Capitolo 16

 

 

Ero fermo. Davanti a me il nulla. Avevo appena aperto la mappa che mi aveva dato il Bertarelli. Cercavo di capire cosa avrei trovato di fronte a me. Segui sempre lodore del mare una frase che stavo tenendo sempre presente, senza la quale chissà dove sarei finito. La mappa che avevo di fronte, però, mi diceva poco altro.

Passato il confine, aveva finalmente smesso di piovere, ma come in tutte le avventure che si rispettino, le difficoltà aumentarono. Partito da Trieste di prima mattina, i settanta chilometri che mi separavano da Fiume si apprestavano a essere i più faticosi fino a quel momento.

La temperatura era diventata mite, e quindi più accettabile soprattutto qualche ora prima del levar del sole, orario a me propizio per una buona corsa. Ma la strada era caratterizzata da ripide salite e improvvise discese. Una condizione che spezzerebbe il fiato agli atleti di qualsiasi levatura.

Vedendo il tempo migliorare e la pioggia darmi una tregua, pensai ingenuamente che il peggio fosse passato e che nei giorni a venire sarebbe stato tutto più semplice. Avevo percorso in otto giorni oltre cinquecento chilometri, una media di sessanta al giorno. Considerando che ero stato costretto a fermarmi un giorno a Trieste per il passaporto, i numeri mi consolavano. Avevo fatto un bel po di strada.

Ripiegai la mappa e la misi nella sacca. Diedi un morso alla forma di pane, ormai secco, che mi portavo appreso e ricominciai a muovermi camminando.

Ogni tanto facevo qualche piccola corsa. Per non sentire la fatica, pensavo ad altro, ad Adele e al suo bacio. Dovevo cacciare dalla mia mente i molti dubbi sulla mia possibile vittoria. Non ero più così certo di vincere e soprattutto non conoscevo gli altri atleti che avrebbero partecipato alla Maratona. I dubbi mi vennero anche su Adele: e se avessi immaginato tutto? Se non cerano davvero state quelle attenzioni, quegli sguardi? Se non era lei che mi era venuta a salutare alla partenza da Milano?

E se ad Atene gli altri partecipanti alla Maratona fossero stati più bravi, più forti e più motivati di quanto lo fossi io?

LItalia era ormai alle mie spalle. Davanti avevo i Balcani, desolati territori di cui nessuno sapeva nulla. Solo leggende: uomini che andavano in giro mozzando le teste, storie di desolazione e di mancanza di cibo. Ero nella zona che presto sarebbe diventata un coacervo di guerre e distruzioni. Non solo locali. Un territorio che, per come capii più tardi, era un vero crogiolo di culture non amalgamate tra loro, una polveriera pronta a esplodere in qualsiasi momento.

Per un ragazzo di 26 anni come me, Milano era il mondo intero, lItalia la propria patria. Mi resi conto, già quel primo giorno oltre il confine, che non mi trovavo più a casa.

Arrivai a Fiume, Croazia, al calar del sole. Avevo rispettato la tappa, ma le gambe erano stanche e volevo solo riposarmi in un letto. I piedi mi facevano male e mi erano tornate le fiacche. Avevo bisogno di curarmi.

Odiavo la diplomazia e recarmi ogni volta da un politico locale che voleva farsi bello della mia impresa e dellaiuto concessomi. Era un pesante fardello da sopportare, la politica: non amavo fare bei sorrisi per ottenere ospitalità. Avevo con me dei soldi e quindi mi recai da un albergatore, il primo che mi ritrovai sulla strada, un po fuori dal centro di Fiume. In questo modo avrei evitato consoli e politicanti. Bussai alla porta, ma nessuno mi rispose. Volevo riposarmi e insistetti ancora, anche se sapevo che un tale comportamento non si addice a un ragazzo di buone maniere.

Dallalto si aprì una finestra e un uomo si rivolse a me con evidente scortesia.

Chi bussa a questora della notte?

Parlò in italiano, mi sarei aspettato unaltra lingua o dialetto. Ma la domanda era chiara.

