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Roma, martedì 16 settembre, ore 13.30, Ospedale San Camillo

Il barocchetto romano adornava l’edificio centrale dell’Ospedale San Camillo mentre le palme ai lati dell’entrata grondavano acqua come fossero abeti. Il commissario s’infilò nella reception e si avvicinò al banco dietro cui spuntava una donna con un caschetto biondo cenere e una camicetta blu alla coreana.

«Comello, rianimazione.»

L’impiegata spalancò la bocca in un sorriso soddisfatto e pronunciò: «Mi spiace, ma non è l’orario delle visite». Poi indicò con una matita l’orologio a parete che segnava le 13.30.

Mancini abbassò le palpebre, si ficcò la mano nella tasca interna dell’impermeabile ed estraendo il distintivo ripeté: «Comello, rianimazione».

«Settore A, primo piano», si corresse la donna abbassando lo sguardo sulle carte che aveva davanti.

Dopo aver salito le strette scale di marmo, Mancini entrò nell’anticamera della rianimazione, dove Caterina e Rocchi erano in piedi davanti a un finestrone. Tutt’intorno c’erano due macchine per il tracciato, un grosso defibrillatore e l’apparecchiatura per l’anestesia.

«Eccolo», si limitò a dire Caterina continuando a fissare al di là del vetro.

Sul letto c’era l’ispettore Comello intubato. Era collegato con un ventilatore polmonare dietro le spalle e con uno schermo a colori su cui scorrevano gli andamenti temporali e le curve respiratorie di pressione, flusso, volume. Un altro display monitorava l’ECG.

«Ha sbandato», sussurrò Caterina posando il mento sul petto.

«Sulla Pontina», precisò Rocchi. «Ha perso il controllo ed è stato sbalzato fuori dall’abitacolo.»

Mancini si girò verso il letto dell’ispettore e notò la benda che fasciava la fronte e la testa del collega. Le escoriazioni sul viso e il naso rotto. Scosse la testa e il respiro si fece incerto. Quelle luci e quei suoni elettronici lo ipnotizzavano.

«Non è grave, nonostante tutto. Lo terranno in coma farmacologico fino a stasera. I medici stanno valutando i danni cerebrali dell’impatto.»

«Ha le braccia rotte, il bacino fratturato e le costole hanno perforato la milza, ma non è in pericolo di vita. È un toro», disse Rocchi.

Mancini si avvicinò al vetro. La pompa d’ossigeno andava su e giù mentre Walter se ne stava immobile, sul letto. Due lampi in successione esplosero in fondo alle cornee del commissario, due potenti bagliori di luce che lo disorientarono. S’appoggiò al vetro con gli occhi chiusi. Nessuno lo guardava. Allargò le narici il tanto che bastava a inspirare una grossa quantità d’aria.

Quell’odore.

Il letto.

Il respiratore.

«È colpa mia», proruppe Caterina.

«Ma che dici?» fece il medico legale.

Mancini rimase a fissarla, inebetito.

«L’ho chiamato mentre guidava...»

«Semmai è colpa mia, che ti ho detto di chiamarlo. O che ho mandato lui invece di andarci io», rispose il commissario, il viso una maschera inespressiva.

«Enrico, non ti ci mettere anche tu.»

Caterina affondò il viso nelle mani e si voltò, singhiozzando.

«Devo andare», proruppe il commissario, poi imboccò il corridoio che portava di sotto mentre i due continuavano a seguirlo con lo sguardo.

Scese le scale aggrappato al corrimano. Nessuno in vista. L’aria sembrava più pulita lì e forse ce l’avrebbe fatta. Arrivò in fondo e si diresse alla porta a vetri scorrevoli. La donna alla reception azzardò un «arrivederla» conciliatorio, senza ottenere risposta.

Quando fu fuori si sentì chiamare dall’interno. Si girò, le sopracciglia aggrottate. Era Caterina. In mano aveva un piccolo quaderno. Gli occhi gonfi di pianto.

«Cos’è?» chiese infastidito Mancini.

«Il taccuino di Walter. Lo teneva ancora in tasca quando l’hanno ricoverato. Ci sono gli appunti su Nora.»

