Il cuore della mia memoria

 

Decidemmo di cenare all’Edelweiss perché a volte eravamo contenti di tradire l’inventario delle perdite che ci serviva da scusa per girare Buenos Aires fino all’alba. Il locale, un tempo pieno di chiassosi commensali, era quasi deserto, ma i ravioli al tuco non avevano permesso alla crisi di privarli del loro consueto sapore di pomodoro e origano. Cenammo, bevemmo una bottiglia di vino rosso e al momento del caffè ci raggiunse Enrique Pinti, l’istrione, il comico più caustico di tutta l’America Latina, e proprio per questo il più pericolosamente sovversivo. Ma quella mitragliatrice di battute sagaci e spiritose quasi non aprì bocca per tutta la serata e si unì al silenzio dei due camerieri che si avvicinarono per ascoltare quanto raccontava Osvaldo.

Soriano aveva appena pubblicato L’ora senz’ombra, il suo ultimo romanzo, e ci spiegava che certi libri offrono un riparo durante la stesura, ma che questa diventa una lotta fra la tentazione di tirarla per le lunghe e l’onestà dell’autore che detesta i trucchi stilistici e una prolissità senza senso.

«Ci sono poi altri libri» diceva Soriano «che catturano lo scrittore, che si oppongono all’inevitabile finale e lo spingono verso abissi a cui è meglio non avvicinarsi.»

«Come la vita» rifletté uno dei camerieri.

«Né più né meno» confermò Soriano, perché delle tante cose in cui crede uno scrittore, lui aveva fede soprattutto in una, quella che ci avverte del pericolo di confondere la vita che scorre dentro le pagine di un libro con l’altra che ribolle fuori dalla copertina. Quando leggiamo o scriviamo, mettiamo in atto una fuga, la più pura e legittima delle evasioni, ne usciamo più forti, rinnovati, forse migliori. In fondo, malgrado tante teorie letterarie, noi scrittori siamo come quei personaggi del cinema muto che nascondevano una lima in una torta in modo che il detenuto potesse segare le sbarre della cella. Offriamo fughe temporanee.

Uscimmo dall’Edelweiss e, come sempre, iniziammo a vagare senza meta per gli ampi viali di quella città che si ama o si odia. Ogni tanto, i venditori dei chioschi o i camerieri di qualche caffè fermavano il mio amico.

«Bravo, Soriano. Continua così, Soriano. Ti vogliamo bene, Soriano» gli dicevano, e io mi sentivo orgoglioso di lui che, timido come sempre, mormorava grazie rosicchiando i resti di un avana che gli si sfilacciava tra i denti. Da quando un medico gli aveva proibito di fumare, ogni mattina comprava un Montecristo (ma le sue mattine cominciavano alle cinque del pomeriggio) e se lo rosicchiava a poco a poco, con un’aria da castoro paziente.

Camminavamo e parlavamo degli amici assenti, di amati fantasmi, di libri di viaggio, soprattutto di quelli che non erano stati scritti con una Polaroid ma con l’inchiostro indelebile che sgorga dalle arterie del ricordo dei perdenti di ieri, di oggi, di sempre. Entravamo nei caffè, ci sedevamo a un tavolo vicino a una finestra e continuavamo a chiacchierare secondo un rituale che non era mai stato deciso ma che rispettavamo rigorosamente. Benché Osvaldo, per ordine del medico, potesse bere solo un bicchiere di vino a pasto, ordinavamo sempre un’acqua minerale e due whisky, e a un certo punto, dopo aver bevuto il mio, gli chiedevo se potevo bere anche il suo.

«Sei tremendo. È il terzo whisky che mi soffi» brontolava Soriano.

Verso le quattro del mattino ci ritrovammo in un bar dove eravamo entrati sedotti dal suo aspetto triste. Luci al neon, bancone, tavoli e sedie di metallo e di un materiale spaventoso che non so né voglio sapere come si chiama. Eravamo seduti in un angolo, ordinammo un’acqua minerale e due whisky, e quando stavamo iniziando a sviluppare una teoria sulle descrizioni magistrali dell’illuminazione degli interni nei romanzi di Eric Ambler, si avvicinò dal bancone l’unico altro cliente.

Era alto, robusto, con braccia muscolose che tradivano, per via di un’ancora tatuata, un passato da marinaio. Sembrava parecchio ubriaco ma aveva ancora un passo sicuro. Ci chiese una sigaretta e io gli diedi il pacchetto di Particulares. Ne prese una. Poi cercò di accenderla con un cerino, ma le sue mani scoordinate non riuscivano a sfregare la capocchia sulla striscia di carta vetrata, così gli offrii anche del fuoco.

«Io glielo avevo detto ai ragazzi che non andava bene, che stavamo esagerando...» farfugliò a mo’ di ringraziamento, ma non poté continuare perché un cameriere gli ingiunse di lasciarci in pace.

«Voleva solo una sigaretta, tutto qui» disse Osvaldo.

«A volte fa il coglione e spaventa la clientela» spiegò il cameriere.

Il tizio tornò al bancone, ordinò un bicchierino che gli fu servito di malavoglia, e poi si prese la testa fra le mani. Si tirava i capelli con violenza, era ovvio che cercava di farsi male, e si passava con insistenza le dita sugli occhi come per allontanare qualcosa che vedeva solo lui.

«È proprio andato» commentò Osvaldo.

Ogni tanto il barista lo osservava con diffidenza, ma il tipo perseverava nel suo strano rituale di tirarsi i capelli, stropicciarsi gli occhi e guardare verso la porta con aria impaurita. A un certo punto si frugò nelle tasche, non trovò le sigarette che voleva e tornò al nostro tavolo.