Sono Carlo Airoldi.

Risposi convinto che luomo mi avrebbe fatto subito festa come, tutti gli altri. Che conoscesse il mio nome e quello che stavo facendo.

Ecco, un altro dei soliti soldati italiani che scappano.

Luomo richiuse la finestra e non si fece più rivedere. Rimasi come un gatto smarrito per strada, in cerca di un tetto dove ripararmi. Non servì a nulla la mia insistenza al portone del locandiere.

Seppi poi che lItalia, dopo la sconfitta di Adua, era malvista praticamente da tutte le altre nazioni. Non veniva visto di buon occhio loperato della politica estera italiana. Veniva seguita con particolare attenzione la crisi di governo provocata dalla sconfitta, ma gli italiani, soprattutto i soldati, non erano ben considerati.

Era il 7 marzo, faceva freddo, non sapevo dove andare. Avevo bisogno di un posto dove stare. Dormire allaperto sarebbe stato fatale per me e, quindi, per il mio viaggio.

È buffo trovarsi spesso nella vita di fronte a una cosa che è lì, davanti a te, ma non puoi afferrarla. E accade fin da quando sei piccolo: hai cinque anni, sei nel cucinotto di casa. Da solo. Sai che la mamma ha lo zucchero in dispensa, te lo dà ogni volta che mangi tutta la minestra, nulla di più, non si era mica ricchi. Non hai ancora mangiato, ma sei da solo e vuoi lo zucchero. Provi ad aprire larmadietto della cucina, ma non ci arrivi. Prendi una sedia, alquanto pericolante naturalmente, ma non ci arrivi comunque. Metti qualche coperta sulla sedia, da pericolante diventa pericolosa. Ancora niente. Ti allunghi, cerchi di fare il possibile, ti basterebbe qualche centimetro, stai per arrivarci

La mamma entra in casa.

  Cosa fai?

Domanda più stupida non può esserci.

Niente.

Risposta ancora più stupida.

Niente?

Niente.

Il sogno finisce, lo zucchero resta nellarmadio e tu devi mangiare la minestra.

Fui quindi costretto a recarmi dal console dItalia, in Fiume. Venni accolto come un eroe e, nonostante la stanchezza, feci sorrisi e sorrisetti a chiunque mi chiedesse informazioni sulla mia avventura. Stetti con i politicanti fino alle otto e trenta di sera, poi chiesi una stanza, ma il Console in persona volle darmi ospitalità in casa propria. Già pensavo di dover ripagare la gentilezza dovendo raccontare ancora una volta quei primi giorni di viaggio, ma appena arrivammo mi fu concesso di andare subito a letto.

Prima di andare a dormire raccontai al console quanto successo con il locandiere. Fu in quel momento che venni a sapere della sconfitta di Adua.

La guerra mio caro amico non porta mai buone notizie.

Era amareggiato, non per quanto accaduto, bensì per le ripercussioni.

Latteggiamento del locandiere si ripercuote anche sul commercio. Servono storie e sogni per fare grande la nostra povera Italia.

Lasciai il console fuori dalla stanza. Nel tragitto compiuto insieme mi aveva visto zoppicare. Gli raccontai delle fiacche che si erano formate sui piedi e mi diede una pomata per curare le ferite. Usai il metodo che mi aveva insegnato lOtérgue.

Capii che il mio viaggio stava diventando unavventura che avrebbe avuto successo grazie al contributo di tantissime persone. Non ci avevo creduto solo io.

Chiesi al console di mandare mie notizie a La Bicicletta dicendo che stavo bene.

È partito allegro, saltellante, ed entusiasta dellaccoglienza fattagli e che non si attendeva, pubblicò il giornale il 10 marzo. LAiroldi ci lasciò al grido di Sempre avanti Savoia e Viva Milano, cui noi facemmo coro. Di corsa poi si lanciò per la discesa, non senza averci promesso sue notizie a breve.

La mattina seguente lasciai così lultima città civile. Dietro di me i festeggiamenti. Davanti, in apparenza, solo la desolazione.