Verso il Sud del Mondo
Daniel Mordzinski e io – Daniel è il mio «socio» in quello che seguirà – avevamo voglia di andare oltre il rapporto di eterno concubinato testo-fotografia che ci aveva spinti in giro per il mondo a fare reportage per riviste e giornali, perché si era sempre trattato di incarichi limitati sia come estensione sia come numero di immagini e spesso, al momento di pubblicare, il nostro lavoro era stato soggetto a voleri oscillanti fra il politicamente corretto e il timore di perdere il posto. La censura moderna, esercitata da gente che non ha paura della disoccupazione ma di essere «espulsa dal mercato», non proibisce ma cancella, taglia, «edita» in nome di una precauzione vigliacca, di una prudenza pusillanime. Così un giorno siamo partiti per il Sud del Mondo, per vedere cosa trovavamo da quelle parti. Il nostro itinerario era molto semplice: iniziava per ragioni logistiche a San Carlos de Bariloche, dal 42º parallelo sud scendeva, restando sempre in territorio argentino, fino a Capo Horn, e poi risaliva dalla Patagonia cilena fino all’Isola Grande di Chiloé. Tremilacinquecento chilometri più o meno, eppure, malgrado la semplicità, l’itinerario tradiva l’impronta dei viaggiatori inglesi che si muovono sempre per confermare una tesi, e se questa non coincide con la realtà che incontrano, be’, peggio per la realtà. La nostra tesi era che saremmo stati capaci di coprire quella distanza, ma tutto ciò che abbiamo visto, ascoltato, fiutato, mangiato, bevuto appena arrivati, ci ha detto che nel corso di un mese avremmo fatto a stento qualche centinaio di chilometri, e siccome non siamo inglesi abbiamo accantonato quella stupida tesi.
Poche settimane dopo essere rientrati in Europa, il mio socio mi ha consegnato una cartellina piena di belle fotografie in formato lavoro e non abbiamo più parlato del libro. Quello che avevamo visto e vissuto nel Sud del Mondo è diventato argomento di conversazione con gli amici, la sua compagna e la mia conoscono a memoria tanti aneddoti di quei giorni di zaino e vento, i suoi figli e i miei hanno ascoltato attenti le avventure di questi due veterani della strada e forse saranno loro a riprendere il cammino. Non abbiamo più parlato del libro perché il mio socio capisce che i libri sono bestie molto strane, imprevedibili, e che ci sono storie che preferiscono essere raccontate al calore di un bicchiere di vino, che amano accomodarsi in mille modi nella bocca di chi racconta, finché non arriva il momento in cui loro e solo loro decidono di diventare parole su carta.
I miei libri si mettono sempre in ordine da sé, il loro ordine è aleatorio, anarchico, perché non vogliono essere la memoria dell’autore, vogliono essere la memoria collettiva, e a poco a poco si scrivono da soli in modo impercettibile come l’aria pura e limpida che la gente migliore difende con il massimo impegno.
Le storie che seguono sono senza dubbio circondate dall’aura dell’inesorabilmente perduto, per via di quell’«inventario delle perdite» di cui parlava Osvaldo Soriano, il prezzo crudele della nostra epoca. Mentre viaggiavamo, senza meta, senza tempi prestabiliti, senza bussola né altre trappole, quella formidabile meccanica della vita che riunisce sempre chi si assomiglia ci ha portato a incontrare molti dei «barbari» a cui allude la poesia di Kostantinos Kavafis. I loro sogni erano temibili, perciò sono stati annientati o respinti in territori estremi appositamente prescelti, ma hanno continuato lo stesso a seminare l’insonnia fra i signori del potere, che sempre più ossessionati dal pericolo del loro ritorno hanno ordinato alle banche di screditarli, e a dei completi mentecatti di scrivere libri sull’«idiozia dei barbari». E i «barbari» hanno risposto piantando boschi, immaginando un’alternativa alla disumanizzazione del sistema imperante, organizzando la vita, perché vivere fosse un po’ più di un verbo.
Così, bevendo mate insieme a loro, insieme ai «barbari», abbiamo visto l’aurora australe scrivere con calligrafia elettrica gli ultimi versi della poesia di Kavafis: «È che fa buio e i Barbari non vengono, / e chi arriva di là dalla frontiera / dice che non ce n’è neppur l’ombra... / E ora che faremo senza i Barbari? / (Era una soluzione come un’altra, dopo tutto...)»
Strane bestie i libri. Questo testo ha deciso la sua forma quattro anni fa: volavamo sopra lo stretto di Magellano a bordo di un fragile aeroplanino che sobbalzava alla mercé del vento, il pilota malediceva le nuvole perché gli impedivano di vedere dove diavolo era la pista di atterraggio, i punti cardinali sembravano ormai un riferimento assurdo, quando il mio socio ha detto che là in basso c’erano storie e fotografie che ancora ci mancavano.
E in effetti era vero. Poi siamo tornati in Europa, lui in Francia e io in Spagna, e ancora una volta il libro ha smesso di stare al centro della nostra attenzione. Il mio socio però non ha mai saputo che questi racconti che scrivevo lentamente erano il mio rifugio, il luogo a cui tornavo ogni volta che mi sentivo bene, perché così sono i viaggi felici nei ricordi.
Un giorno ho deciso che la redazione era terminata e che era giunta l’ora dell’addio. Mettere il punto a una storia che ami è la cosa più dura del mondo. È un saluto definitivo. Non si torna mai alla felicità delle pagine che prendono pian piano vita.
Questi racconti sono nati come la cronaca di un viaggio compiuto da due amici, ma il tempo, i violenti cambiamenti dell’economia e l’avidità dei vincitori li hanno trasformati nel romanzo di una regione scomparsa. Nulla di quanto abbiamo visto è ancora come lo avevamo conosciuto. In qualche modo siamo i fortunati che hanno assistito alla fine di un’epoca nel Sud del Mondo. Di quel Sud che è la mia forza e la mia memoria. Di quel Sud a cui mi aggrappo con tutto il mio amore e tutta la mia rabbia.
Ecco perché queste sono Le ultime notizie dal Sud.