fino a cento ha contato, prima che riaprisse la porta con i vetri di rose gialle e rosse e attraversasse il fitto delle palme per andare a caccia di bambini.

Mentre lei era fuori, è entrato in quella casa, ha studiato ogni angolo buio e, ora che lei è di nuovo lì dentro, può entrare. Dovrà giustiziarla lassù, nella torretta, nel salotto dei satiri, dove le lumache di gesso si arrampicano sulle pareti verso gli stucchi che incorniciano la piccola cupola di vetro.