Capitolo 10

 

 

Il Camaleonte aveva ragione. Con il suo modo allusivo, mi aveva fatto venire una grande idea. O forse, adesso che sono quasi arrivato alletà che aveva lui a quel tempo, credo che quellidea lavesse avuta lui prima di me. Non gli ho mai detto grazie. E questo è uno dei miei più grandi rimpianti.

Andare ad Atene a piedi sarebbe stata la carta vincente. Un obiettivo, una meta, unavventura, unimpresa che avrei dovuto compiere. Tutti ne avrebbero parlato.

Questa sì che sarebbe stata una notizia per i giornali, specialmente se poi, come pensavo, avrei vinto anche la Maratona. Una soluzione nata non solo dalla spettacolarità delliniziativa, ma anche dallesigenza della situazione.

Sono sempre stato povero, non ho mai messo via i soldi che guadagnavo perché bastavano a malapena per far mangiare la famiglia. I lavori che facevo ogni tanto a Milano mi bastavano per guadagnare quel tanto che serviva per vivere. Il resto arrivava dalle scommesse. Se vincevo mandavo tutto ai miei genitori: vivevano ancora in campagna, stavano pagando larrivo della crisi dovuta a unera industriale che stava avvolgendo tutta la campagna milanese.

Era la fine dellOttocento, si scommetteva su tutto. La gente voleva vedere sfide o imprese sempre più spettacolari. Avevo la grande capacità di leggere le abitudini delle persone prima che queste diventassero troppo vecchie. Sapevo benissimo che andare avanti a farsi spaccare file di mattoni sul petto, come provai a fare con risultati devastanti per la mia respirazione, sarebbe presto stata una semplice etichetta, una rovina, e non solo per la mia salute. Avevo anche il dono della resistenza fisica, ma non volevo diventare un fenomeno da baraccone.

Andai così a presentare la mia idea a diversi giornali di Milano. Al Corriere della Sera nemmeno mi fecero parlare con il direttore. Provai allora ad abbassare le mie aspettative, andando nella sede milanese di un giornale sportivo appena nato, che pubblicava tre volte a settimana, il martedì, il giovedì e il sabato.

Era il 27 febbraio del 1896 e quel giornale si chiamava La bicicletta. Ad aspettarmi nella tipografia dove si stampavano le pagine del giornale, vi era il direttore, Giovanni Biggini.

Ebbene? Mi esortò una volta entrato nellufficio. Oltre a lui che controllava un foglio appena stampato, vi erano al lavoro altre persone. Per loro ero un fantasma, nessuno mi degnava di uno sguardo, un saluto.

Giovanotto!

Il Biggini mi stava fissando. Ero sicuramente un ragazzo spavaldo, che reagiva malamente quando si trovava in difficoltà. Ma dovevo trovare le parole giuste per esprimere la mia idea. E le trovai.

Sono Carlo Airoldi, gli dissi. Sono il vincitore della corsa pedestre di mille chilometri TorinoBarcellona.

Ero deciso a non farmi sbattere la porta in faccia unaltra volta. Non da quelluomo piccolo e tozzo, sporco di inchiostro dappertutto. Aveva uno sguardo deciso, ma non dovevo farmi intimorire o mettere alla porta unaltra volta: nessuna società sportiva  mi aveva voluto come suo rappresentante, non potevo perdere loccasione di farmi ascoltare ora.

 

Ero pronto a dare battaglia. Lui, invece, sembrava molto incuriosito, soprattutto dalla mia figura, simile alla sua, minuta e tarchiata. Pareva divertito.

E cosa desiderate? Mi chiese.

Il sasso era lanciato, pensai. Non potevo più tornare indietro. Ero entrato in quella tipografia con una ferma intenzione. Nonostante mi sembrava comunque di chiedere lelemosina, sostenni il suo sguardo.

Voglio recarmi ad Atene, ai giochi Olimpici, e partecipare alla grande corsa pedestre.

La Maratona?

Conosceva quella gara. Non dovevo spiegare ulteriormente cosa fosse. Lo sapeva già. Dovevo saltare quella parte del discorso che mi ero preparato e andare subito al dunque.

Sì. Intendo inoltre recarmi nella capitale greca a piedi, passando per lAustria e la Turchia.

Vi fu un momento di silenzio interminabile. Come quando da piccolo sapevo che sarei stato interrogato dal maestro. Sei lì immobile, fai finta di guardare il libro, ma sai che il maestro sta pensando Airoldi adesso ti frego. Un lungo momento in cui il mondo si ferma: le guerre, le litigate, la minestra calda che ti aspetta a casa. Niente, non esiste più niente. Solo quella decisione.

Lidea è audace.

Fu la sentenza del Biggini. Lo disse pulendosi sul grembiule le mani sporche di inchiostro. Senza alcun risultato apparente.

Ero stato chiamato per essere interrogato. Dovevo giocarmela.

