38
Roma, Montesacro
Quando Mancini aveva sparato la seconda volta, quello che poteva essere un uomo piuttosto giovane, biondo e dalla statura indefinibile, data la postura accucciata, gli era saltato addosso. In un istante lui aveva dovuto decidere cosa fare. E quell’istante gli era costato l’impatto con il corpo del criminale, che lo aveva investito con una spallata nel plesso solare. Era rovinato a terra e aveva battuto la testa sullo stipite della porta. Non era svenuto ma non aveva potuto rincorrere il killer i cui passi erano già scomparsi oltre la soglia della Casina delle Civette.
Era stato Walter a trovare l’interruttore, nonostante il sangue dal sopracciglio destro gli offuscasse la vista. Sulla parete smaltata s’era accesa una lampada i cui cristalli colorati simulavano la ruota della coda di un pavone. Ancora intontito, Mancini si era messo a sedere con le spalle al muro e aveva indicato la donna. Comello le si era avvicinato parlando piano, dicendole che erano della polizia, che era al sicuro e che il pazzo che l’aveva presa era scappato. La donna, gli occhi chiusi, aveva risposto con un altro verso gutturale che si fermava alla bocca ostruita da due giri di corda.
«Ora ti sciolgo, stai calma», aveva detto Walter muovendosi piano mentre il commissario si alzava poggiandosi contro la parete.
Ma quando le aveva liberato le mani, legate alla spalliera della sedia, e la mascella e si era accucciato di fronte a Maria Taddei, lei aveva lasciato andare il mento sul petto. Era stanca di lottare, di gemere e piangere, aveva pensato Mancini. Poi, aveva visto quello che Maria Taddei non avrebbe più potuto vedere.
Nel grembo del vestito nero spiccavano due grosse biglie di carne bianca.
Il mostro gliele aveva strappate dalle orbite.
Al racconto del commissario seguì quello dell’ispettore Comello, mentre la casa di Biga risuonava dei rumori di stoviglie che la donna stava sistemando sulla tavola dopo aver cucinato. «La donna», come la chiamava lui, era una sorta di governante che gli riordinava la casa e gli lasciava qualcosa da mangiare due volte la settimana.
Walter aveva fatto la sua relazione sul funerale a bara vuota dell’antiquaria Priscilla Grimaldi. Era stato desolante. Otto persone di numero, compresa la nipote che lui aveva brevemente interrogato senza scoprire nulla di significativo. Nessuna presenza sospetta. Poi era passato al tipo che frequentava Cristina Angelini, riferendo che non era emerso nulla nemmeno lì. Lo stesso per le altre vittime: sui tre del Laocoonte aveva già riferito, perciò raccontò dei familiari del macellaio di piazza Vittorio e di quelli della Lamia. Perché era dei suoi panni che il killer aveva vestito la povera Maria Taddei.
Ed era esattamente quello che stava spiegando la dottoressa Nigro.
«Nelle leggende che ci sono arrivate dalle fonti greche e latine, le lamie sono esseri malefici e capaci di entrare nelle case, prendere i bambini e dilaniarli per cibarsene. Per l’appunto si fa coincidere l’etimologia del loro nome con il verbo ’laniare’. Le descrizioni che ricaviamo dalle fonti sono svariate. Nel tempo, Lamia ha assunto forme collettive, trasformandosi di volta in volta in figure composite per metà umane e per metà animali, pesci, lupi, ma più spesso uccelli. Seducevano gli uomini e soprattutto rapivano i bambini che divoravano o di cui bevevano il sangue.»
«Dei vampiri all’antica», fece Comello.
«Una cosa del genere. Secondo altre fonti», proseguì Alexandra, «Lamia avrebbe il corpo di donna e il muso di un animale, un lupo, una iena, o viceversa, il corpo di animale e il viso di donna, come nel caso di Maria Taddei.»
«Come fai a dirlo?»
«Il nostro uomo l’ha presa e l’ha preparata nella Casina delle Civette. E la civetta è una delle rappresentazioni più frequenti di Lamia.»
«Sai dirmi perché fra tante ha scelto proprio questa di rappresentazione e non, che ne so, quella del lupo?» domandò Rocchi posando lo sguardo sul maglione a collo alto della donna.
«Lo ha già detto Alexandra», s’intromise il professore. «L’omicida deve avere un modello preciso. Una sua fonte. E questo vale anche per le altre creature.»
