«Carlitos comes back»

 

Noi cileni amiamo i diminutivi, forse perché viviamo in un paese troppo lungo, siamo pochi abitanti, e il calore dei diminutivi ci fa sentire meno soli.

Chi si chiama Carlos lo chiamiamo Carlitos, e voglio parlare proprio di un Carlitos che torna in Cile dopo vent’anni di assenza. Lasciò il paese quando aveva sette anni e non voleva saperne di andarsene, non voleva salire sull’aereo, non voleva nemmeno essere gentile con il signore dell’ACNUR, l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, che accompagnava lui e sua madre proteggendoli dagli sguardi di odio lanciati dalla soldataglia, soprattutto alla madre, sopravvissuta a un centro clandestino di tortura chiamato Villa Grimaldi.

Carlitos portava una piccola valigia. I suoi averi non erano molti: qualche cambio di vestiti, un maglione fatto ai ferri dalla nonna, un libro sui dinosauri e il Capitano Solo, un pupazzo di plastica del protagonista più simpatico e coraggioso di Guerre stellari. Prima di salire sull’aereo, un ufficiale dei servizi segreti militari gli consegnò il suo primo passaporto. Sul frontespizio c’era una misteriosa lettera L e una scritta: «Documento valido per l’entrata in ogni paese, salvo il rientro in Cile». Così Carlitos, a sette anni, si unì alla fratellanza universale degli esiliati.

Carlitos era pericoloso per la dittatura di Pinochet? Forse. Il prete che dirigeva la scuola salesiana dove studiava aveva assicurato di non avergli mai sentito pronunciare discorsi sovversivi, ma le sue ripetute assenze dalle lezioni di religione lo rendevano un tipo sospetto. Inoltre Carlitos aveva dato prova di fermezza davanti ai militari: quando nel 1973 gli avevano arrestato il padre, aveva tranquillizzato la madre giurandole che ne sarebbe uscito vivo perché poteva contare sulla protezione di Sandokan. Tre anni dopo, quando avevano arrestato e fatto sparire sua madre, non aveva pianto davanti ai soldati, ma li aveva affrontati avvertendoli che su di loro si sarebbe abbattuta tutta la forza della Confederazione galattica.

Carlitos si chiama Carlos Sepúlveda. È il maggiore dei miei figli.

L’ultima volta che lo vidi in Cile aveva cinque anni. Quando lo rividi a Stoccolma, in una gelida giornata di gennaio, ne compiva otto. Fra pochi giorni ci rivedremo in Cile e festeggeremo i suoi ventinove anni. Un paio di settimane fa ho parlato di lui, della sua vita e del suo ritorno, a Jerome Charyn. Quel grandissimo scrittore ha ascoltato in silenzio e poi ha mormorato: «Carlitos comes back».

La sua vita, come quella di tutti i bambini dell’esilio, non è stata facile, ma in lui c’è sempre stato qualcosa che l’ha salvato dalla disperazione e dalla frustrazione che hanno ucciso tanti compagni, fisicamente o spiritualmente o in entrambi i modi, a prescindere dall’età. In esilio, seppe pian piano della morte dei nonni, soffrì la perdita del suo paese affettivo, ma allo stesso tempo accolse con grandissime dimostrazioni d’affetto l’arrivo di tre fratelli.

Ci facevamo visita ogni volta che potevamo: io andavo in Svezia e lui veniva in Germania. Fra una e l’altra di quelle visite persi il bambino e accolsi l’adolescente. Il Capitano Solo fu rimpiazzato da un gruppo di ragazzi svedesi con cui formò una rock band, e alla fine di un concerto, quando vidi che veniva acclamato da decine di ragazze, trovai il coraggio di parlargli di certe cose che ritenevo importanti.

«È arrivata l’ora di dirti qualcosa di intelligente» lo avvisai.

«Okay, vecchio saggio. Dimmi una verità universale» ribatté.

«Mio nonno sosteneva che uno è di dove si sente meglio.»

«Mi piace. È vero. Io sono di qui» rispose e, imbracciando la sua Fender Stratocaster, saltò di nuovo sul palcoscenico tra le grida felici delle ragazze che lo acclamavano.

L’avevo sempre sospettato, ma ora sono sicuro che Carlitos ha fatto della musica il posto dove si sente meglio. La musica è stata ed è la sua patria. E persino la sua famiglia, perché quel gruppo di ragazzi svedesi c’è ancora: prima si chiamavano Base, ora si chiamano Psycore, e sono uno dei complessi hard rock più popolari in Scandinavia, Inghilterra e Germania.

«Uno è di dove si sente meglio» mi ripeté otto anni fa presentandomi una bellissima ragazza svedese, e poi aggiunse: «Si chiama Linda e sarà la mia compagna per tutta la vita».

Così è stato e così è. Nell’aprile del 1999 si sono sposati, abbiamo fatto una grande festa a cui hanno partecipato tutti i suoi fratelli tedeschi, il fratello svedese, la sorella ecuadoriana e un centinaio di amici. Fra gli invitati c’era mia madre, l’unica nonna ancora in vita. E lei gli ha restituito un pezzo di Cile: un vassoio d’argento su cui il nonno di Carlitos, mio padre, aveva l’abitudine di servirle la colazione. Lì per la prima volta l’ho visto piangere mentre, stringendo il vassoio, ripeteva la parola Cile con tutto il dolore della perdita, con tutta la furia amorosa degli anni senza patria.

Io e i miei figli ci intendiamo con poche parole. Era arrivato il momento di tornare, di fare i conti con la vita, e ho capito che voleva avermi al suo fianco.

Fra pochi giorni saremo a Santiago. Carlitos non porta con sé il Capitano Solo. Nella mano stringerà la mano di Linda, la sua compagna, la mia amatissima nuora svedese, e dopo aver visitato le tombe dei nostri morti, berremo un bicchiere di vino cileno, un vino allegro, un vino sincero e fraterno che lo aspetta da vent’anni e che lui si merita, perché come sua madre, suo padre, i suoi nonni e i suoi bisnonni, Carlitos appartiene alla stirpe degli uomini che amano la vita, e quest’amore ci ripete che vinceremo.

Storie ribelli
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