CAPITOLO 22

Le palpebre faticavano ad aprirsi. Erano pesanti, sentiva gli occhi gonfi e la bocca impastata. Aveva bisogno di bere. Ma le mani erano legate dietro la schiena con una fascetta da elettricista.

Diana si svegliò con la testa appoggiata al muro, seduta su una sedia di metallo. Aprendo lentamente gli occhi, capì di trovarsi in un vecchio ufficio. Forse di una ditta che un tempo era stata molto produttiva, a giudicare dagli orari di lavoro appesi alla parete. Anche le due scrivanie presenti erano in metallo, arrugginite e piene di oggetti in ferro.

Due muri erano completamente coperti di fogli, progetti e disegni di materiale che probabilmente veniva costruito nella fabbrica che c’era fuori da quell’ufficio. Infatti, le altre due pareti erano composte, per la metà superiore, da finestre che davano su un capannone. Una struttura della quale lei vedeva solo il soffitto in lastroni di vetro e cemento, inframezzati da luci al neon probabilmente rotte o non funzionanti.

Ma non ne era sicura, vedeva tutto annebbiato e la gola le bruciava.

«È il cloroformio, dovresti conoscerlo.»

Diana conosceva bene anche quella voce. Bono. Seduto comodamente poco distante da lei, con in mano l’immancabile sigaro. Stavolta spento.

Cercò di girarsi per guardarlo meglio, ma scoprì di avere anche le gambe immobilizzate alla sedia, con le caviglie bloccate, anche lì, da delle fascette da elettricista.

«Potrei liberarti, ma devi promettermi di stare tranquilla.»

Diana cercò di parlare, ma riuscì a farfugliare a fatica poche parole: «E dove vuoi che vada?»

Bono sorrise amaramente. Poi si avvicinò con in mano un coltellino svizzero e iniziò a tagliare le fascette. «Mi fido, so che non farai scherzi, anche perché non andresti lontana.»

«Altrimenti cosa farai? Fai figurare che mi sono suicidata come hai fatto con il Santo?» disse lei, mentre sentiva la bocca che tornava alla normalità.

Le versò un bicchiere d’acqua e glielo porse.

«Oppure mi spari direttamente come hai fatto con mio padre?» aggiunse Diana fissandolo, senza prendere il bicchiere.

Lui resse lo sguardo.

La sete era troppo forte per resistere ancora. Diana afferrò l’acqua e svuotò il bicchiere.

«Non è come credi» le disse distogliendo lo sguardo.

«I fatti sono questi, no?»

«Sì.»

Tra i due calò il silenzio. Diana non voleva dargli alcuna soddisfazione chiedendo informazioni. Tanto lui non gliene avrebbe date.

Non ricordava molto di quello che era successo. Aveva immagini confuse della notte passata con Luca. Una notte che poteva benissimo non essere accaduta: le belle sensazioni che aveva provato erano estranee alla cruda e insipida realtà che aveva vissuto negli ultimi anni. Avrebbe potuto benissimo essere un sogno.

Svegliarsi ora in quel posto voleva solo dire una cosa: o era stato davvero un sogno, o la psicologa stronza li aveva traditi. Ma dov’era finito Luca? Cosa gli avevano fatto?

«Dov’è il Cieco?» le chiese Bono.

Lei sorrise. Voleva dire che non l’avevano preso.

Oppure che era stato tutto un sogno. Il cloroformio non la faceva ragionare.

«Sappiamo che era con te, ma quando siamo arrivati non c’era e non potevamo aspettarlo. La Molteni aveva avvisato anche Spillo, forse uno scrupolo di lealtà con il Cieco» aggiunse Bono.

Quindi non era stato un sogno, pensò Diana.

«Dove si trova?» insistette lui.

Lei si accarezzò i segni sulle mani. «Se lo sapessi, non lo direi certo a te!»

Bono si sedette vicino. «Sarebbe un bene per lui.»

«Cosa volete?»

«Da lui nulla. Tanto ormai non è più credibile. È solo un ricercato.»

«E da me cosa vuoi?»

«Tu puoi ancora cambiare il tuo futuro e non rendere tutto inutile.»

Diana non chiese cosa intendesse dire. Bono aveva capito che non sapeva nulla di dove si trovasse Luca. Non c’era bisogno di ribadirlo. Ma lei non capiva cosa volesse l’uomo che aveva ucciso suo padre.

«Se mi dai una pistola» gli disse, «posso farti capire bene cosa mi renderebbe davvero felice.»

