Il cinema della fine del mondo

 

Un vento gelido spazza le strade di Punta Arenas e agita le acque color acciaio dello stretto di Magellano. Siamo a metà marzo e gli stormi di ottarde che abbandonano la Terra del Fuoco ci dicono che la breve estate australe è terminata. Ben presto le giornate si accorceranno, la Patagonia diventerà la patria del freddo, della neve, di notti lunghissime, e gli abitanti di tutti e due i lati dello stretto si chiederanno: e adesso cosa diavolo facciamo?

La stessa domanda se la posero più di novant’anni fa due pionieri della Terra del Fuoco: Antonio Radonic, un croato la cui idea di fortuna era trovare un posto tranquillo per vivere in pace, e José Böhr, un tedesco che aveva girato mezzo mondo, da Costantinopoli a Santiago, e poi si era stabilito nell’emisfero australe. I due arrivarono insieme in quello che allora era soltanto un gruppo di quattro o cinque case costruite davanti alla baia Inútil e parteciparono alla cerimonia che battezzava quel luogo perennemente sferzato dal vento con il promettente nome di Porvenir, avvenire.

Suppongo che durante la loro prima notte invernale, quando il vento minacciava di portarsi via le lamiere che proteggevano i muri, e il mate amaro con «malizia», un goccetto di acquavite, era l’unico modo efficace per tenersi caldi, gettassero un altro po’ di legna nel fuoco per poi chiedersi: e adesso cosa diavolo facciamo?

E la risposta fu: apriamo una sala cinematografica. La prima sala cinematografica della Fine del Mondo. Antonio Radonic aveva ventun anni e José Böhr diciannove.

«Il viaggio sarà agitato» ci avverte il pilota del Piper bianco come un cigno che ci attende nel campo di aviazione di Punta Arenas.

Porvenir è quasi di fronte a Punta Arenas, ma sullo stretto di Magellano, con venti che soffiano a centocinquanta chilometri l’ora, non si può volare in linea retta. Bisogna fare un lungo giro fino all’Atlantico e cercare uno dei passaggi che, una volta dall’altra parte, permettano di atterrare in caso di difficoltà.

Ho ripetuto più di una volta che i piloti della Patagonia sono i migliori del mondo. In qualche modo, anche se non lo dicono, si sentono eredi di Günter Plüschow, un berlinese arrivato a Punta Arenas nel 1929, come capitano di una piccola goletta chiamata Feuerland, Terra del Fuoco, con un equipaggio di quattro uomini e un cane, Schnauf, dopo una traversata intrapresa due anni prima a Büssum, sul mare del Nord. Oltre ai cinque dell’equipaggio e al cane, a bordo della Feuerland c’era anche il Condor d’Argento, un idrovolante biposto Heinkel che fu il primo apparecchio a solcare i cieli australi.

Günter Plüschow s’innamorò del cielo della Fine del Mondo e tracciò le prime rotte aeree, abbozzando una guida che oggi i piloti tengono ancora in grande considerazione e rispetto. Un giorno del 1931 decollò alla volta del ghiacciaio Perito Moreno e non fece mai più ritorno.

«Bene, andiamo» dice il pilota e l’aeroplano si mette a correre sulla pista. Dopo pochi minuti stiamo volando sopra una colonia di pinguini impassibili, che ci osservano con sprezzante disinteresse da aristocratici.

Quando era ragazzo, José Böhr visitò Buenos Aires e fu sedotto, conquistato o almeno convinto dalla più grande invenzione di tutti i tempi: il cinema. Vide ogni film che poté, molti realizzati dai primi pionieri dell’arte cinematografica, ne assorbì la tecnica e, mettendo mano ai risparmi della famiglia, ordinò una cinepresa in Francia, una Pathé, la numero 1220 per essere esatti.

