Capitolo 7
Patelli arrivò fino alla penultima ultima tappa. Il suo entusiasmo andò calando negli ultimi giorni. Altri si erano già ritirati, eravamo rimasti in sette. Due settimane di corsa, quasi settanta chilometri al giorno. Un’impresa non da poco. L’Ortégue era sempre silenzioso, ma non riuscivo mai a scrollarmelo di dosso, mi era sempre vicino. Era sempre lì, attaccato a me come una di quelle zanzare notturne che d’estate ti fanno impazzire ronzando intorno all’orecchio. È vero che si doveva correre in gruppo fino a Figueras, ma lui mi stava alle calcagna, mi innervosiva. Sembrava quasi che mi prendesse in giro, che lo facesse apposta.
Il Patelli si ammalò prima di compiere l’ultimo tragitto. Fu costretto a ritirarsi. Per quanto fosse stanco, sapevamo tutti che non sarebbe riuscito più ad arrivare primo. Ormai, per lui, semplicemente arrivare sarebbe stata una grandissima soddisfazione. Non fu così, come purtroppo ho imparato a mie spese, la Storia non si fa con i “se”. Sono solo delle scuse che non ricorda nessuno. Che non interessano a nessuno.
Io non volevo un altro “se”: dovevo arrivare fino in fondo a quella gara.
Mi dolevano i piedi, erano gonfi e mi sembrava che mille chiodi mi pungessero ogni volta che toccavo terra. L’ultima sera, nella tenda preparata dall’organizzazione, cercai di massaggiarmeli: erano pieni di fiacche e vesciche. Ovunque toccassi saltavo per aria. Mi convinsi che era solo una scusa. Potevo farcela. Dovevo farcela. Quella gara sarebbe stata la mia impresa. Ne ero convinto.
Ma faceva male. Non sapevo cosa fare. Mia madre mi avrebbe curato. Mio padre, nonostante la sua insensata durezza da contadino, mi avrebbe suggerito cosa fare. Mi sentivo abbandonato e, per la prima volta, con la voglia di piangere. Volevo concludere quella gara, ma non sapevo se sarei riuscito ad arrivare al traguardo. Il “se” che non volevo dire, pensare o considerare, stava diventando troppo reale.
Seduto su una branda, mentre mi tenevo tra le mani il piede più martoriato dalle fiacche, qualcuno si inginocchiò davanti a me.
L’Ortégue mi porse un tubetto bianco. Sembrava quello del dentifricio, ma usciva una crema bianca, densa e profumata. Fece per spalmarla sul piede, ma io mi ritrassi. Non so perché lo feci. Orgoglio o paura, non so cosa mi prese, forse più l’orgoglio di accettare un aiuto. Ma lui non si adirò: insistette come farebbe chi ti vuole bene.
Non parlava italiano e io non parlavo francese. Con calma mi prese il piede. Questa volta non opposi resistenza e mi spalmò la crema sulle ferite. Fece lo stesso con l’altro piede. Li fasciò con due fazzoletti e mi aiutò a stendermi.
Non sorrise mai durante queste operazioni. Quando finì se ne andò. Io ero disorientato. Ero stato aiutato senza richiesta. Sostenuto senza incitamento. Supportato senza nessun ritorno da parte sua. Anzi, ero un avversario da battere. Eppure aveva pensato a me. Non so cosa mi abbia messo sui piedi, poteva essere anche veleno. Ma stava già facendo il suo effetto. Il bruciore stava lentamente sparendo, mentre le mie palpebre diventavano sempre più pesanti.
La mattina dopo feci fatica a svegliarmi. All’alba erano già tutti pronti, non c’era nessuno nella tenda. Stavano tutti facendo riscaldamento fuori dal dormitorio. Appena alzato non pensai più al dolore e mi accorsi solo dopo qualche passo che i piedi non mi facevano più male. Decisi di infilarmi le scarpe senza togliere i fazzoletti che mi fasciavano i piedi. Uscii dalla tenda e incrociai subito lo sguardo del francese. Gli sorrisi in maniera goffa, come sa fare solo un burbero non abituato alle attenzioni gratuite. Lui distolse lo sguardo.