Gli indicai il pacchetto e lo invitai a sedersi. Accettò accomodandosi con movimenti goffi, accese una sigaretta e riattaccò la solfa interrotta dal cameriere.

«Io glielo avevo detto ai ragazzi che non andava bene, ma non mi hanno dato retta, mi hanno detto: se te la fai sotto adesso, te la fai sotto sempre...»

«Tosti questi ragazzi» osservò Soriano.

«La vita gli ha fatto venire la pelle dura, e anche a me, ma abbiamo esagerato e io gliel’ho detto ai ragazzi...»

Non occorreva essere Eric Ambler per capire che quel tizio aveva la coscienza nera come il carbone. Dava lunghe boccate alla sigaretta, i suoi occhi vitrei non ci guardavano, tutta la sua attenzione era concentrata su qualche regione immonda, su un pezzo terribile e nauseante della storia recente, su quello che Conrad ha chiamato cuore di tenebra.

«Bel tatuaggio» gli dissi perché continuasse a parlare.

«Sì, me lo sono fatto quando ero in marina. Non avrei mai dovuto lasciare la marina, ma i ragazzi mi hanno chiamato...»

«Ha combattuto alle Malvine?» domandò Soriano.

«No, io mi occupavo d’altro, avevo altri compiti, per quello conosco i ragazzi. Ma abbiamo esagerato, troppi morti...»

Cortázar ha spiegato che è assurdo cercare le storie, perché sono loro che acquattate, nascoste, stanno in paziente attesa dello scrittore che avrà la missione di scriverle. Soriano e io ci credevamo fermamente, solo non avevamo mai pensato che una storia potesse scegliere tutti e due, che ci stesse aspettando in un bar poco illuminato. Non volevamo quella storia infame, piena di merda, ma era lì e usciva faticosamente a scatti dalla bocca lurida di quello straccio d’uomo. Conosceva il cuore di tenebra e ci invitava a entrare.

«Così avete esagerato» lo pungolò Osvaldo perché continuasse.

«Tanti morti, più di ottanta. Io non ho niente contro gli ebrei, non mi hanno mai fatto niente di male...»

Quel rottame umano si interruppe, erano entrati tre uomini, tre quarantenni che si diressero con passo sicuro al nostro tavolo. Uno di loro non riusciva a nascondere la pistola che portava sotto il giubbotto di pelle.

«Vieni con noi, Cacho, andiamo a bere qualcosa da un’altra parte» disse uno.

«Vi stava importunando con le sue cazzate?» domandò un altro.

«Ci ha chiesto una sigaretta. Gli abbiamo detto di andarsene ma sembra sordo» rispose Soriano.

«Scusate. È un coglione di prim’ordine» e insieme lo portarono via.

«Deve pagare qualcosa?» gridò quello che sembrava il capo.

«Niente. Ma che non torni più» rispose il barista. Uscirono. Davanti al bar li aspettava un’automobile con il motore acceso. Osvaldo bevve un piccolo sorso del suo bicchiere d’acqua, fece una smorfia e sputò dei pezzettini del Montecristo.

«Che figlio di puttana» commentò.

Chiesi il conto, pagammo e ci avviammo in silenzio. Buenos Aires è una città che si ama o si odia, non ci sono vie di mezzo.

«Stiamo pensando la stessa cosa, suppongo» mormorò Soriano.

Aveva ragione. Stavamo pensando tutti e due alla tragedia dell’Asociación Mutual Israelita Argentina.

Alle nove e cinquantatré del 18 luglio 1994, una bomba aveva fatto saltare quel centro della comunità ebraica di Buenos Aires. Ottantasei vittime aveva provocato quell’attentato terroristico. Argentini, cileni, boliviani. Il governo di Menem aveva fatto tutto il possibile per sabotare le indagini e dopo uno scandaloso show di testimonianze fabbricate dalla polizia, piste false turche e iraniane, erano stati processati venti uomini, quindici dei quali erano poliziotti di Buenos Aires, di quella stessa polizia che il governatore della città, Duhalde, definiva la migliore del mondo.

Forse eravamo stati accanto a uno di quei criminali, forse il caso aveva voluto che quel relitto umano si sedesse al nostro tavolo per farfugliare frammenti di una storia nascosta, i cui dettagli sono noti solo nelle cloache del potere. E cosa potevamo fare? Quello che osano fare certi nostri personaggi? È vero che loro si prendono la rivincita e si vendicano per noi e per tutti quelli che conservano la sacrosanta rabbia degli sconfitti, dei traditi, ma i nostri vendicatori sono ingenui, sono di carta, nelle loro vene scorrono fiumi di inchiostro, è per questo che sono integerrimi.

Continuammo a camminare, due uomini, due scrittori profondamente innamorati della vita, finché arrivammo all’incrocio tra avenida Santa Fe e calle Paraná.

«Pensiamoci su con calma e quando torni ne parliamo» disse Soriano.

Come sempre ci scambiammo un abbraccio fraterno: stammi bene, stammi bene anche tu, chiamami appena torni, ciao, ciao.

L’ascensore mi lasciò davanti alla porta della cucina dell’appartamento di Zulema e Jaime. Entrai e corsi al balcone che si affacciava su avenida Santa Fe. Qualcosa d’indefinibile, un imperativo dettato dalla vita stessa, mi ordinava di fare l’ultimo inventario della presenza del mio più caro fratello.

Osvaldo Soriano stava camminando a passi lenti verso avenida Callao, si fermò a salutare un edicolante, più avanti si chinò ad accarezzare un gatto vagabondo e poi continuò ad allontanarsi, sempre di più, finché la sua sagoma scomparve sotto gli alberi, finché non restò altro che il suo ricordo imperituro, definitivo, testardo, inossidabile, radicato per sempre nel cuore della mia memoria.

Storie ribelli
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