Capitolo 6

 

 

Per rifarmi della sfortuna avuta, sfidavo tutti a qualsiasi prova fisica. Anche sul lavoro ero il più veloce. Mi consideravo un vincente e presto lo avrei dimostrato. Lo dovevo fare per conquistare Adele, per convincere suo padre che non ero solo un operaio.

Mi allenavo spesso, sceglievo soprattutto lavori pesanti. Divenni sempre più muscoloso. Andavo fiero di quel che facevo. Era un modo per allenarmi e, nello stesso tempo, per non rimanere prigioniero della vita che non volevo.

Mentre De Coubertin, che aveva solo qualche anno più di me, proseguiva nella sua titanica impresa di ridare vita alle Olimpiadi, io cercavo di stare in piedi. Non rimanevo mai fermo, correvo in tutte le direzioni. Eppure non riuscivo a diventare famoso e amato come Zanaboni. Non volevo aspettare di avere la sua età per ricevere un applauso.

Non so perché cercassi tanto lapprovazione degli altri. Ma in fondo chi non la cerca? In un modo o nellaltro ci fa piacere riceverla. E pochi lo ammettono. Lapprovazione e la soddisfazione sono due elementi che combinati insieme possono avere un effetto devastante. Se poi ci si abbina anche lamore per una donna, il suo viso e un bacio dato di sfuggita, la miscela di volontà e forza diventa esplosiva.

Sentivo che serviva qualcosa di grande. Qualcosa di indimenticabile, di assolutamente impensabile, qualcosa che nessun altro avrebbe fatto. Ormai le corse erano diventate una moda e i giornali chiamavano noi podisti pazzoidi scalmanati. Mi guardavo in giro in costante ricerca di una sfida che fosse allaltezza dellimpresa che avrei voluto compiere.

Quando si vuole vincere, si deve decidere di vincere. In quel primo anno di grande attività nella corsa, avevo conquistato solo una gara, ma il destino mi era sempre stato avverso. Le cose dovevano assolutamente cambiare. La fortuna doveva girare anche nella mia direzione. Non si trattava solo di una spinta della dea bendata, senza la quale non si va mai da nessuna parte. Serviva altro: determinazione, volontà.

Oggi, le storie dei grandi campioni hanno abituato tutti a sentire racconti di persone che sono state grandi, di persone che hanno costruito il mondo, di uomini che hanno dato la vita per gli altri. La lotta allanalfabetismo, e la sempre maggiore diffusione dei giornali, hanno reso possibile il diffondersi di grandi storie: il padre che salva dalle fiamme bambini della scuola, il ladro che restituisce la refurtiva, il fruttivendolo che regala i propri prodotti ai poveri. E molto altro.

Io non avevo reso grande il mondo, non avevo fatto grandi conquiste, non avevo dato la mia vita per il futuro dellumanità. Non ero un eroe e quindi non interessavo a nessuno. Ma volevo essere un campione. Un grande campione.

Affrontai unultima enorme avventura prima del grande viaggio ad Atene. Nel 1895 partecipai alla Torino-Marsiglia-Barcellona. Mille chilometri da percorrere di corsa in due settimane. Era unimpresa immane. Tanto che a Torino alla partenza saremmo stati solo in undici.

Il problema, questa volta, erano i soldi. Avevo dato fondo a tutti i miei risparmi lanno prima, per partecipare alle numerose gare. Con quanto possedevo non potevo andare nuovamente a Torino. Continuai quindi a fare quello che sapevo fare meglio: sfidare la gente. Andavo nelle osterie la sera a provocare chiunque a braccio di ferro. Scommettevo i miei risparmi su me stesso. Vincevo sempre, ma non bastava. Dopo poco nessuno voleva battersi più con me. Sapevano già di perdere. Inoltre dovetti avvisare in fabbrica che avrei lasciato il lavoro per un mese. Il signor Maverna non disse nulla, solo che non mi avrebbe garantito di trovare ancora un posto di lavoro al mio ritorno. In quel tempo non cera nessuna garanzia da questo punto di vista. Lunico rammarico era che, per un mese, o forse più, non avrei visto nemmeno di passaggio il viso di Adele.

Pe poter fare quella grande gara di mille chilometri, chiesi allora i soldi agli amici che si presentavano nelle osterie. Coloro con cui parlavo ogni sera, ogni momento libero della giornata.

Cosa ne fai dei denari? Mi chiedevano.

Devo rappresentare lItalia rispondevo loro, ma si mettevano sempre a ridere.

Poi, un po per compassione, un po per liberarsi di un rompiscatole, mi davano due lire.

Riuscii comunque ad arrivare a Torino. La mattina dell8 settembre, alle 8, tra gli undici corridori iscritti alla lunga marcia di resistenza, cera un francese, Louis Ortègue. Avevano tutti la mia età tranne un signore, Giuseppe Patelli, che sembrava mio padre. Seppi poi che aveva cinquantanove anni.

Un avversario in meno, pensai con sicurezza, si ritirerà il primo giorno. 

Dovevamo compiere 1.020 chilometri entro le 22.40 del 24 settembre. Con lunica regola di marciare uniti fino a Figueras. Poi ognuno avrebbe corso per conto proprio fino a Barcellona dove il vincitore sarebbe stato acclamato come un eroe.

Per me lunico inconveniente era il pacchettino che mi ero legato alla cintola. Ci avevo messo un piccolo cambio e qualche fetta di pane fresco. E unaltra cosa molto importante. Era fastidioso, ma speravo che mi sarebbe servito: avrei sopportato volentieri il suo piccolo peso.

Quella mattina, Piazza Carlo Felice a Torino era uno spettacolo unico. La gente si accalcava per vedere gli undici pazzi scalmanati che osavano compiere quellimpresa. Cera persino una banda che suonava.

Più si aspettava, più montava lagitazione. Ma finalmente alle 8 in punto decisero di dare il via. Il pubblico, bambini compresi, correva insieme a noi, la banda ci seguiva suonando. Non capivo più chi fossero i miei avversari. Io sorridevo. Erano tutti contenti, anche se la maggior parte dei presenti tifava soprattutto per alcuni torinesi che avevano deciso di prendere parte alla gara.

La prima tappa era a Saluzzo. Dovevamo marciare insieme e il francese Ortègue non diceva una parola, nemmeno quando Patelli, lanziano del gruppo, tentava ogni volta la fuga. La cosa, però non mi preoccupava: dovevamo marciare insieme, era la regola, tanto che il Patelli venne richiamato diverse volte dai giudici. Il fatto che quelluomo avesse tante energie non mi destava pensieri. Io le conservavo, come mi aveva insegnato Zanaboni. E lo stesso sembrava fare il francese. Dovevo tenerlo docchio.

A Saluzzo arrivò primo il Patelli. Era esaltato e faceva notare a tutti quella sua prima vittoria. Era irritante: se leducazione per il rispetto degli anziani non mi avesse fermato più di una volta, gli avrei tirato volentieri un bel pugno tra i denti.