Capitolo 19

 

 

Ci scrive, il regio Console dItalia in Ragusa. Pregiomi informare che il valente corridore signor Carlo Airoldi è giunto in Ragusa proveniente da Spalato in buone condizioni di salute, salvo una lacerazione alla mano destra.

Questo scrisse il console italiano a Ragusa, Alberto Monti, al direttore della Bicicletta.

Avevo fallito.

Fu lui a scrivere alla redazione perché io dormii per due giorni. Senza forze e con la fronte che scottava come una pentola sul fuoco, non avevo più energie per fare nulla. Non ebbi nemmeno la forza di prendere in mano carta e penna. Mi misero in una camera dalbergo e dormii per due interi giorni e una notte.

Mi svegliai di sera. Non ricordavo allinizio dove fossi, poi capii e chiesi subito un incontro con il console Monti. Mi ricevette nonostante lora tarda. Non dissi niente di quello che era accaduto. Dei lupi, di essermi perso, e soprattutto di aver avuto paura. Non volevo compassione. Fu lui a dirmi che era già il 22 marzo. Avevo perso quasi una settimana sulla tabella di marcia.

Ero in ritardo e i giochi sarebbero iniziati a giorni. Le sorprese, però, non erano finite.

Volevo ripartire il prima possibile. Avevo percorso già mille e trecento chilometri. Me ne mancavano quasi settecento. Ero senza soldi, avevo perso tutto durante lultima disperata corsa. Con me non avevo più nulla e proseguire il mio viaggio sarebbe stato alquanto difficile. E poi dovevo ancora attraversare lAlbania.

Il mio stato danimo era messo peggio delle mie scarpe. Ero ancora convinto di poter arrivare ad Atene, anche se, dopo lavventura con i lupi, una certa paura del nulla che avrei dovuto affrontare mi stava lentamente conquistando. Ma non potevo darlo a vedere.

Eppure il console dItalia in Ragusa, nonostante i miei ingenui mascheramenti, notò questa mia debolezza, tanto da scriverlo alla redazione. Egli è altresì alquanto abbattuto e ciò a causa del fatto che durante due notti non poté ottenere ospitalità in veruna casa e dovette, con la rigida temperatura, riposare in aperta campagna.

Furono in molti al consolato a voler conoscere qualcosa del mio viaggio. Avevano fiducia in me. Sapevano delle Olimpiadi e quando spiegavo loro la mia intenzione di rappresentare lItalia, il loro sguardo si accendeva di una luce particolare. Era quella luce che mi convinceva a non desistere, a cercare una soluzione.

Come se non bastasse, però, chiunque incontrassi mi diceva dellAlbania, che avrebbe pregato per me e per il mio viaggio. Altri invece tentarono di sconsigliarmi di proseguire, se volevo ancora vincere o partecipare ad altre gare. O semplicemente continuare ad avere una vita.

A trovare una soluzione, che io disprezzavo con tutto me stesso, fu proprio il Console. Proseguirete per piroscafo e salterete tutte quelle regioni inospitali. In questo modo recupererete anche giorni sulla tabella di marcia.

Per piroscafo. Con quale soddisfazione mi sembrava che quel politico sottolineasse il mio fallimento. Quella decisione non era semplice da prendere e qualsiasi commento mi innervosiva.

  Carlo, lo dico solo per il Vostro bene, aggiunse.

Ma io non avevo la forza di rispondergli che dallalto del suo elegante vestito poteva anche prenderselo lui il piroscafo. Magari proprio su quei denti che mi sembravano mostrassero un sorriso falso e tronfio del mio fallimento. Nella realtà, quel nobile stava solo cercando di aiutarmi, il resto era tutto nelle mie mani. Lui non aveva nessuna colpa; lo sapevo ed era comunque difficile da digerire.

Una serie di immagini si susseguivano nella mia mente: piante, alberi, spiagge, albe, tramonti, Atene, la Maratona, Filippide. E poi? Milano, Gorgonzola, Brescia, Verona, Vicenza, Treviso, Trieste, Fiume, Segna, Carlobago, Zara, Spalato, Malfi e infine Ragusa. Tutto inutile. Non avevo mai ceduto di fronte a nulla. Avevo sempre ottenuto quello che volevo.

Non in quel viaggio.