Sono duemila chilometri che voglio percorrere in un mese. Sfido ufficialmente qualunque corridore o cavallo. Anzi, posso arrivare prima di chiunque altro, con almeno 24 ore di anticipo sul secondo.

Un altro silenzio: il voto. Sai che hai sparato un mucchio di frasi insensate. Frasi senza né capo né coda. Hai detto più di quel che sapevi. Ma pensi di averlo detto bene, di aver mostrato di crederci veramente. Ormai è fatta, hai lanciato il sasso nello stagno, non puoi correggere la perfezione dei cerchi dacqua che hai formato.

E il mio giornale in cosa può esservi utile?

Ad aiutarmi a compiere il percorso, coprendo le spese necessarie. Io, in cambio, vi manderò delle lettere sul viaggio che voi potrete pubblicare a vostro piacimento.

Pubblicità. Che grande invenzione. Un baratto: soldi in cambio della tua follia. Come vendere lanima al diavolo.

Il direttore si toccò nuovamente la barba, ancora con le mani sporche di inchiostro. Non mi guardava più. Pensava. Troppo. Ma non era un brutto segno.

Sapete leggere e scrivere?

Ancora domande. La situazione diventava insostenibile.

Presi un pezzo di carta dal tavolo vicino, poi agguantai la penna dal taschino del suo grembiule e immersi il pennino in un boccia di vetro piena di inchiostro nero.

Scrissi un CERTO a caratteri cubitali e gli porsi il foglio.

Non poteva dirmi di no. Era nelle mie mani. Lui osservò il biglietto e mi guardò ancora.

Conoscete la strada e le lingue?

Io no, risposi con naturalezza. So appena appena parlare il milanese.

La perfezione del cerchio era sfumata, ma non potevo mollare. Sostenni il suo sguardo.

Un altro silenzio. Rigirò a lungo il foglio tra le mani. Poi mi guardò e sorrise.

Al diavolo. Accetto.

Accetto. Cosa voleva dire accetto? Sì, va bene, ci sto, sono con voi Airoldi, vi finanzio, la strada è vostra. Quella parola voleva dire una cosa sola: le Olimpiadi sarebbero iniziate entro un mese e io sarei stato in Grecia in tempo per vincere la Maratona.

Avrei voluto baciare e abbracciare quel piccolo uomo, ma sarei passato per pazzo. Mi limitai a ringraziarlo stringendogli la mano. Anche la mia divenne nera di inchiostro, ma non me ne importava nulla.

Come si chiama? Mi chiese allimprovviso quel direttore.

Io non capii e lo guardai stranito, ma lui aveva già capito tutto: Avanti, ditemi, dietro ogni follia di  un un uomo c’è sempre una donna.

Gli dissi di Adele, che male cera? Lui sorrise e confermò di volermi aiutare.

Mia moglie è morta da poco, mi disse. E so per certo che se non vi aiutassi a conquistare il vostro amore, mi tormenterebbe tutte le notti, in eterno.

Quella notte non dormii dalla gioia. A breve sarei dovuto partire alla volta di Atene per un viaggio che mi avrebbe fatto letteralmente entrare nella Storia. Quello che stavo cercando da anni. La conquista giusta perché nessuno mi considerasse più solo un operaio.

Ma non mancarono gli inconvenienti.

Non feci i conti con la burocrazia, una realtà che ha i suoi tempi e lattesa per il passaporto mi fece rimanere fermo per diversi giorni. Fosse stato per me, sarei partito il giorno successivo allincontro con il direttore Biggini, ma dovetti aspettare. La data di inizio delle Olimpiadi, il 10 aprile, si avvicinava terribilmente. E io non potevo fare nulla, se non aspettare e perdere giorni importanti.

Nel frattempo i miei pensieri andavano allaccoglienza che avrei potuto ricevere ad Atene. Ma non solo: pensavo anche alla mia vittoria in una gara di quella portata. Vittoria che avrebbe avuto uneco ancora maggiore una volta resa nota limpresa dei duemila chilometri percorsi a piedi.

In un altro modo non si poteva fare: non avevo soldi per il viaggio, quella fu lunica soluzione per avere la mia grande occasione.

In quei giorni La bicicletta pubblicò veramente la mia sfida a uomini o cavalli. Ci fu tutto il tempo perché la proposta facesse il giro di Milano. Intanto, per me furono giorni di attesa, giorni di pensieri e riflessioni. Il sogno si realizzava. Atene era alla portata delle mie gambe. Ma adesso dovevo compiere quei duemila chilometri. Non avrei avuto tappe intermedie con punti ristoro garantiti, non avrei avuto concorrenti con cui chiacchierare o litigare. Non avrei avuto nessuno.

Lo dissi a Zanaboni quando lo vidi nella sede della Veloce. Si limitò a sorridere. Io non lo ringraziai. In fondo, da piccolo presuntuoso quale ero, pensavo che lui non avesse fatto nulla.

Con il passare dei giorni, la paura che mi assalì fu unaltra. Quella di non aver dato vita a unimpresa, bensì a una follia.