Capitolo 5

 

 

Nel giro di un mese vinsi la mia prima gara. Era la Lecco-Milano, ma come al solito a essere festeggiato fu un altro. Era il 22 luglio, sempre del 1894. La partenza era fissata allalba, perché i corridori potessero trovare un po di brezza mattutina. Per me alzarmi presto non era un problema. Alla partenza nessuno mi riconobbe, daltronde come ricordarsi di un corridore piccolo e robusto che si era piazzato al quarantunesimo posto nemmeno un mese prima? Ma io li riconobbi tutti, anche il Diotti, il diciottenne che aveva vinto la MilanoCernobbio.

La Lecco-Milano era unaltra gara di cinquanta chilometri, esattamente come la precedente. Questa volta ero deciso a dare il massimo.

Al momento in cui i giudici avrebbero dovuto dare il via, mancava qualcuno. Aspettammo qualche minuto, poi venni a sapere che si aspettava tale Alfredo Reina, fino ad allora mai sentito. I minuti passavano, la tensione cresceva, ma lui non arrivava. Poi, finalmente, i giudici si decisero a dare il via.

Le salite e le discese erano molte, ma non mi affaticai particolarmente. Mi ero allenato molto in quelle settimane, soprattutto correndo per chilometri con grossi pesi sulle spalle.

Fin da subito non mollai nemmeno per un metro il Diotti. Era più giovane di me, ma non potevo farmi fregare unaltra volta. Ogni tanto uno di noi faceva uno scatto per distanziare laltro, ma subito si tornava a correre appaiati: se avessimo potuto farci lo sgambetto lun laltro lavremmo fatto.

A un certo punto smettemmo di lottare, tanto ormai avevamo distanziato il gruppo. Sapevamo di essere alla pari.

Cosa stiamo facendo? Mi chiese lui.

Non lo so Risposi pensando che il caldo gli avesse dato alla testa.

Sono stanco. Ma non posso arrendermi.

Nemmeno io.

Andiamo con calma e poi facciamo uno scatto finale. Il migliore vince.

Che proposta strana. Era la mia seconda gara e avrei dovuto trovare un compromesso? Non sapevo cosa fare. Le gambe mi facevano male. Lidea di avere un po di riposo, ovvero di correre senza la tensione e la paura di dover essere superato, mi tentava. Ma era giusto?

Allora?

Lorgoglio era più forte. Non risposi e feci uno scatto in avanti. Lo distanziai solo per qualche metro, poi rallentai per farmi raggiungere. Gli avevo fatto capire che non ci stavo, senza troppe parole. Lui mi si affiancò e mi sorrise, sembrava soddisfatto.

Chiunque altro avrebbe accettato. Addio.

Aumentò il passo e feci fatica a stargli dietro.

Giocavamo pensando di essere i primi, di potercelo permettere. Ma di fronte a noi, a pochi chilometri dallarrivo, vedemmo qualcun altro correre di buona lena. Diotti lo riconobbe subito, era il Rinaldi, il ragazzo con cui lottò per la vittoria della Milano-Cernobbio. Come se io non esistessi più, Diotti partì allinseguimento. Capii che lamicizia nata in quel piccolo tragitto era già saltata, in fondo non si possono fare accordi nello sport. O si dà il meglio di se stessi, tutto quello che si può, oppure si trova sempre qualcuno davanti, più veloce, più furbo, più bravo.

Non avrei accettato unaltra sconfitta. Ormai ne ero certo. Partii anche io allinseguimento del Diotti e del Rinaldi. Per i pochi chilometri che mancavano allarrivo viaggiammo tutte e tre appaiati, una volta avanti uno, una volta avanti laltro. La vista del traguardo a Gorla, un paese vicino a Milano, fu determinante. Misi tutto me stesso in quelle poche centinaia di metri. I due non riuscirono più a starmi dietro. Fu la mia prima vittoria in una gara importante.