Con quella cinepresa arrivò a Punta Arenas, insegnò a Radonic tutto quello che sapeva e, nel 1916, filmò con l’amico un cortometraggio di otto minuti intitolato Matrimonio yamaná, che mostrava la cerimonia nuziale di due indios di un’etnia australe oggi estinta. Con quel film, unica testimonianza esistente sugli yamaná, nacque il cinema documentaristico cileno.

Böhr, Radonic e gli yamaná protagonisti dovettero aspettare un anno, finché un giorno del 1917 una nave battente bandiera francese attraccò a Punta Arenas per consegnare il prezioso carico: la pizza con la pellicola sviluppata e un proiettore. Matrimonio yamaná fu presentato davanti a un pubblico attonito di emigranti, gauchos e indigeni, in uno spaccio di Punta Arenas strapieno di gente.

Tuttavia, mentre la sua prima esperienza come regista veniva sviluppata in un laboratorio parigino, José Böhr girava già la sua seconda opera, stavolta un film. Come scenario bastò il pugno di case che c’era a Porvenir, mentre la recitazione toccò a Radonic, oltre che ad alcuni vicini non molto convinti di dove si andavano a cacciare.

Nacque così il primo film realizzato in Cile. Un biglietto della lotteria narra le divertenti peripezie di un uomo che, dopo aver scoperto sul giornale di aver vinto alla lotteria, va a riscuotere il premio, ma il vento crudele della realtà gli strappa di mano il biglietto.

È dolce l’atterraggio nella Terra del Fuoco, e dopo aver sbrigato la formalità di avvisare le autorità aeronautiche del nostro arrivo saliamo sull’unico taxi di Porvenir per dirigerci alla prima sala cinematografica della Patagonia e della Terra del Fuoco.

Porvenir ha strade parallele orientate da est a ovest e altre trasversali che finiscono davanti alle acque della baia Inútil. La maggior parte delle costruzioni risalgono all’epoca della fondazione. Sono state costruite con il legname dei boschi, un tempo ricchi, che coprivano gran parte della regione e che poi furono rasi al suolo in nome di un progresso rappresentato dagli allevatori, le cui vacche e pecore perirono in fretta a quelle temperature polari. Per ripararsi dal vento perenne capace di insinuarsi nella cruna di un ago, gli abitanti proteggevano le loro case rivestendole di lamiere. Proprio in una di queste abitazioni veniamo accolti dalla signora Morrison, che malgrado parli lo spagnolo lento della gente del Sud continua a considerarsi scozzese come i suoi genitori arrivati alla fine dell’Ottocento, e don Tomás Radonic, figlio di Antonio, il socio e compagno di avventure di José Böhr.

«Scriva che mio padre si chiamava Antonio Radonic Scarpa, detesto che ignorino il cognome di mia nonna» puntualizza quest’ultimo.

Dopo le presentazioni, ci invitano ad accomodarci davanti al fuoco e cala un imbarazzante silenzio che nessuno osa interrompere. La signora Morrison ci lancia occhiate diffidenti e don Tomás ci studia cullandosi sulla sua sedia a dondolo.

Il fuoco scalda ma quella coppia ha qualcosa che gela l’atmosfera, tanto più che arriviamo da grandi dimostrazioni di calore umano a cui ormai ci siamo abituati. Due giorni prima di attraversare lo stretto di Magellano, abbiamo visitato il posto dove Miguel Littin stava girando Terra del Fuoco, un film di cui ho scritto la sceneggiatura, e in una pausa delle riprese sono andato a fare una galoppata con un amico, l’attore cubano Jorge Perugorría, che nella storia interpreta l’avventuriero Julius Popper. La felicità di montare due cavalli stupendi, che si godevano come noi la libertà di quello spazio sconfinato, è stata bruscamente interrotta dai gesti energici di un uomo dall’altra parte della recinzione di filo spinato che separava la pianura dalla strada. All’inizio abbiamo pensato che ci salutasse e abbiamo risposto ai saluti, ma l’uomo si è tolto il giubbotto e agitandolo ci ha ingiunto di avvicinarci, facendo allo stesso tempo cenno con la mano di avanzare lentamente, passo passo.