Le lacrime le rigavano le guance quando Mancini rispose assente: «Non lo so, Caterina, non lo so».

Lei fece un passo e per la prima volta azzerò la distanza che li aveva sempre divisi. «Ti prego, non mollare adesso.»

Mancini la scrutò. L’aveva capito anche lei che era tutto inutile. Lo sapeva lei, lo sapevano tutti che non ce l’avrebbe fatta a trovare l’assassino e a salvare le sue prede. Era scivolato in una zona d’ombra da cui non sarebbe riemerso.

Scosse piano la testa e si voltò, lasciando Caterina imbambolata sul posto. Il rovescio di mezz’ora prima s’era attenuato e adesso era una pioggerella. Mancini s’abbottonò l’impermeabile e tirò anche la cintura, sollevando appena il bavero. S’avviò tra le palme verso il cancellone sulla Gianicolense e girò a destra, giù fino alla fermata del bus. Scrutò il cartellone e decise che non c’era speranza. Allungò un braccio e fermò il primo taxi a tiro, una Mercedes nuova nuova con i finestrini posteriori oscurati.

«Mi porti alla Questura centrale», disse.

«Bene signore», rispose il giovane tassista, un ragazzo sui venticinque anni con i capelli biondi corti, una camicia a scacchettoni rossi e neri e dei jeans scuri. Al semaforo girò a sinistra imboccando via dei Quattro Venti.

La macchina era un punto bianco nella galleria d’alberi che saliva verso Monteverde. Il brusio sommesso di una radio sportiva riempiva il buio dell’abitacolo mentre Mancini guardava fuori dal finestrino posteriore, dietro il conducente. L’auto bianca girò attorno a porta San Pancrazio e scese sulla destra, imboccando via delle Fornaci. La strada procedeva in discesa mentre tra i palazzi spuntava la cupola di San Pietro.

La solida geometria della facciata, cinta dall’abbraccio prospettico del colonnato del Bernini, biancheggiava anche sotto la pioggia. Eccolo il travertino «preso» dal Colosseo durante i saccheggi del sedicesimo secolo, pensò Mancini. Ironico, che i marmi del più celebre edificio pagano fossero serviti per edificare il simbolo stesso della cristianità. O forse era solo un altro dei segni, il più paradigmatico, della cristianizzazione del paganesimo che la Chiesa di Roma aveva operato sin dai suoi albori.

La Mercedes attraversò ponte Principe Amedeo e prese corso Vittorio, raggiungendo largo di Torre Argentina. C’era un gran via vai di gente, come al solito, di fronte al teatro e alla Feltrinelli. Quant’era che non ci entrava? Non aveva più voglia di leggere. Incrociò lo spettro dell’Altare della Patria, si arrampicò in via IV Novembre e su per via Nazionale, fermandosi a poche decine di metri dalla Questura centrale.

Mancini pagò, scese e attraversò, ritrovandosi di fronte al palazzo dove avrebbe fatto ciò che doveva fare da un pezzo.

 

«Cosa diavolo vuole ancora Mancini?»

«Lasciare.»

«Non può abbandonare il caso dopo quello che mi ha combinato.»

«Mi dimetto.»

«Perché? Cosa cazzo dice? Lei è a capo di un’indagine che ha la massima priorità.»

«Lo sa benissimo, Gugliotti. Non ce la faccio e non sono mai stato adatto per questo caso. Walter ci sta rimettendo la pelle perché l’ho mandato laggiù. In un altro momento sarei andato io, non sarebbe successo.»

«È un suo uomo, l’ha mandato a fare il suo lavoro. È la prassi, commissario.»

«Lei non capisce. Durante l’interrogatorio... A un certo punto io volevo ucciderlo quel tipo, Bruno Petkovic. Volevo ucciderlo.»

Gugliotti fissò Mancini e per la prima volta parlò come un uomo d’esperienza. «Ma cosa crede, di essere il primo a cui succede? Non sia ridicolo, Mancini.» Sospirò, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Lei è stanco, tutto qua. È comprensibile. Chiuda questo caso e si prenda un periodo di riposo.»