La felicità venne subito spenta dalla delusione. I festeggiamenti non erano come mi aspettavano. Venni a sapere che tutti i presenti allarrivo erano in attesa di un altro corridore. Quel tale, Alfredo Reina, che non si era presentato alla partenza, era arrivato mezzora più tardi: aveva perso il treno per Lecco. Era rimasto a Olginate, il suo paese a oltre trenta chilometri di distanza da Lecco. Aveva quindi deciso di partecipare comunque alla gara arrivando di corsa. Alla partenza, nonostante noi fossimo già partiti da mezzora, lo registrarono comunque e lo fecero correre.

Allarrivo a Gorla non si parlava daltro che della sua impresa. Io passai in secondo piano, anche perché sembrava che Reina avesse rimontato diverse posizioni. Infatti, una manciata di minuti più tardi, tagliò il traguardo. Fu il quinto ad arrivare, ma lo trattarono come se fosse il vincitore. Sentii i giudici dire che gli avrebbero consegnato un premio speciale. Io, il vincitore, non fui nemmeno festeggiato.

Due giorni dopo lessi sul giornale che Reina aveva fatto un tratto di strada da Lecco a Milano, durante la gara, salendo su un treno e scendendo poco prima dellarrivo. Fu squalificato, ma i festeggiamenti per la mia vittoria non vennero certo ripetuti. Io rimasi il vincitore della corsa, ma non lo sapeva nessuno.

In fabbrica cercai di incontrare ancora Adele. Non veniva spesso, ma quando entrava per andare da suo padre cercavo sempre un modo per incrociarla. Qualche giorno dopo la gara, ancora con il ritaglio di giornale in una tasca, la fermai prima che risalisse sulla sua carrozza.

Sono Carlo le dissi semplicemente.

Lo so rispose lei.

Le presi una mano e le diedi il ritaglio del giornale che citava la mia vittoria alla Milano-Lecco. Lei lo prese e lo guardò.

Ne vincerò altre di gare. Per te.

Lei non disse nulla, ma allimprovviso mi diede un bacio sulla guancia. Poi fuggì sulla carrozza senza dire altro. Quel bacio fu il motore che mi spinse a trovare lenergia per affrontare tutte le avventure che seguirono.

Il 1894 non fu un grande anno. A settembre partecipai a unaltra gara. Avevo capito che le lunghe distanze e la resistenza fisica erano la mia dote principale. La Torino-Nizza Mare potevo vincerla, soprattutto adesso che avevo affinato la tecnica allenandomi con Rinaldi e Diotti, anche loro di Milano. Quella fu la mia prima gara come iscritto alla società sportiva La veloce: oltre duecento chilometri da percorrere in due giorni.

Era la prima volta che tentavo di uscire dallItalia. Il risultato non fu entusiasmante, non tanto perché persi la gara, quanto perché al traguardo non ci arrivai mai. Dopo una partenza fulminante, noi corridori di Milano eravamo in testa: avevamo lasciato tutti alle nostre spalle, dai numerosi atleti francesi agli altri corridori italiani, per lo più indipendenti.

La prima tappa si sarebbe dovuta concludere a Cuneo, dove i giudici avrebbero preso i tempi di tutti. Ma da quei giudici non ci arrivammo mai. Non so dove finimmo, né quando sbagliammo strada. So solo che ci trovammo di fronte a paesaggi stupendi, tra i quali non vi era nemmeno lombra di un sentiero. Scoprimmo poi che, su indicazione di un controllore di gara, prendemmo una strada sbagliata e finimmo in mezzo a campi sterminati.

Fummo costretti a ritirarci e accettare in silenzio di essere derisi una volta tornati a Milano. Anche questa gara fu per me importante: capii che la concentrazione era fondamentale. Me lo disse anche il Camaleonte, lo Zanaboni, lanziano che a momenti mi superava alla mia prima gara.

Non corri solo con le gambe, ragazzo.

Fu al mio rientro a Milano che lo trovai ad accogliermi. Mi venne incontro e mi strinse semplicemente la mano. A me come a Rinaldi e Diotti. Una stretta che mi riempì il cuore, più del premio che avrei vinto. Ai suoi occhi ero diventato un corridore.