Una volta davanti a lui, ci ha invitati a seguirlo, sempre lentamente, fino a un cancello vicino, che ha aperto per farci passare sulla strada, e là ci ha abbracciati con calore: «Che fortuna avete avuto, ragazzi, che fortuna! Avete rischiato la vita, cari miei, e non si fa».

Ogni volta che Jorge Perugorría e io raccontiamo di aver galoppato in un campo minato rabbrividiamo all’idea che potevamo finire dilaniati.

Nel 1982 la dittatura militare argentina di Galtieri si era lanciata nell’avventura delle isole Malvine, che era finita male e aveva comportato il definitivo indebolimento della potente casta parassitaria dei militari dopo anni e anni di dominio sulla storia del paese. L’esercito e la marina da guerra cileni, per ordine del dittatore Pinochet, avevano appoggiato in segreto l’Inghilterra, permettendole di usare le loro basi nella zona australe per i rifornimenti alle truppe e lo spionaggio, ed era stato allora che si era rinfocolato un vecchio conflitto territoriale sul confine tra le due nazioni. A Galtieri, dopo la sconfitta alle Malvine, conveniva proseguire e vincere un’altra guerra minore, e a Pinochet la prospettiva di un conflitto consentiva di restare al potere. Così, preparandosi alla guerra, Pinochet aveva ordinato di piazzare mine antiuomo su migliaia di chilometri di territorio australe e naturalmente, dopo, si erano dimenticati di toglierle.

Si erano limitati a lasciare dei cartelli quadrati di lamiera gialla con su un teschio nero come avvertimento, che nel giro di pochi mesi il vento della Patagonia aveva sbiadito.

È su quelle mine che abbiamo galoppato Jorge Perugorría e io, e quando si è saputo non c’è stato uomo o donna di Punta Arenas che non ci abbia manifestato il suo affetto e la gioia di vedere che eravamo usciti vivi da quella pianura maledetta.

L’unica cosa che avevano lasciato i militari cileni e argentini al loro passaggio era stata paura e diffidenza. Forse a quella gente non era ancora passato il cosiddetto «effetto militare».

«Bene. Cosa volete da noi?» dice finalmente la signora Morrison, e don Tomás si schiarisce la voce appoggiando la domanda della moglie.

«Volevamo salutarvi e chiedervi se era possibile vedere la sala cinematografica.»

Proprio in quel momento sopraggiunge il più giovane dei Radonic, un importante calciatore cileno che è in compagnia della sua bella fidanzata.

«Scusate la diffidenza, ma ogni volta che qualcuno di Santiago arriva a Porvenir è per portare via qualcosa. Avevamo molti film e materiale girato da José Böhr e da mio nonno Antonio, e si sono portati via tutto. Ci hanno promesso di restaurare quel materiale e di inviarcene delle copie, ma non lo hanno mai fatto. Si sono persino offerti di rimettere in sesto il cinema e dichiararlo monumento nazionale. Solo promesse, che si è portato via il vento» ci spiega il giovane Radonic.

Le parole dello sportivo rompono il ghiaccio e la signora Morrison ci invita a prendere l’once, il five o’clock tea dei cileni. Dispone sul tavolo tazze, piatti e un’appetitosa torta ricoperta di cioccolato che presenta come scozzese, e mentre ci godiamo la sua ospitalità penso che, ovunque ci troviamo nel mondo australe, ascoltiamo ogni volta la stessa storia.

La Patagonia e la Terra del Fuoco sono sempre state considerate territori da saccheggiare senza riguardo. In nome del bestiame e del progresso sono state sterminate intere etnie, razze, foreste e, quando non è rimasto più nemmeno un indio vivo, se ne sono cercati i resti, le mummie, per mandarle nei musei del mondo. Probabilmente molti film girati da José Böhr e Antonio Radonic sono oggi patrimonio di cineteche private, i cui proprietari non si sono mai chiesti come e in quali condizioni furono girati.

