Capitolo 17

 

 

Da Fiume per tutta la costa mi mossi tranquillamente, senza particolari pericoli. Bastava tenere ben presente lodore del mare.

Lunico inconveniente fu che, per quattro giorni, fui costretto a mangiare e dormire improvvisando dei ripari molto instabili. Non trovai ospitalità da nessuna parte. Nessuno sapeva chi fossi e la gente che incontravo, oltre ad avere paura più di me, non parlava che slavo.

Fui costretto a dormire alladdiaccio, come potevo, avvolto in una piccola coperta e con in mano il coltello datomi dal Bertarelli. Non lo ringraziai mai per quel dono. Anche se, ormai, importavano poco i ringraziamenti: quel coltello mi dava una sensazione di maggior sicurezza per quel che stavo affrontando e me lo tenevo ben saldo.

Una notte dovetti usarlo per cacciare un lupo. Mi si avvicinò mentre dormivo e quando mi svegliai, iniziò a ringhiare. Non cera nessuno che mi potesse aiutare. Presi il coltello e provai ad aggredirlo prima io. Lo feci scappare. Il cuore mi batteva talmente forte che non riuscii più a dormire. Mi sembrava di averlo mandato via con troppa facilità e che, prima o poi, me lo sarei ritrovato davanti nuovamente.

La notte faceva freddo e dopo quellincontro iniziai a cercare ripari che non fossero solo la mia coperta. Sarebbe stato meglio trovare qualche fienile. E così fu: la notte seguente ne trovai uno e lo utilizzai di nascosto senza chiedere nulla ai proprietari. Per il resto cercavo di evitare villaggi deserti o singole carovane. Le storie che mi avevano raccontato sugli slavi, che ammazzavano anche per prendere solo un paio di scarpe, avevano la meglio sulla fiducia che potevo riporre nelle persone.

Lunica consolazione arrivava di giorno: non pioveva e il mare, le colline, le albe e i tramonti mi facevano rimanere senza parole. Lescursione termica era aumentata e si stava avvicinando la primavera. Qualche timido fiore stava già cercando di spuntare nei campi, ma solo vicino al mare. Appena mi allontanavo dal profumo di sale, riprendeva la desolazione.

Non avevo nessuno con cui parlare e, dopo tanto tempo da solo senza comunicare con qualcuno, la natura era diventa lunica amica. E nemica.

Nonostante gli inconvenienti e la costante fame, vi furono altri quattro giorni intensi, durante i quali correvo, pensavo, correvo. Correvo.

Perché corri? Carletto, ma sei pazzo a correre tanto, ma chi te lo fa fare?

In Italia, la gente me lo domandava spesso. Io non rispondevo, non mi interessava. Quando qualcuno fa una cosa in maniera convinta, la prima domanda che le persone si pongono non è se si è felici, ma perché si fa questa determinata cosa.

Perché corro? La risposta, pensai in quei giorni, era una sola. Non lo so. Dovevo vergognarmi a pensarlo? Perché si mangia? Perché un pittore dipinge e uno scrittore scrive? Si dia una risposta a queste domande e io dirò perché corro. Io corro, vado in bagno e mangio. Non dipingo, non scrivo, ma corro.

E il volto di Adele, naturalmente. Quello era un alimento in più, un carburante speciale per la mia volontà e le mie gambe.

Quei pensieri erano solo un modo per non pensare al mio reale problema. Avevo perso la cognizione del tempo, non sapevo che giorno fosse e nemmeno quanti chilometri avessi percorso. I piedi erano ormai pieni di fiacche. Il mio unico riferimento era il mare.

Poi qualcosa cambiò. Finalmente riuscii ad arrivare a Zara Vecchia e a scrivere alla redazione del giornale. Sicuramente il direttore era in pensiero non avendo mie nuove da tanti giorni. Era il 14 marzo:

Sono già quattro giorni che per economia mangio e dormo come posso, non come voglio, scrissi, tuttavia la salute non mi manca. Le fatiche mi rendono più leggero e nullaltro. Non ho scritto nulla da qualche tempo perché mi trovo da parecchi giorni al contatto con pochissime persone.

Lasciai la lettera al consolato, come al solito, che si impegnò a spedirla.

Ripartii subito per Spalato e per altre due notti fui costretto a dormire allaperto, con temperature che purtroppo erano diventate davvero rigide. Per fortuna la pioggia non aveva ripreso a cadere. Ero sempre più stanco, ma dovevo andare avanti.

Anche la terza notte non trovai nessun riparo. Avevo solo la mia coperta. Cercando di non allontanarmi troppo dal mare trovai una piccola rientranza nella roccia. Ma lumidità mi entrava nelle ossa. Per fortuna ero riuscito ad accendere un fuoco, incurante del pericolo che la luce potesse attrarre i briganti. Che venissero, pensai, meglio sopravvivere.

Non furono i briganti a presentarsi. Chi si fece rivedere fu il lupo. Sembrava lo stesso che avevo già mandato via qualche notte prima. Avrei potuto cacciarlo ancora, con il coltello. Ma non era solo. Era un branco. Come se si volesse vendicare dellaltra notte.

Non riuscivo a dormire e lo sentii ringhiare. Appena alzai il coltello, si fecero sentire anche gli altri lupi. Mi stavano circondando. Era lassalto del branco. Ne contai quattro, ma potevano essere di più. Non temevano nemmeno il fuoco acceso. Si avvicinavano sempre di più.

