Qualcosa di duro comprimeva una guancia a Luca. Duro e freddo. Non capiva cosa fosse, fino a quando aprì gli occhi. Il pavimento di marmo non era per niente comodo per dormire e la schiena gli doleva per la posizione assunta da troppe ore.
Sopra di lui, Diana lo scuoteva. Luca vide solo il contorno del viso di lei, perché da fuori arrivava una forte luce che gli impediva di comprendere l’espressione della ragazza. Oltre vi era solo un cielo azzurro senza nuvole.
Luca cercò di mettersi seduto. La testa gli girava. Cercò di guardarsi in giro e comprendere dove si trovasse, ma faceva fatica a mettere a fuoco. Ricordava l’inseguimento, il furgone che si parava davanti alla Fiesta. La loro Fiesta. Un botto, poi più nulla.
Gli occhi stavano iniziando ad adattarsi a quella luce.
Oltre le grandi vetrate, intravide sfuocate le guglie del Duomo, ma erano strane, era come osservarle trovandosi alla stessa altezza.
«Siamo a Milano» gli disse Diana aiutandolo ad alzarsi.
«Credevo avessero fatto una copia di quello per noi» le rispose il Cieco indicando il Duomo.
Lasciò la presa irritata e lui cadde a terra.
«Va bene, ho capito» aggiunse Luca.
«Sarà il caso. Non so dove cazzo ci troviamo. Mi sono svegliata anch’io pochi minuti fa.»
Luca si guardò intorno e vide delle sedie posizionate di fronte a loro: quattro piccole poltrone imbottite, rivolte verso la grande vetrata che dava su piazza Duomo. Conosceva quel palazzo, non c’era mai entrato ma lo aveva sempre incuriosito.
Diana andò verso la porta e la trovò chiusa a chiave. Non vi erano altre vie di fuga.
Il Cieco cercò una possibile uscita di emergenza. Nel muoversi sentì una fitta al ginocchio, un dolore che conosceva bene e che doveva essersi acuito con l’incidente. Un menisco mai curato, lesionato anni prima. Con l’incidente di quella notte, quel dolore si era riaperto. Tutto come un tempo: ricerche, dolori e… una donna accanto a sé.
Nel cercare una via d’uscita, Luca capì presto che si trovava di fronte a dei vetri riflettenti: nessuno dalla piazza poteva vederli, nemmeno se li avessero uccisi, squartati o torturati in quel preciso istante.
Luca si rivolse a Diana: «Avanti, dea della caccia, chiedi al tuo Zeus di aiutarti a uscire da questa prigione di vetro.»
Era più bella quando le saliva la rabbia sul viso, quando reprimeva la voglia di mandarlo a fare in culo. Per Luca, nonostante la situazione, l’unico sollievo era che lei fosse ancora viva, che fosse ancora con lui.
«Perché non ci hanno ucciso?» chiese infine Diana.
Una voce rispose dal fondo della stanza, seguita da più passi. Evidentemente c’era un’uscita di emergenza, ben celata nel muro. «Benvenuti all’ultimo piano del Museo del Novecento.»
Luca conosceva quella voce.
Le quattro persone si sedettero di fronte a loro, sulle quattro sedie rosse imbottite.
«Spillo» disse Diana.
L’uomo alto e magro sorrise. «Se avessimo voluto uccidervi, non vi avremmo portato qui.»
Gli altri tre uomini restarono in attesa, scrutando Diana e Luca che si avvicinavano, come se fosse un esame di maturità.
«Perché ci avete fermato?» chiese Luca, dando per scontato che sapessero dove stavano andando. Ovvero da Bono, per fare una chiacchierata a modo loro e scoprire la verità sul padre di Diana, ma anche sulla morte del Santo.
«Perché vi sareste fatti uccidere e basta, mentre noi vogliamo aiutarvi» disse l’uomo alla destra di Spillo, grasso e con un sigaro spento in bocca.
«Lei chi sarebbe?» chiese Diana.
«Lasciamo stare le presentazioni» rispose l’altro alla sinistra di Spillo, un anziano che si accompagnava con un bastone di legno intarsiato.
