Capitolo 25

 

 

In quei giorni costretto ad Atene, ad aspettare laiuto economico del Biggini per poter ripartire, mi passarono tanti pensieri per la testa. Assistetti anche alla cerimonia di chiusura. Pensai di sfidare Spirydon Louis in una nuova gara. Magari per il tragitto di ritorno a Milano. Ma sarebbe stata soltanto una gara, nulla di più.

Secondo il calendario Giuliano era il 17 aprile ad Atene, una settimana dopo la chiusura dei Giochi. Prima di tornare in Italia, trovai il coraggio di prendere in mano personalmente carta e penna e quindi di scrivere finalmente al giornale La bicicletta. Fu la mia ultima lettera. I giorni erano passati, ma la delusione era rimasta, nello spirito, nel fisico e nel cuore.

Fino alla mattina della gara di Maratona ebbi sempre speranza di correre, ma purtroppo non mi venne nessun avviso e dovetti assistere alla gara per la quale è un mese che mi affaticavo nella certezza di prendervi parte scrissi al direttore del giornale. Era la prima volta che ne parlavo dopo aver meditato molto in quei giorni.

Fino allarrivo mi mantenni calmo e tranquillo, ma quando arrivò il primo e si sentì il colpo di cannone e sinnalzò la bandiera greca, non mi sentii più padrone di me. Bisogna essere stati qui per capire la festa: mai a Milano ci fu tanto interesse per una corsa simile: tutta la Grecia era in Atene, tutta la nobiltà nellanfiteatro. Il re e i principi, tutti insomma, giacché la gara Maratona era lo spettacolo più interessante dei giochi.

Vedere arrivare il primo in mezzo a tanta festa e io non poter correre per delle ragioni assurde, fu il più grande dolore della mia vita. Lunica ragione, a quanto parve a molti, è che era desiderio di tutti che il primo fosse un greco e per questo, basandosi sul regolamento, venni escluso perché presi del denaro a Barcellona. Dunque non potevo darmi pace. Per un giovane che nulla possiede come me, allinfuori del coraggio, e che ha quasi la certezza di arrivare primo, è un bel dispiacere. Al comitato feci valere le mie ragioni, dicendo che in Italia lo sport non è sviluppato abbastanza per poterlo fare di mestiere e che il denaro che presi a Barcellona fu una regalia del Municipio, come si è fatto con il vincitore della Maratona. Ma tutto fu inutile.

Mi venne lidea di sfidare il vincitore, ma i giornali di qui, non so per quale ragione, non registrarono questa mia sfida. Volevo stabilire un record di cento oppure duecento chilometri, ma il pensiero che uno fa quaranta chilometri e si piglia 25 mila lire e per di più conquista lalloro, quasi fosse un antico eroe, mi convinse che i miei cento o duecento chilometri sarebbero passati inosservati, come tutta la filastrocca di chilometri fatta per venire fino a qui.

Ora è necessario che io parta al più presto. Giacché ieri e oggi ho fatto molta fatica a trattenermi. Mi sentivo il prurito nelle mani e non posso tollerare più a lungo i sorrisi ironici di certi villani ai quali avrei voluto spesso far vedere, se non mavesse trattenuto il timore di passare per farabutto, che oltre a delle buone gambe possiedo anche due buone braccia. Dopo tutto mi consolo perché a piedi vidi lAustria, lUngheria, la Croazia, lErzegovina, la Dalmazia e la Grecia. La bella Grecia che lascia in me un ricordo indelebile.

Firmai la lettera e la guardai. In un mondo ideale, i miei compagni di avventura mi sarebbero venuti a prendere ad Atene. Lo Zanaboni, lOrtegue, il Bertarelli, il console di Ragusa. Persino Adele. Sarebbero arrivati per consolarmi, sorreggermi e riportarmi in Italia da vincitore quale ero. Ma questo non è un romanzo davventura, è stata una parte della mia vita che ho dovuto accettare e con cui ho dovuto convivere.

Non volevo tornare a Milano. Speravo che quei soldi non arrivassero mai. Ormai con il Lovati eravamo buoni amici e mi avrebbe aiutato a trovare un lavoro ad Atene. Forse nei campi, o nelle fabbriche anche lì, prima o poi, sarebbero arrivate.

La verità era che avevo paura di tornare in Italia da sconfitto. Preferivo pensare che mi sarei svegliato da un brutto sogno. Quello di un semplice operaio che non avrebbe mai cambiato la propria vita, che non avrebbe conquistato la sua Adele. Senza una vera vittoria lei non avrebbe mai rinunciato al matrimonio che le aveva combinato il padre.

Probabilmente è per questo che, da allora, non so più cosa voglia dire sognare di notte. Da oltre trenta anni dormo senza più immaginare nulla.

Chiusi la lettera in una busta e la consegnai a Lovati. Si impegnò a spedirla subito al giornale La bicicletta. Anche lui aveva qualcosa per me: erano arrivati i soldi da parte del Biggini. Non avevo più scuse.

Insieme alla busta, però, trovai anche un biglietto. Un semplice foglio di carta, e una scritta che non dimenticherò mai.

Ti aspetto, Adele.

Passo le notti come di fronte a un muro nero, lo confermo. Ma posso dire con serenità che non ho mai smesso di credere nei sogni. Mi hanno reso luomo che sono oggi, con una moglie che amo. Sogni che mi hanno permesso di crescere i miei figli, con speranza e passione, al di là delle sconfitte e delle vittorie. Sogni senza i quali non sarei tornato a Milano, fiero di me stesso e con la voglia di ricevere un altro bacio.