«Sa perché ho mandato Walter a Latina?» Mancini non lo stava ascoltando. Il questore rimase in attesa. Poi il commissario espirò e parve che soffiasse via la sua delusione: «Perché ho avuto paura. Paura di rientrare in quel reparto. Oncologia. No, non era paura, era orrore. Io non posso sentire, vedere, ricordare. Io...»

Mancini infilò la mano nella tasca interna del trench ed estrasse il portafogli.

«È successo un’altra volta. Non lo capisce? Me ne sono andato, e... E lei è morta.»

«Commissario, lei è sconvolto, io la capisco meglio di chiunque altro. Ma è stata una casualità. Lei era in servizio negli Stati Uniti.»

Gugliotti recitava la sua parte con un’enfasi evidente. Entrambi sapevano che in un’altra occasione il questore avrebbe goduto a sbatterlo fuori. C’era sempre stata della ruggine, sopita dal rispetto per i gradi da parte di Mancini e dal timore della propria inferiorità sul campo da parte di Gugliotti. Quello però non era il momento giusto. Al questore serviva chiudere il caso dell’Ombra, e Mancini era l’unico in grado di farlo. Di questo ne era certo.

«E se non fosse accaduto per caso? E se fosse successo perché io lo volevo? Perché sapevo che sarebbe accaduto e non volevo esserci?»

«E questo cosa c’entra? Cosa cambia?»

«Cambia tutto quando arriva la malattia. La pelle diventa gialla, le labbra secche, le sopracciglia, i capelli, la testa. Anche stavolta è successo, con Walter. Mi sono sottratto a un mio dovere e lui ora si trova in un letto d’ospedale. Ancora e ancora», disse battendo il pugno sulla scrivania.

Il questore si ritrasse, nuovamente impaurito.

«Se uno come me non ha più il fegato per guardare un cadavere, un pezzo di carne morta, è uno sbirro finito», lo incalzò il commissario.

Se l’odore della decomposizione ti spezza il fiato, ti brucia gli occhi, che fai, Enrico Mancini, eh? Che fai? Scivoli all’inferno? Lo aveva visto l’inferno, tra le quattro pareti di legno di quella baracca. Il killer di Casteggio, lo chiamavano i giornali nazionali. Il signore degli anelli, lo aveva invece ribattezzato la stampa locale. Sulle scene del crimine, nei campi della cittadina pavese, erano state ritrovate delle piccole fedi. Assieme agli anelli, il killer aveva abbandonato sul terreno anche il dito che li indossava. Al secondo ritrovamento gli inquirenti avevano allertato la Questura di Roma. Mancini era stato fuori più di un mese, prima di venire a capo del caso. Aveva chiesto di avere una macchina per i sopralluoghi e di poter lavorare da solo. Era sempre stato uno che si fida poco, anche se quello era un lavoro di squadra. Non sapeva delegare, e quando lo faceva... be’, Comello era l’esempio.

Quella volta però lo aveva beccato da solo il killer delle ragazzine. Era un orefice di Piacenza in pensione, un individuo ossessionato dalle mani delle giovani tanto da tagliar loro le dita. Nella baracca dietro un laboratorio improvvisato Mancini era stato accolto dallo spettacolo sconvolgente di cinque corpi mutilati. Più delle immagini raccapriccianti il commissario aveva conservato il ricordo dell’odore dei reagenti chimici e della decomposizione della carne umana.

«È deciso ad andare fino in fondo?» domandò Gugliotti dinanzi al portafogli aperto.

«Non c’è speranza, dottore. Sto cadendo. Come un proiettile.»

«Un proiettile?» impallidì Gugliotti di fronte agli occhi vacui e a quelle parole senza senso.

Mancini abbassò il capo, incontrò le mattonelle di graniglia e si perse nuovamente in quel vortice di frammenti colorati. «È iniziata la discesa... la mia balistica discenditiva. Io... non ho scampo.»

Aprì il portafogli e prese il distintivo. Fece un passo e lo posò sulla scrivania di Gugliotti, che si ritrasse e lo guardò come si guarda un insetto piovuto dal cielo. Poi, l’ex commissario Mancini si voltò e se ne andò lasciando il questore nella sua nuvola di silenzio.

La Trilogia del Caos
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