Bono si alzò nuovamente. «Ne dubito.»

Poi voltò un monitor che era presente sulla scrivania, un vecchio televisore, di quelli con il tubo catodico, ingombranti e pesanti.

Di fianco c’era già pronto un videoregistratore a cassette.

«Guardiamo un porno insieme?» disse lei arrogante. Essere strafottente era la sua unica arma di difesa. In verità le veniva solo da piangere. Non perché avesse paura, ma perché era sola con quell’assassino e non poteva fare nulla.

Bono infilò una videocassetta nel registratore, che fece un gran rumore di ingranaggi che si muovono e inceppano allo stesso tempo. Poi fece partire il video, utilizzando i pulsanti presenti sull’apparecchio.

«Tuo padre ha sempre odiato la tecnologia» disse Bono. «Aveva appena imparato a usare questo attrezzo quando poi sono arrivati i DVD, gli smartphone, quel mondo digitale che non ha mai capito.»

«Finiscila» disse lei. Non voleva sentir parlare di suo padre. «Non hai diritto di nominarlo.»

Bono si avviò verso la porta. Bussò tre volte, fece una pausa e poi picchiò un’altra volta. Qualcuno aprì dall’altra parte. C’erano altri che la stavano tenendo sotto controllo. Non era solo.

Ma prima di uscire, Bono si fermò sull’uscio. «Voleva che ti dessi questo, dopo quell’operazione. Ma ho pensato che ti avrebbe fatto ancora più male sapere la verità. Forse mi sono sbagliato io, sarai tu a deciderlo. Ormai sei andata troppo oltre per non sapere tutto. E allora ricordati solo che sei stata tu a volerlo.»

Diana non capì quelle parole, ma non disse nulla. Lo vide uscire. Sembrava sincero, aveva uno sguardo triste. Come quello che avevano suo padre e lui quando le avevano raccontato della malattia che aveva colpito la mamma. Papà aveva voluto che ci fosse anche Bono, l’amico di famiglia, qualcuno che potesse sopportare il dolore insieme a loro.

Bono la osservò un’ultima volta, prima di richiudere la porta. Era provato, come se si volesse liberare di un peso. Era uno sguardo umano. Uno sguardo che non doveva avere un assassino.

La porta si richiuse.

«Ciao Dì.»

La voce di papà. Il suo volto sul televisore. Le sue rughe, il suo sorriso nascosto dalla barba incolta, i suoi occhi verdi e profondi, perennemente tristi da quando era morta la mamma.

La stava guardando, in silenzio, come se stesse cercando le parole da dirle.

«Se stai guardando questo filmato, vuol dire che io non sono più lì con te.»

Il cuore di Diana si fermò.

Ciao Dì,

Se stai guardando questo filmato, vuol dire che io non sono più lì con te. So che sembra l’inizio di uno di quei film che ci piaceva guardare insieme sul divano. Quelli che non piacevano alla mamma.

Dì, non so come dirtelo, e immagino che ora tu sia confusa. Lo sono stato anche io, ma ti assicuro che adesso ho trovato la soluzione e sono sereno. Spero che quando avrai capito cosa ho fatto, possa trovare anche tu un po’ di pace.

Non voglio che tu smetta di combattere. Fin da piccola ho visto in te la mia voglia di vivere in un mondo giusto, dove le disparità tra le persone si assottigliassero o non esistessero. Con questa fissazione sono entrato in polizia, con questa idea ho sposato tua madre e con questa speranza ti ho cresciuta. Credendo in un mondo migliore.

Ma tua madre si è ammalata. La mia Viola ha iniziato ad appassire lentamente. Abbiamo cercato una cura al male che la stava divorando, ho fatto il possibile perché lei non si sentisse sola, abbandonata. I dottori hanno tentato ogni cura.

Eppure quel male continuava a consumarla.

Non accettavo questa situazione. Non per me. Non per te. Ho lottato tutta la vita contro quello che non reputavo giusto. Ho indossato una divisa in cui credo ancora oggi, perché rappresenta le regole con cui sono cresciuto, l’ordine che tutti dovrebbero rispettare.

Già, Dì, la stessa divisa che hai indossato anche tu. Da piccola entravi in camera nostra e provavi quegli indumenti per te giganti, sotto lo sguardo divertito mio e di tua madre.

No, non potevo accettare di vedere Viola spegnersi così, senza che potessi fare qualcosa.

