La follia di Pinochet:
nessuno crede al generale

 

La difesa di Pinochet ha costruito la sua strategia su cinque pilastri, che sono crollati uno dopo l’altro: ha provato, attraverso alcuni esami medici, a farlo dichiarare incapace di sostenere un processo per ragioni puramente patologiche, nel senso più ampio del termine, ma si è scontrata con la debole e tuttavia esistente legislazione cilena che esime dalla responsabilità penale solo i pazzi e i dementi riconosciuti, cioè gli alienati mentali la cui patologia è stata certificata da un medico, visto che è più difficile dimostrare di essere pazzi che non il contrario.

Poi la difesa di Pinochet ha tentato di falsare la diagnosi formulata da cinque specialisti, secondo la quale l’ottuagenario primate soffriva di «demenza vascolare da lieve a moderata», cercando di far sì che fosse intesa come una follia progressiva, tanto maggiore quanto più si avvicinava la giustizia. L’audace tentativo non è stato apprezzato dalla «famiglia militare», versione cilena della mafia o della camorra, di cui fanno parte tutti gli ufficiali che hanno le mani macchiate di sangue e che hanno rubato non solo i beni delle vittime durante la dittatura, ma anche i beni dello Stato, usurpandoli e abbandonandoli alla voracità del neoliberismo economico. Per questa mafia o camorra creola, il suo indiscutibile leader non può essere affetto da alcun genere di follia, perché un pazzo potrebbe infrangere in qualunque momento il «patto del silenzio», quell’omertà alla cilena che tiene unita la famiglia militare e le consente perfino di gestire le informazioni in suo possesso sul destino di oltre quattromila desaparecidos. Pochi giorni or sono, questa omertosa camorra cilena ha avuto un gesto di generosità verso le vittime e ha concesso ragguagli sulle sorti di duecento desaparecidos. Ma stranamente non ha fatto cenno di cosa accadde a queste persone, quando, come e dove furono uccise, chi ne ordinò la morte e in base a quali capi d’accusa. La generosità mafiosa della famiglia militare cilena riconosce soltanto, con la naturalezza di chi parla di mele cadute dall’albero, che furono gettate in mare o nei laghi della cordigliera o nei fiumi del Sud del paese. E per queste informazioni avrebbe addirittura preteso che la società gliene rendesse merito. Il presidente Lagos e i suoi ministri hanno ringraziato. I familiari dei desaparecidos, le vittime e la gente onesta no, né mai lo faranno.

Fallita anche quest’ultima manovra, la difesa di Pinochet, guidata da Pablo Rodríguez, ha deciso di ricorrere alla vecchia tattica di bussare alla porta delle caserme, tattica che nella versione cilena significa convocare il COSENA, il Consejo de Seguridad Nacional, un organismo a cui partecipano da pari a pari il presidente della repubblica e i capi dell’esercito, della marina, dei carabineros e dell’areonautica militare, in aperta violazione delle norme costituzionali che, in teoria, subordinano le forze armate al potere civile. Ma, disgraziatamente per la difesa dell’anziano primate, il generale Izurieta, attuale comandante in capo dell’esercito, è stato male istruito, o forse era solo irritato dall’atteggiamento dei camerati, gli ufficiali a riposo che andavano ogni giorno a casa sua per regalargli pantaloni, una chiara allusione alla sua «mancanza di pantaloni», sinonimo di «mancanza di virilità», delitto imperdonabile, è noto, per un macho che porta spada e speroni. È bene dire, inoltre, che la riunione del COSENA non ha ottenuto quanto si era prefissa (l’applicazione, assoluta, generale, senza alcun tipo di restrizioni, della legge di amnistia – proclamata a suo tempo dalla stessa dittatura per autoassolversi – a Pinochet e agli oltre quaranta ufficiali sottoposti a processo o a indagine giudiziaria) perché il comandante in capo dell’aeronautica era più preoccupato dell’acquisto di caccia da combattimento F-16 che della sorte dell’ottuagenario gorilla.