Luca li scrutò tutti. La quarta persona era una donna e non aveva ancora parlato. Elegante, curata, sulla cinquantina, messa in piega perfetta e occhiali da sole. Sapeva che si trattava della Regina, ma era meglio far finta di nulla.
Si rivolse a quello che credeva fosse un suo amico: «Che cazzo stai combinando, Spillo? Non dire minchiate e vediamo di giocare con le regole che conosciamo tutti. Se non ci avete ucciso, è solo perché avete bisogno di noi.»
Spillò osservò la Regina, che fece un cenno affermativo con la testa.
Lui guardò Diana. «Il Giostraio ha pisciato fuori dal vaso.»
Ormai erano tutti seduti. Avevano portato delle sedie anche per loro, come se stessero parlando alla pari. Quando Diana era entrata in polizia, non aveva mai immaginato che quel mondo potesse esistere davvero. Per lei c’erano solo i buoni, ovvero la polizia, e i cattivi che venivano arrestati dagli agenti scelti come suo padre. Nient’altro. Quel mondo di strani equilibri di persone che vivevano rispettando strani codici non doveva esistere, almeno non nella realtà.
Aveva lasciato che a parlare fosse il Cieco. Godeva del rispetto di Spillo e, di conseguenza, dell’uomo col sigaro e dell’altro col bastone. Ma la donna era diversa. Osservava e basta. Dava gli ordini con uno sguardo. Gli uomini presenti non dicevano nulla senza prima aver interpellato quegli occhiali da sole.
E poi, chi cazzo era il Giostraio?
«Vi abbiamo fermato perché a voi mancano dei pezzi di tutta questa storia e noi vi vogliamo aiutare» disse Spillo cominciando a raccontare. Intanto, due ragazzi in giacca e cravatta che non avevano più di vent’anni portarono loro dei vassoi con qualcosa da mangiare, come se fossero a un cazzo di buffet.
«Sappiamo che stavate per tornare dal commissario di polizia. Il tuo amico Bono» proseguì Spillo aspettando un cenno di assenso da Luca. «Ma non potevamo permettervelo. Non ora. Lui avrebbe negato tutto e vi avrebbe portato dal Giostraio. E il vostro gioco sarebbe finito. Avreste fatto un ultimo giro di giostra e sareste finiti nel Forno.»
«Nel Forno? Adesso la finite di usare metafore da gangster di provincia e parlate con chiarezza!» chiese lei, stufa di non capire.
«Il Forno è dove il Giostraio fa sparire le persone che lo ostacolano» aggiunse Luca guardandola. Non stava più scherzando, non la stava prendendo in giro. Per la prima volta dopo la morte del Santo, lo vide davvero preoccupato. «Pensavo fosse solo una leggenda, invece sembra proprio che non sia così. Il Giostraio esiste veramente. Perché non mi hai mai detto nulla, Spillo?»
«Non ce n’era bisogno. Te n’eri andato. Avevi i cazzi tuoi a cui pensare, dopo…»
«Vaffanculo, prosegui» lo interruppe Luca, che non voleva sentire parlare del proprio passato.
«Insomma, per tenerti buono era bastato dirti che avevi le chiavi dell’archivio. Ma quella che hai in mano tu è solo una minima parte del vero archivio. Ormai abbiamo persino digitalizzato tutto. Sembro stupido, sai…»
Spillo sorrise, come se cercasse un’intesa con il Cieco che era rimasto impassibile.
Fu l’uomo col sigaro, sfoderando la propria voce roca, a cercare di velocizzare la conversazione. «I confini sono chiari: Milano è nostra, o meglio, è della Regina. Il Giostraio non ci deve entrare. Lui ha la periferia con il mercato del racket e dell’usura.»
Diana aveva capito che la Regina era la donna in silenzio seduta con loro. Si era limitata ad aspettare che qualcuno proseguisse. Come in uno spettacolo teatrale, tale le sembrava quella ridicola e inquietante situazione.