Un ospedale negli Stati Uniti aveva avviato una cura sperimentale per la leucemia fulminante. Dovevo muovermi subito. Ti ricordi quel viaggio? Io e tua madre siamo spariti per tre settimane, mentre tu eri a fare i test per i corpi speciali.

Ci hanno dato una speranza. Ma servivano soldi, molti soldi. L’assistenza sanitaria non copriva quei costi. Ho chiesto l’anticipo sulla pensione, ho sperato nel passaggio di grado. Sarei potuto diventare commissario e chiedere qualcosa di più. Ma il concorso pubblico ha premiato Roberto. Era giusto, lui era più operativo, più capace di essere un leader, anche se salire su uno scranno così alto della gerarchia richiedeva responsabilità verso le istituzioni. E io pensavo di esserne più meritevole.

Ma non è stato così, e con i “se” non si fa la storia. Il passato non è un posto tranquillo dove puoi cullarti di quel che hai fatto di buono. Non ho ottenuto la promozione, non avevo più soldi, e tua madre aveva bisogno di cure.

La rabbia in me cresceva. Con tutto quello che avevo dato a quelle regole, a quella divisa, mi sono ritrovato tradito da ciò che rappresentavo.

Ma alla fine ho trovato quello che mi serviva. Avevo sempre saputo che Roberto aveva più contatti di me nella parte sommersa di Milano che noi combattiamo tutti i giorni. Si deve fare anche questo, non puoi pretendere che sia tutto bianco o nero. Ci sono le sfumature che rendono possibile l’equilibrio che governa il mondo. Lui in questo era più capace di me. Sapevo che ogni tanto cedeva a qualche tentazione, ma è una persona sola, non ha la forza di resistere che ti dà l’amore di una famiglia.

E io dovevo lottare per quell’amore.

Ho quindi fatto un patto col diavolo. Il mio credo, il mio ideale, in cambio di un debito che non avrei mai potuto compensare. Ho tradito la divisa che indossavo, per amore. Tua madre non l’ha mai saputo, non me l’avrebbe mai permesso. Avrei affrontato questo problema quando lei fosse guarita.

Ma non è mai accaduto. Ho ottenuto i soldi. Li abbiamo spesi per quella cura sperimentale. Ma non è servito a nulla, Dì. Tua madre peggiorava in continuazione e, quando siamo tornati negli Stati Uniti, era troppo tardi. Le cure non funzionavano, non aggredivano quel tumore del sangue ormai presente ovunque.

Ho fatto un disastro. Con il risultato che ho perso il mio amore, ho tradito il mio lavoro, il mio credo, e sapevo che avrei perso anche te, il mio futuro.

Inoltre, dovevo pagare il mio debito. I soldi che mi avevano prestato arrivavano da un uomo molto potente che aveva basato la sua ascesa proprio sul racket. Ma da me non voleva soldi. Voleva informazioni.

Ho cominciato a tradire quindi la mia divisa. Sempre più spesso e con la speranza di essere scoperto. Ma ogni volta che avrei potuto denunciarmi e farla finita, pensavo a te, a come avrei rovinato il nome che porti, ancor prima di iniziare la tua carriera. Una carriera nata per la fede che ti ho trasmesso.

Come potevo rovinare anche te? Non ho salvato tua madre, non potevo permettermi anche questo.

L’unica soluzione era sparire. E solo una persona mi poteva aiutare. La stessa che mi ha aiutato a entrare in questa parte di mondo.

Sì, Dì, se oggi stai vedendo questo filmato, è perché ho chiesto io a Roberto di fare quel che ha fatto. Non potevo andare avanti in questa maniera, stretto in una morsa di rimpianti per una serie di azioni sbagliate. Dal non aver dato retta ai primi sintomi di tua madre, fino alla scelta di tradire la nostra divisa.

Il mio amore per te è immenso. Ma altrettanto immenso è il malessere che nasce dal tradimento, dalla delusione che vedi nelle persone che ti amano. L’ho vista in tua madre quando ha capito che il suo principe non l’avrebbe salvata. Mi ha perdonato e mi ha fatto promettere di occuparmi di te. Non potevo vedere i tuoi occhi che si riempivano di quella stessa delusione.

Ti voglio bene, Dì. Se stai vedendo questo messaggio, sai tutta la verità. Non c’era altra soluzione. Ti prego, lasciami andare e vivi felice la tua vita. Nella divisa che porti. Negli ideali che io purtroppo ho tradito. Con una delusione nel cuore che un giorno, spero, potrai perdonarmi.