Date le circostanze, e con il giudice Guzmán sul punto di interrogare Pinochet (gli ci erano voluti tre anni per arrivare fin lì), la difesa ha deciso che l’ottuagenario scimmione avrebbe ricevuto il magistrato, consentendogli però di entrare in casa non dall’ingresso principale, ma da quello di servizio, la porta destinata alla servitù. Si supponeva che questa raffinatezza militare, ideata dall’ineffabile Lucía Hiriart Pinochet e da suo figlio, l’imprevedibile Marco Antonio Pinochet, avrebbe fatto a pezzi il morale e la sicurezza del giudice Guzmán. A questo si univano le ultime raccomandazioni a Pinochet: non doveva rispondere a nessuna domanda del giudice, appellandosi alla facoltà di non rispondere. Ma con grande disperazione degli avvocati difensori, Pinochet non ha resistito al silenzio e ha deciso di scagionarsi da solo facendo quello che sa fare meglio, mentire, e con le sue menzogne ha buttato giù l’ultimo dei pilastri su cui si reggeva la sua difesa.

I testimoni presenti all’interrogatorio di martedì 23 gennaio assicurano che Pinochet ha sempre mantenuto il suo atteggiamento di arrogante stupidità davanti al magistrato, fino a quando il giudice non gli ha sottoposto un documento gelosamente custodito da un generale onesto per ventisette anni.

Si tratta di una lettera che il generale Joaquín Lagos – nel 1973, comandante della prima divisione dell’esercito cileno, con base ad Antofagasta, nel deserto di Atacama – aveva scritto a suo tempo al dittatore denunciando l’assassinio di cinquantasei detenuti politici, commesso da un corpo scelto di ufficiali guidati dal generale Sergio Arellano Stark, una strage tristemente nota come la «carovana della morte». Pinochet aveva letto la lettera, aveva cancellato personalmente quanto non gli piaceva, ad esempio l’indicazione che i prigionieri erano stati assassinati o il nome del generale Arellano Stark, e aveva scritto di suo pugno ciò che il generale Lagos doveva mettere nel rapporto, assumendosi in pratica la piena responsabilità dell’accaduto.

«Questa è la sua calligrafia?» ha chiesto appena sette giorni fa il giudice Guzmán, e Pinochet in via del tutto eccezionale ha risposto con una grande verità, ha detto sì, mentre i suoi avvocati vedevano crollare la tesi mille volte propugnata, secondo la quale Pinochet non è mai stato a conoscenza di assassinii, fucilazioni o esecuzioni di massa.

È pazzo Pinochet? In Cile non ci crede nessuno, neppure i suoi più fedeli seguaci. I cileni scherzano sulla diagnosi e se qualcuno al ristorante, prima di mangiare l’eccellente carne cilena, chiede se ci sono casi di «mucca pazza», gli rispondono: «No, qui abbiamo solo mucche con una lieve demenza vascolare».

Dopo il breve interrogatorio a cui è stato sottoposto dal giudice Guzmán, la gente, e mi auguro anche i militari, non riusciva a credere che un uomo, e soprattutto un uomo pronto ad assicurare che «in questo paese non si muove foglia senza che io lo sappia», potesse mentire in modo così grossolano. Pinochet ha smesso di negare gli assassinii di massa, ma ha scaricato la colpa sui suoi subalterni. Quando ha riconosciuto il documento del generale Lagos, ha riconosciuto di sapere che ai prigionieri cavavano gli occhi con i pugnali e spezzavano le mani e le mandibole per poi fucilarli lentamente: sparavano alle gambe, ai genitali e infine li tagliavano in due con mitragliatrici calibro 30. Tutto questo era spiegato in dettaglio nella lettera inviata dal generale Lagos nell’ottobre 1973, lettera che Pinochet gli restituì personalmente una settimana dopo con annotazioni di suo pugno.

È sera a Santiago mentre scrivo queste righe. Qualche ora fa il giudice Guzmán ha incriminato Pinochet, che adesso è agli arresti domiciliari. Seguendo il rito giudiziario, domani o dopodomani andranno da lui due ufficiali per scattargli la sua prima foto segnaletica e sporcargli le dita di inchiostro nero in modo da prendere le impronte digitali, come si fa con i ladri, con gli assassini. Fa caldo a Santiago e non mi sembra una cattiva idea uscire in queste strade che amo, in queste strade che torno a percorrere, e andare in cerca di un bar per bere un bicchiere di vino alla salute dei miei compagni massacrati, gettati in mare, nei laghi, nei fiumi, nei pozzi senza fondo delle miniere, per brindare con loro a tutti questi anni di memoria, di etica, di tempo condiviso e di un’ansia di giustizia che, come la sete di vivere, resta immutata.

Storie ribelli
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