Alexandra distolse lo sguardo da Carlo Biga, mentre Mancini la fissava, e lo lasciò vagare tra i libri della grande biblioteca: «Anche io la penso così. Tutte le vittime sono le copie di un modello preciso. Sciaguratamente, non potranno più raccontarci niente».
«Commette un errore madornale se dice così, Alexandra», scosse la testa Biga.
«I morti non sono mai muti. Parlano la lingua dei morti», disse Mancini.
Biga si era alzato dal divano e aveva raggiunto il centro della stanza dove aveva approntato una lavagna con tanto di bandierine e anellini segnaletici. Sulla sinistra c’era la mappa dei crimini, al centro le foto delle vittime prima e dopo la messa in scena dello Scultore e a destra i referti delle autopsie e della Scientifica.
Con l’indice grassoccio fece un circolo in aria comprendendo tutte le foto dei cadaveri: «L’eco delle loro parole ci arriva dal regno dei defunti. Il loro passato, la loro biografia e quello che il killer ha scritto sulla loro pelle ci raccontano la loro storia».
«E quella del killer», lo interruppe il commissario. «Perciò concentriamoci su di lui perché sono sicuro che la nostra sortita alla Casina delle Civette lo ha infastidito e presto tornerà a colpire per dimostrarci che non si è spaventato. Ma adesso voglio mostrarvi qualcosa.»
Il professore si rimise seduto e lasciò le braccia posate sulle gambe con le mani, nervose, a tormentare le ginocchia. Intanto, Mancini prendeva dei fogli lucidi dalla cartellina che aveva lasciato sul tavolo da pranzo. Infilò indice e pollice ed estrasse due foglietti. Andò alla lavagna e li fissò con le calamite.
«Disegni?» si stupì Rocchi.
«Che disegni sono?» domandò Walter.
«Avvicinatevi, per favore.»
Uno dopo l’altro si alzarono dal divano e si accostarono alla lavagna. Sui due fogli di carta erano raffigurate Scilla e Lamia in ogni particolare, dalla cintura di teste di cane e le serpi della prima al volto senza occhi della seconda. Alexandra era rimasta dietro di loro e Mancini le indicò di farsi avanti.
Una volta che si furono riaccomodati, Mancini si passò una mano sulla fronte e stese il braccio sulla lavagna: «Questi li ho trovati nelle tane del killer».
«Dove?» chiese Rocchi.
«Nel mio ultimo sopralluogo nella camera delle pompe dell’Aniene dove lo Scultore ha imprigionato Priscilla Grimaldi e in uno dei bunker di Villa Torlonia, vicinissimo alla Casina delle Civette, dove si è nascosto per assalire Maria Taddei.»
Alexandra tornò a seguire una linea immaginaria tra i ripiani della biblioteca del professore. Poi improvvisamente abbassò lo sguardo sul commissario e, fissandolo dritto negli occhi, domandò: «Se è come dice lei, dove sono gli altri disegni?»
«Purtroppo non conosciamo la tana da cui è uscito per comporre la Sirena e il Laocoonte. Ma sono certo che è situata tra lo zoo e la Galleria Borghese. E penso che anche lì l’assassino abbia lasciato questa traccia.»
Il campanello li interruppe e quando la donna andò ad aprire sull’uscio comparve, sporca, sudata e tremante, Caterina.
Walter le corse incontro senza badare agli altri. «Che è successo? Come stai?»
Lei lo abbracciò per poi staccarsi. Si tolse le scarpe sudicie ed entrò chiudendo la porta dietro la signora delle pulizie che se ne stava andando. Aveva i capelli rossi intrisi di fango ma si avvicinò subito alla lavagna.
«Caterina...» pronunciò il commissario.
Lei fece un cenno di saluto agli altri sul divano e piantò gli occhi sulla lavagna.
«Sei stata di nuovo laggiù?» la rimproverò Comello, e Mancini s’accese d’interesse.
La ragazza annuì, poi accostò il viso per controllare i due disegni. Guardò il commissario e pescò nel giubbotto di servizio dove aveva messo il sacchetto con il reperto della cera trovato nelle fogne. Lo aprì e porse la crosta a Mancini. Era divisa a metà, e rivelava il segreto che aveva tenuto nascosto. I puntini neri non erano gli stoppini bruciati delle candele consumate. Dalla crepa spuntava un foglio con un disegno a matita, che ritraeva la testa di un toro sopra il corpo di un uomo.
Il commissario le mise una mano sul braccio. «Sapevo che ci avresti aiutati.»