Strinsi il coltello e lentamente presi un bastone dalle fiamme. Dovevo difendermi come potevo. Li lasciai avvicinare, poi avrei cercato di spaventarli per farli fuggire ancora.

Quando furono a meno di tre metri dal mio giaciglio inizia a urlare e dimenarmi come un matto. Ma il risultato fu alquanto deludente. Continuavano ad avvicinarsi. Riuscivo a tenerli abbastanza lontani da me, ma appena ne allontanavo uno, un altro accorciava la distanza. Ormai erano troppo vicini: avevano paura del fuoco, ma la fame faceva passare qualsiasi timore anche a loro.

Uno dei lupi si avvicinò pronto ad assalirmi. Il mio bastone infuocato per poco non lo bruciò. Approfittando della mia distrazione, un altro lupo si prese la sacca delle provviste. Aggredii anche lui.

Quello che credo fosse il capobranco fece un balzo verso di me. Distinto mi difesi con il coltello. Più e più volte. Sentii la sua bava sulla mia bocca. Io ero a terra, lui era sopra di me, ma aveva smesso di ringhiare. Sentivo caldo sul viso, era il suo sangue. Gli avevo tagliato la gola. Un semplice colpo di fortuna.

Mi rialzai il prima possibile. Con le ultime forze buttai per terra il peso morto del lupo. Presi un altro bastone infuocato. Mi stavo bruciando la mano, ma non dovevo pensarci. Dimenai ancora il braccio che teneva il pezzo di legno. Gli altri tre lupi arretrarono sempre più fino a quando rientrarono nella foresta.

Buttai il bastone. Sentii subito tirare la pelle sulla mano. Cera una scottatura. Raccolsi le sacca distrutta con quel che rimaneva delle provviste e attizzai nuovamente il fuoco. Mi sedetti nellincavo della roccia. Le gambe mi tremavano: nonostante la lotta, però, non ero agitato come la prima volta che incontrai il lupo. Ero rassegnato.

Mi addormentai senza saperlo, sognando di essere sveglio, ormai mi capitava spesso. Passarono le ore e arrivò lalba. Sperai che fosse stata lultima notte senza un riparo. Non sarebbe servito a nessuno che non arrivassi ad Atene, o peggio che tornassi a Milano in una bara.

Non ricordo più quante notti passai a fiancheggiare la costa. Trovai ospitalità da qualche pescatore, ma non capivo nulla di quel che diceva e lui naturalmente non capiva me. Limportante era essere al riparo durante la notte.

Quella successiva rischiai di passarla ancora alladdiaccio. Non avevo trovato nessun pescatore o contadino. Non volevo lasciare la costa e correre il rischio di perdermi.

Il barattolo di zucchero sembrava essere sempre più lontano. La sedia era crollata. Ero a terra, da solo, e non sapevo cosa fare.

Corsi a perdifiato seguendo solo lodore del mare. Non sapevo cosa avrei fatto, né dove sarei andato. Pregai di trovare qualcuno, qualcosa. Sicuramente non mi sarei fermato ancora allaperto, senza difese.

Il sole era calato. Le fievoli luci della sera stavano lasciando il posto al nero della notte senza stelle. Correvo, correvo, correvo. Questa volta non per vivere, ma per sopravvivere. Ormai era quasi buio, eppure non volevo fermarmi. Non mancavano che un paio dore al calar completo del sole e, senza esitare, decisi di correre ancora più veloce. Non potevo rimanere molto tempo nello stesso posto. Le soste per riposare erano brevissime.

Sei solo un operaio. Quella frase mi assillava riecheggiando in ogni momento nella mia testa. Non riuscivo a cacciarla. Dovevo correre.

Il mio unico lieto pensiero, quello che non mi faceva addormentare quando mi fermavo, era Adele, il suo bacio, la sua fiducia, il ricordo di quel ritaglio di giornale che aveva conservato per ricordarsi di me.

Mi sentii al sicuro solo quando vidi le luci delle case di una grande città. Scoprii poi che ero arrivato a Ragusa.

Cercando di farmi capire come potevo, trovai la sede del consolato italiano. Prima di qualsiasi cosa chiesi carta e penna: da giorni in Italia non avevano mie notizie e dovevo provvedere quanto prima. O sarei stato dato per disperso.

Il console mi guardava come fossi un cavernicolo. Per come ero conciato, tra sporcizia, barba lunga e ferite, era anche comprensibile.

Il luogo era semiselvaggio e se avessi avuto con me un revolver lavrei forse adoperato contro qualcuno che pareva animato da cattive intenzioni a mio riguardo, scrissi. Sono a Ragusa, dovrò cercare di riprendere le forze ma ormai più che metà del mio viaggio lho compiuto e 650 chilometri mi separano da Atene.

Non dissi niente delle disavventure con i lupi, delle notti, dei timori. Non volevo far preoccupare troppo chi aveva creduto in me. In quei giorni la paura, oltre a tenermi in vita, aveva dominato la mia razionalità. Aveva fatto del mio corpo un fascio di nervi costantemente in tensione. Ora volevo solo coricarmi, riposare, non pensare a nulla. Tutto legittimo. Ma commisi un unico errore: con la fronte che mi scottava, illudendomi di dormire solo qualche ora, non chiesi che giorno fosse.