Dopo che abbiamo assaporato la deliziosa torta scozzese, don Tomás serve dei bicchierini di acquavite che beviamo nel solito silenzio, senza nessuna diffidenza, perché in Patagonia e nella Terra del Fuoco il buon silenzio è parte della comunicazione. Il buon silenzio ha una sua particolare eloquenza e un messaggio inequivocabile. Capiamo che quel silenzio è un invito a visitare la sala cinematografica, e infatti la signora Morrison si alza in piedi, prende un mazzo di grosse chiavi e ci porta nella stanza del tesoro.

L’ampio locale dalle pareti di legno, trasformato in rimessa per i vecchi mobili di famiglia, fa ancora respirare l’aria di una sala cinematografica. Manca qualche fila di poltrone, ma il palco con la quinta su cui si montava lo schermo invita ad accomodarsi da qualche parte, ad aspettare il momento in cui si spengono le luci per dare inizio alla magia del cinema, per entrare nel mondo creato dall’ingegno umano nella sua impresa più felice e gloriosa: sconfiggere la tirannia del tempo.

In quella sala unica, dove gli spettatori vedevano film fatti nel loro universo, nel loro habitat, nel loro ambiente quotidiano, che mostravano le loro abitudini, feste, costumi, lavori, gioie e dolori, interpretati da vicini, familiari e conoscenti, la realtà si deve essere vista ricompensata dalla creazione artistica come raramente è accaduto nella storia dell’umanità.

Si sa che José Böhr e Antonio Radonic girarono una cinquantina di film, alcuni come Fra gli ona o Gente dei canali sono citati in varie storie del cinema, ma nessuno sa che fine abbiano fatto quei gioielli precursori del cinema universale.

Nella cabina il proiettore aspetta ancora, dritto e vigile, che due mani diligenti vi collochino la pellicola, la facciano passare dai misteriosi perni che regolano la tensione e i fotogrammi comincino a sfilare davanti al ciclopico arco voltaico che, con tutta la forza della luce, spingerà le immagini sullo schermo.

Su un fianco del proiettore, sopra il mobile che ospitava le pizze, restano appena dei pezzetti di celluloide, muti testimoni del saccheggio, e le prese della corrente vuote ricordano vene aperte in attesa che torni ogni film realizzato con la vecchia Pathé 1220.

José Böhr e Antonio Radonic si separarono nel 1925. Il croato continuò a gestire la sala cinematografica e la tenne aperta fino al 1945. Böhr, sedotto dal cinema, andò prima a Buenos Aires, dove si distinse come prolifico compositore musicale, poi decise di tentare la sorte a Hollywood.

Fra le tante canzoni che compose José Böhr ce n’è una che fece il giro del mondo e che fu cantata e ballata in numerose lingue. Ha un ritornello che dice: e aveva un neo sul volto che mi piaceva molto.

Mezzo mondo è convinto che la proprietaria del neo sia una delle tante donne incontrate da Böhr negli Stati Uniti, eppure nel piccolo ma dignitoso museo regionale di Porvenir si può vedere la mummia di un’india yagán ritrovata sull’isola Tres Mogotes, vicinissimo a Capo Horn. Quella donna, che chiamarono Kela – bella, in lingua yagán – conserva ancora oggi la perfezione del suo volto e sulla guancia destra sfoggia un seducente e misterioso neo.

Dopo esserci congedati dalla signora Morrison e dai Radonic, torniamo al campo di aviazione e riprendiamo l’aereo per Punta Arenas. Non c’è niente di paragonabile a un volo al tramonto sullo stretto di Magellano. Il sole che si ritira verso il Pacifico incendia la pianura e riflette le sue fiamme sui ghiacciai. Tutto diventa una gigantesca brace e allora, come gli antichi navigatori che attraversavano lo stretto su fragili imbarcazioni di pelli di foca, uno sussurra con rispetto: «Sì, è vero. Questa è la Terra del Fuoco».

Storie ribelli
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