Il sole si era appena alzato all’orizzonte e la brezza di settembre era piacevole da sentire sulla pelle. Da Figueras, ultimo tratto di gara, partimmo in sei. Non c’era più l’obbligo di correre in gruppo. Da quel momento ognuno faceva per sé.
Io, finalmente, potei aprire il mio pacchettino, custodito per due settimane legato alla cintola. Misi la maglietta con i colori dell’Italia: volevo arrivare al traguardo indossando quella camicia tricolore. Era un dovere.
Alla partenza eravamo con i nervi tesi, tutti pronti ad aspettare lo sparo di un giudice di gara. Partenza in piedi, come sempre. E Louis Ortégue di fianco a me. Determinato, concentrato. Era ancora lì. Ma sempre con quel sorriso che trovavo insopportabile, nonostante l’aiuto datomi. Sembrava solo un po’ più beffardo. Aveva una grinta invidiabile. Voleva vincere. Gli altri concorrenti non mi impensierivano: a loro sarebbe bastato arrivare al traguardo. Si vedeva dai loro occhi, spenti, stanchi, rassegnati.
Dovevamo compiere oltre centotrenta chilometri entro le 22.40 di quella sera. L’arrivo era previsto al monumento dedicato a Cristoforo Colombo, a Barcellona, situato alla fine delle Ramblas, la storica via centrale della città, davanti al porto di Barcellona.
Per tutta la gara Ortégue cercò di distanziarmi. Continuava a fare piccoli e veloci scatti che avevano l’obiettivo di farlo arrivare da solo alla meta. Non potevo permetterglielo. Gli stetti incollato come una mosca. Non ci rivolgemmo nemmeno una parola, nemmeno un insulto, bastava guardarci negli occhi. Se pensava che, grazie all’aiuto che mi aveva dato, lo avessi lasciato vincere, si sbagliava di grosso.
Lui era sempre lì, accanto a me. Io accanto a lui. I piedi iniziarono a farmi male, sentivo le fiacche pulsare. Ma non dovevo ascoltarle. La medicazione dell’Ortégue aveva retto fino a quel momento. Dovevo resistere o non sarebbe servito a nulla mollare adesso un’impresa del genere.
A poche centinaia di metri dall’ingresso di Barcellona, avevamo staccato tutti gli altri e gareggiavamo appaiati, pronti a superarci l’un l’altro. Avanti io. Avanti lui. Avanti io. Avanti lui. La folla ai lati della strada ci incitava a proseguire. Le persone diventavano sempre più numerose quanto più ci avvicinavamo al centro della città.
A un certo punto mi ritrovai a correre da solo, esattamente come con Zanaboni nella prima gara, ma questa volta non ero terz’ultimo, bensì il primo. Ero al colmo della felicità, finalmente avevo trovato nella mia corsa quel tocco in più che mi rendeva unico.
Ma qualcosa non andava. La folla ai lati della strada si era d’improvviso zittita.
Mi girai e vidi Louis, fermo, dolorante, che trascinava una gamba.
– Cosa fai? – Gli urlai esasperato.
Non mi rispose, lo vidi solo accasciarsi al suolo. Anche a lui, in quel momento, avrei tirato volentieri un pugno. Non potevo vincere in quella maniera, per abbandono. Soprattutto non dopo le attenzioni che lui aveva avuto per me la sera prima.
– Muoviti, manca poco, non voglio vincere così, – gli dissi con la folla che mi osservava, molto probabilmente non capendo cosa dicessi. Anche lui, come già sapevo, non capiva. Ma almeno avrebbe sentito la determinazione nella mia voce. Non volevo che mollasse.
Si limitò a guardarmi per un attimo, poi il dolore lo costrinse ad abbassare lo sguardo. E capii subito cosa gli fosse successo.
I crampi. Erano i maledetti crampi. Quelli per cui non esiste alcun rimedio. Ti distruggono, ti abbattono. Non lasciano segni come le fiacche. Ma ti pungono, ti piegano fino a farti sentire il muscolo che si contorce e non obbedisce alla tua volontà. Erano l’incubo di ogni corridore.
Me ne andai. Proseguii la mia corsa. Non potevo fare nient’altro. Quando mi girai, vidi che Louis si asciugava una lacrima. E questa volta non era per il dolore dovuto ai crampi. Con un pugno picchiò il terreno con rabbia. Voleva lottare, ma non sapeva come.