La mia reticenza ad accettare non era data dalla sicurezza di poter fare qualsiasi cosa volessi con il semplice uso della volontà. Era data dallorgoglio, dal non voler accettare di trovarsi di fronte a una sconfitta.

Eppure la scelta era semplice. Dovevo attraversare lAlbania priva di strade, dove i briganti non si fanno tanti problemi a usare il coltello? Oppure proseguire con il piroscafo, arrivare a destinazione e rappresentare la mia nazione? Nel primo caso non so se sarei mai arrivato in Grecia vivo. A cosa sarebbe servito un sacrificio di questo tipo? Per orgoglio?

Era come scegliere se rinunciare allo zucchero nellarmadietto o mangiare il dolce a tavola. Ma per mangiare la torta avrei dovuto prima pulire la stalla. Il boccone era amaro e indigesto. Lorgoglio andava messo da parte. Dovevo accettare, ero costretto.

LAiroldi, scrisse il console, proseguirà lunedì notte per piroscafo sino a Patrasso, donde a piedi per Atene.

Ero ancora vivo solo per volontà del destino, che ancora ringrazio e non comprendo. Lo scoramento per quella decisione era alto. Come grande era il desiderio che in Italia non si fosse persa la fiducia in me, nelle mie capacità e nel fatto che avrei vinto la Maratona. Pensavo ad Adele, sperando che ancora credesse in me, immaginando che tenesse da parte i ritagli di giornale che parlavano della mia impresa. Come aveva fatto con il disegno che aveva perso alla fabbrica del padre.

DallItalia non venni abbandonato. Al mio rientro, un mese più tardi, venni a sapere che il direttore de La Bicicletta, in seguito alla missiva del Console, aveva pubblicato parole che andavano al di là di un rapporto di lavoro: Se lAiroldi ha dovuto interrompere la propria marcia, è stato soltanto per la gravità dei pericoli che gli si presentavano: dalle regioni inospitali della Dalmazia, egli sarebbe dovuto passare per quelle selvagge dellAlbania, prive di strade praticabili e piene di briganti. Territori impossibili da attraversare se non scortati da persone armate. Lì i briganti ammazzano per dieci soldi e un paio di scarpe fruste. Il buono e ingenuo Airoldi saprà tuttavia raggiungere la meta. La sua forza di volontà, che ha ceduto solo davanti allimpossibile, si affermerà specialmente nella grande corsa pedestre MaratonaAtene, nella quale vuol far rifulgere i colori dellItalia.

La lettera concludeva con lassicurazione che mi sarebbero stati spediti dei soldi per proseguire il viaggio, ma purtroppo quei denari non arrivarono mai. O forse non arrivarono in tempo.

Proseguii comunque per Atene, grazie a un sostegno economico di un nobile, il conte Sanminiatelli, figlio del Regio Ministro dItalia nel Montenegro. Egli si appassionò a tal punto della mia avventura e della mia causa, che si impegnò a sostenermi per la prosecuzione del mio viaggio. Grazie a lui riuscii a prendere il biglietto per salire sul piroscafo e ad avere un piccolo sostentamento per i giorni a venire. Non vi trovai secondi fini nella sua benevolenza. Certo per il conte non erano che poche lire, ma la mia opinione sui nobili avari e insensibili alle cause dei poveri, cambiò grazie a lui. Se tutti i ricchi fossero come il Sanminiatelli, pensai, cesserebbero tutti gli asti contro chi è benestante.

Salii sul piroscafo allo scoccare della mezzanotte compresa tra il 23 e il 24 marzo. Ero fermo a Ragusa da due giorni e non vedevo lora di ripartire. Atene mi aspettava. Si chiamava Tebe, il piroscafo, come la più importante città dellEgitto. Viaggiai in terza classe e anche lì soffrii il freddo, ma era poca cosa in confronto alle notti passate sotto la luna.

Facemmo tappa a Corfu il 26 marzo, poi ripartimmo per Patrasso su un battello a vapore. Passai tutto il tempo sul pontile, in attesa di toccare la terraferma, impaziente di riprendere la mia corsa alla volta di Atene.

Dal ponte del battello guardavo le terre desolate della Dalmazia. Era impossibile credere che potessero essere tanto pericolose, da tanto erano belle.