Strada facendo...
Ci mettemmo in marcia senza sapere che quell’anno era fiorita la quila. Accade al massimo tre volte in un secolo e quindi merita di essere definito un prodigio. La quila è una varietà di bambù andino che cresce nelle profonde gole della Cordigliera. Resiste al vento, alla neve, al freddo intenso dei lunghi inverni australi e al sole cocente delle brevi estati. I suoi fusti raggiungono svariati metri d’altezza, sono duri, elastici, e le foglie hanno un tenero colore verde che riempie di allegria quei paraggi.
I primi abitanti della Patagonia usarono canne di quila per sostenere le pelli di guanaco delle rucas, le loro tende, e le utilizzarono anche per fabbricare le lance che frenarono l’avanzata di tante cavallerie nemiche durante la Conquista. In seguito, quando verso il 1880 iniziò la colonizzazione della grande regione australe e la stampa britannica evidenziò non la fragile bellezza di quel mondo ma le sue potenzialità economiche subordinate alla «triste necessità di annientare i barbari», le lance di quila tornarono ad affrontare gli invasori insieme alle frecce e alle boleadoras; stavolta però furono sconfitte dal piombo e dai cavilli legali di quei predoni avidi di terre che non avrebbero mai amato, di ricchezze che avrebbero ingrassato i banchieri europei, e di un prestigio che la Storia non ha ancora iniziato a giudicare.
Gli indios della Patagonia hanno avuto un lungo rapporto con la quila e non solo per la sua versatilità, ma anche per le sue doti di tragico e infallibile oracolo. Ogni volta che è fiorita la quila sono arrivati tempi di dolore e devastazione. Il suo fiore è di un intenso e premonitorio color rosso, e i tehuelche calcolavano la loro età in base alle sue fioriture. Chi era stato testimone più di due volte di quel prodigio aveva sicuramente molto da raccontare al calore del fuoco.
Oggi in Patagonia restano pochi tehuelche e mapuche. Sono i sopravvissuti che, tenendosi ben stretta la loro dignità, hanno deciso di non essere più un simpatico dettaglio etnico per il sollazzo dei turisti e, su entrambi i versanti della Cordigliera delle Ande, vivono ed esercitano una formidabile cultura fatta di resistenza e di memoria. Le altre etnie sono scomparse, schiacciate dalle regole di un progresso di cui nessuno è capace di individuare i frutti; di loro restano appena il ricordo o le testimonianze raccolte da qualche studioso che svolge il proprio lavoro sotto la sorveglianza del pregiudizio e del sospetto. È molto difficile scrivere la storia dei vinti, ma la quila è ancora lì che cresce nelle gole, unita d’inverno all’errabondo destino dei gauchos più poveri.
Quando il mese di marzo accorcia le giornate, quando le ottarde solcano il cielo fuggendo i rigori invernali e il vento ammassa le nuvole nelle valli, i gauchos radunano il bestiame e prendono la via della Cordigliera, dei pascoli invernali. Non sono molti i bovini in questa terra esausta su cui un tempo pascolavano i guanachi e che poi, nell’epoca d’oro della lana, fu calpestata da milioni di pecore.
Sulle falde della Cordigliera, i gauchos lasciano gli animali nei canneti, protetti dal vento gelido dietro pareti rocciose. Ben presto inizia a nevicare e man mano che aumenta lo strato di neve sulle canne, queste si piegano per il peso e s’inarcano formando una specie di stalla naturale. Sotto quel tetto di canne e neve gli animali mangiano foglie di quila, ricca fonte nutritiva che li sostenta fino alla primavera seguente, bevono l’acqua che gocciola in pozze e smuovono loro stessi le canne perché il metano degli escrementi esca e non li asfissi. In settembre i gauchos fanno ritorno e li riportano nelle verdi valli estive, sui teneri pascoli da ingrasso, all’euforia dell’accoppiamento, alla terribile selezione fra chi resterà in vita e chi sarà squartato dagli affilati artigli dei condor o soccomberà nelle fauci dei puma o sulle meravigliose grigliate che profumeranno la vita degli uomini.
E la quila continuerà a crescere nelle gole, affondando le lunghe radici nel terreno arricchito dallo sterco del bestiame.
L’anno che il mio socio e io ci siamo messi in viaggio è fiorita per l’ultima volta la quila. I suoi infausti fiori rossi hanno tinto di rosso la Patagonia andina e non c’è stato bisogno di aspettare a lungo per sapere da quale parte arrivava la disgrazia.