Cosa successe dopo? Ottenni la più bella vittoria della mia vita. Fanfare, cibo, acqua, centinaia di persone a festeggiare. Mi presero persino sulle spalle per aver compiuto un’impresa di quella portata. Erano tutti per noi: quando ci videro arrivare insieme al traguardo, ci fu un’ovazione.
Non dimenticherò mai quei momenti. Dopo che ero ripartito lasciando Louis a terra, non ero soddisfatto. Mi mancava qualcosa. Gli altri corridori erano ancora molto distanti. Ma presto avrebbero raggiunto e superato il francese. Mi ritrovai a rallentare la mia andatura, fino a fermarmi. E ben presto mi accorsi che stavo correndo nella direzione opposta al traguardo. Stavo tornando indietro.
Mi fermai solo di fronte all’Ortégue, ancora nella stessa posizione di prima ma a lato della strada. Mi guardava con la stessa espressione che forse avevo avuto io la sera prima, quando lui mi mise la medicazione.
Lo presi per un braccio e senza dare retta alle sue resistenze mi caricai Louis sulle spalle. Lui cercò timidamente di liberarsi dalla mia presa. Ma le mie braccia erano il doppio delle sue e, nonostante la stanchezza, avevo ancora molto da dare in fatto di forza. Ben presto si arrese a quella condizione e io iniziai a correre.
Non sarebbe stato giusto lasciarlo lì dopo tutto quello che aveva fatto. Meritava di arrivare al traguardo, mancavano solo poche centinaia di metri.
Mi accorsi solo alla fine che non pensai più nemmeno al dolore provocato dalle fiacche. Era temporaneamente sparito, come per magia.
I giornali di allora scrissero che le sue condizioni furono dovute ai continui scatti con cui tentò di distanziarmi e che io ero ancora “fresco come una rosa”. Dopo quasi centotrenta chilometri e oltre venti ore di corsa in una giornata, il termine “fresco come una rosa” è alquanto relativo.
All’arrivo superai lo striscione nel silenzio generale. Mi sarei aspettato un’ovazione. C’era tantissima gente, ma nessuno capiva cosa fosse successo. Fui costretto a urlare più volte alla folla e ai giudici.
– Il primo sono io, il secondo è questo qui che ho in spalla.
Appoggiai con delicatezza Louis al terreno. Controllai con uno sguardo che stesse bene. Lui, prima che lo lasciassi, mi strinse un braccio e mi ringraziò con lo sguardo. Aveva gli occhi rossi, ma li distolse prima di far scendere qualche lacrima. Volevo dirgli che non lo avevo fatto per me, ma per entrambi. Lui si meritava quella vittoria quanto me. Un crampo dopo due settimane di corsa ininterrotta non è questione di allenamento o bravura. È semplice sfortuna.
Un giudice si avvicinò. Mi guardò quando mi rialzai da terra. Disse qualcosa in francese e solo in quel momento la folla esplose in un boato. Avevo vinto. E indossavo anche la mia maglietta tricolore.
Le persone si avvicinavano per stringermi la mano. Poi mi presero e mi sollevarono sulle loro spalle. Con me anche l’Ortégue. Ci portarono in giro per le strade della città. Era diventato un giorno di festa tutto per noi. Consoli, giornalisti, banda musicale: tutto per i vincitori della Milano-Nizza-Barcellona.
In piazza, di fronte al monumento dedicato a Cristoforo Colombo, sventolavano tre bandiere: quella italiana, quella francese e quella spagnola.
Pensai che anche quella volta non avevo vinto, non era una vittoria tutta mia. Dovevo ancora condividere la gloria con qualcun altro. Solo oggi, in questa camera di ospedale, posso dire con serenità che quell’impresa è la vittoria che più mi porto nel cuore. Nonostante sia stata la mia croce, l’inizio di tutto il dramma che ne è seguito, oggi non mi pento di nulla di quel che ho fatto. Lo rifarei ancora. Sempre.
Dopo i festeggiamenti la Città di Barcellona destinò 500 Pesetas per me, il vincitore della gara. Io e Louis facemmo a metà del premio. Quei soldi ci servirono per pagarci il viaggio di ritorno a casa. Pronto a tornare da Adele, senza sapere che il padre aveva ufficializzato il fidanzamento con il figlio di un altro imprenditore milanese.