Caterina continuò a guardare Mancini in faccia. «Commissario, la sua lezione sul mostro di Nerola, l’altro giorno. Ci ha parlato di lui chiamandolo ’il ragno’. Io sono stata laggiù e ho capito. Ecco, le fogne sono come una specie di ragnatela. Lui si nasconde laggiù. E vi nasconde anche le sue prede, come un ragno nasconde le mosche che intende mangiare in un secondo momento.»
«È così, Caterina. Ma non lo fa solo nelle fogne.» Mancini si girò verso il divano. «Stavo dicendo che le sue tane sono tutte sottoterra, anche per Scilla e Lamia è stato così. E per rispondere all’ultima domanda, Alexandra, con questo disegno ne abbiamo la riprova.»
«Ma allora perché li abbandona, i disegni? Sono messaggi?» si difese la dottoressa Nigro accendendosi in viso, gli occhi gialli che avvampavano nella luce delle lampade.
«No», alzò la voce Biga. «L’ho già detto. Altrimenti li avrebbe lasciati vicino alle sue opere, come fossero biglietti da visita. No. È una cosa che fa per sé.»
«È come se disegnasse l’immagine della creatura che sta per uccidere, come un promemoria, una guida», disse Rocchi.
«È un’ossessione.» Alexandra sembrava assente, lontana, forse persa nel suo mondo di miti e leggende. Chiuse gli occhi come se avesse paura di lasciarsi scappare qualcosa. «Lui si prepara a... sì, a quello che fa, focalizzando la sua preda. La disegna perché ne è ossessionato.»
Si fermò a ragionare, ma Mancini non voleva che interrompesse il flusso che la stava portando avanti. «Continua, Alexandra.»
«La disegna sul pezzo di carta per dare forma alla sua ossessione, per imprimersi quella forma nella mente. Quando non ne ha più bisogno, se li lascia dietro nelle sue tane, i disegni, come diceva lei. E va a comporre la sua opera.»
«A chi si ispira, Alex?» la incalzò il commissario.
«Io credo...» Strizzò le palpebre. «Credo che il nostro uomo sia così preciso perché la sua ossessione è altrettanto precisa. Perché ha un modello, come dicevamo poco fa. Eravamo arrivati qui. Ecco, questo modello preciso che dite voi secondo me esiste nella realtà. Solo che sono tanti i modelli, uno per ogni opera che ha messo in piedi.»
«E cosa può fare da modello a ciascuno di essi?»
«Un compendio di mostri», rise Rocchi.
«Non ridere», attaccò Mancini. Antonio tacque.
«È così? Stai pensando a un testo in particolare, vero, Enrico?» chiese Biga.
Mancini annuì e la dottoressa Nigro scosse il capo. «Esistono centinaia di compendi di mitologia classica, commissario.»
«Sì, ma sono convinto che lui ne abbia in mente uno in particolare.»
«E dove si troverebbe?»
«È questo che dobbiamo scoprire, e dobbiamo farlo in fretta.»
Mancini aveva calamitato l’attenzione della squadra. Erano in tensione, pronti a scattare. Lo guardavano, desiderosi e spaventati.
«Colpirà di nuovo. Presto. E stavolta non commetterà l’errore che ha commesso con Lamia. Sarà più veloce e letale, perché ci ha scoperti», concluse Mancini.
«Come procediamo, Enrico?» chiese Biga con voce roca.
«Mi sto occupando delle tracce e dei reperti sulle scene del crimine e ho un uomo sulle sparizioni in tempo reale. Il professore si concentrerà sul lavoro analitico, riordinando le idee, riepilogando e sintetizzando tutto. Antonio, mi servono le analisi su Scilla. Devo passare da casa, ma farò base qui.»
«E io?» chiese Alexandra.
«Ho bisogno di un’indagine comparativa fra le figure mitologiche che includa Lamia. E una bibliografia sui maggiori compendi di mitologia greca. Voi», aggiunse Mancini indicando Walter e Caterina, «a caccia delle altre tane. Quelle che ha usato per il Laocoonte e la Sirena. Andate all’Archivio di Stato all’Eur e chiedete di questa persona», passò loro un biglietto. «Poi fatevi dare tutte le mappe dei luoghi sotterranei del centro di Roma nella zona dei ritrovamenti.»
«Va bene, commissario. Andiamo subito.»
«Sì», si limitò a rispondere Caterina.
Dentro di sé sperava che, scoprendo il nascondiglio di quell’uomo, avrebbe in un modo o nell’altro ritrovato anche il suo piccolo Niko.