E proprio come in un copione studiato a tavolino per non far perdere la concentrazione allo spettatore, prese la parola l’uomo col bastone. Voce bassa, cadenza lenta, lunghe pause. «Il Giostraio ha corrotto la polizia. Non tutta, ma gli operativi sono quasi tutti sotto il suo controllo. L’ordine che abbiamo tenuto per anni, l’equilibrio che abbiamo creato è in pericolo. Non ci sono più solo le nostre mani sulla città.»
Diana comprese di trovarsi di fronte ai vertici della mala milanese, ma a sentirli parlare sembrava di scambiare opinioni con persone che volevano davvero il bene comune della città, che tutto quello che facevano fosse solo per evitare delle tragedie.
Cazzate.
Eppure… eppure anche lei pendeva dalle loro labbra.
Ora, dopo aver ascoltato tutta quella premessa, Diana sapeva benissimo che stava per arrivare la richiesta, il carico da novanta, quello che lei e il Cieco avrebbero dovuto fare. Se fossero stati fortunati, l’obiettivo avrebbe coinciso con quello che volevano anche loro.
«L’ho sempre saputo che il commissario… era sul libro paga di qualcuno. Ma non avevo ancora capito di chi» disse il Cieco.
«Il Giostraio» rispose Spillo, che evidentemente non aveva mai detto al Cieco la propria posizione all’interno di quella cerchia. Non ce n’era mai stato bisogno.
«Ma perché?» chiese Luca.
A rispondere fu l’uomo col bastone, la memoria del gruppo. «Il commissario Martegani e il Giostraio sono amici di strada, ex ragazzi che per sopravvivere si sono arrangiati come potevano da piccoli. Prometteva bene la loro intesa. Poi hanno preso direzioni diverse. Uno ha visto nella polizia una carriera da poter sfruttare anche con le sue conoscenze di strada, l’altro ha seguito le orme del padre diventando imprenditore e allo stesso tempo usuraio. All’inizio, il Giostraio lo faceva veramente per aiutare altri piccoli imprenditori a superare i momenti di crisi, ma poi le richieste sono diventate tante, e da vero impresario ha fiutato il business, come dite voi giovani, giusto?»
Diana annuì per non contraddire.
L’uomo col bastone proseguì, con le sue lunghe pause: «Ma per fare il suo lavoro, l’imprenditore Denis Tordini, che tutti avevano iniziato a chiamare il Giostraio grazie al suo talento nel manovrare le persone per i propri interessi, aveva bisogno di protezione all’interno della polizia. Sia di qualcuno che facesse il lavoro sporco, sia di qualcuno che gli passasse le informazioni. Chi meglio del nostro commissario che voleva far carriera? Poi tutto è stato messo in discussione e qualcuno ha scoperto l’intreccio che nessuno doveva conoscere.»
«Il Santo?» chiese secco il Cieco.
L’uomo non confermò e proseguì nel suo discorso guardando Diana: «Un’alta amicizia, quella tra suo padre e il Santo, un altro codice dove i soldi non c’entrano, quella promessa fatta a suo padre, signorina Diana, di occuparsi di lei…»
L’uomo col sigaro non finì la frase, interrotto dal Cieco: «… l’hanno portato a scoprire quello che non avrebbe dovuto sapere. I piani del Giostraio per prendersi Milano.»
«L’esca» ribatté l’uomo col sigaro. «Aveva scoperto il collegamento tra il commissario e il Giostraio. Forse stava per dirvelo ed è diventato l’esca perfetta per depistare tutte le indagini che nessuno in polizia avrebbe avviato.»
«Cosa c’entra mio padre con tutto questo?» chiese allora Diana.
I quattro rimasero in silenzio.
Fu Spillo a riprendere la parola: «Forse questo dovresti chiederlo direttamente al Giostraio. Ha rovinato la tua vita, adesso sta rovinando la nostra città. E voi potete aiutarci a fermarlo.»
«Come?» chiese finalmente Luca fissando la Regina. Aveva capito che la battaglia per la città era solo tra lei e il Giostraio, e tutta quella messa in scena era solo perché lei aveva in mente qualcosa di preciso, una strategia. Luca lo aveva capito: era ora di scoprire le carte.
Tutti rimasero in silenzio e si voltarono verso la Regina.